Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il 20 maggio 1999 ebbi una giornata molto travagliata e fui “fuori servizio” per 24 ore. La mattina seguente la radiosveglia, sintonizzata sul GR1 delle 7.00, mi riportò nel mondo con la notizia dell’uccisione di Massimo D’Antona, per mano delle BR. Dopo aver escluso un viaggio nella DeLorean di Marty McFly e Doc Brown e il fatto che si potesse trattare di materiale di archivio, dire che rimasi esterrefatto è voler minimizzare lo stato d’animo che mi accompagnò per tutta la giornata. Fino all’arresto della Lioce (la morte del suo compagno Galesi e dell’agente Petri) e con un altro omicidio di mezzo, quello del consulente Marco Biagi (collega di D’Antona), si è stati tutti assaliti dallo stesso interrogativo: “Chi sono questi e chi c’è dietro?”. Solo la Commissione Stragi aveva colto nel segno scovando un fil rouge con l’ultima fase di attività brigatista prima della “ritirata strategica”. Il cosiddetto filone fiorentino. Poi gli altri arresti (Mezzasalma, Morandi, Saraceni, Banelli, Broccatelli, ecc.), i processi e le condanne, il pentimento della Banelli. Poi una nuova ondata di arresti nel febbraio del 2007 (ben 15 tra cui i cinquantenni Davanzo,Latino e Ghiradi ma anche giovani ventenni come Mazzamauro e Salotto) con i quali sarebbero state sventate possibili nuove azioni militari. Le recenti polemiche dovute alle mancate estradizioni di Marina Petrella e Cesare Battisti da parte del Governo francese e quello brasiliano hanno contribuito ad arroventare il clima sociale già fin troppo acceso. Gli ultimi fatti delle proteste studentesche di Roma (l’Onda) contro il decreto Gelmini e i conseguenti scontri con gli studenti di destra di Blocco Studentesco, ed il disordine seguito al tentativo di forzare i blocchi della polizia a Torino in occasione del G8 University Summit hanno definitivamente allontanato ogni possibilità di dialogo perché, in un clima da strategia della tensione, cercare di comprendere anni passati o conflitti presenti comporta l’essere etichettati come “pericolosi sovversivi”. E, sempre di questi giorni, l’imbrattamento della lapide dedicata alla memoria del Commissario Luigi Calabresi con la scritta “Calabresi assassino” probabilmente per opera di chi nel 1972 non era ancora nato o aveva da poco tolto il pannolino. Arresti e disordini di piazza possono essere il segno che il rischio di un ritorno del terrorismo, ma più precisamente della lotta armata, sia ancora elevato nel nostro Paese? Ecco alcune recenti dichiarazioni in merito: Roberto Maroni «C'è chi parla del terrorismo e della violenza degli anni '70 come di una stagione chiusa, ma ci sono segnali inquietanti da indagini nelle scorse settimane, che indicano che non possiamo stare così tranquilli, segnali che ci fanno considerare che l'attenzione nei confronti di questo fenomeno non può essere abbassata. Abbiamo altri appuntamenti significativi come il G8 dell'Aquila e ci attrezziamo per affrontarli, ma temo che episodi di violenza come quello di oggi a Torino potranno ripetersi». (19 maggio ANSA) Massimo D’Alema «O il ministro degli Interni ha degli elementi, e quindi deve informare il Parlamento, oppure dovrebbe usare una maggiore cautela» (19 maggio ADNKronos) Valter Veltroni «C'è un clima d'odio che rischia di degenerare, nella società italiana si sta facendo di nuovo strada una certa deriva giustificazionista della violenza. Sono cose che non possono essere tollerate. «Non consideriamo mai concluso una volta per sempre il rischio del terrorismo, non dobbiamo sottovalutare che quando emerge una crisi sociale c'è il rischio della violenza» (19 maggio ADNKronos) Olga D’Antona «Non si può abbassare la guardia in questo Paese dove il terrorismo sembra entrare in immersione ma poi come un fenomeno carsico riemerge. Non si può solo seguire l’emergenza ma ci vuole un’azione di prevenzione» Paolo Ferrero «Grazie a Dio oggi mi pare il terrorismo in Italia non ci sia, e questo è assolutamente un bene. Non bisogna mettere insieme le contestazioni anche quelle dure che non condivido per nulla, e il terrorismo. Sono due cose diverse e penso che sia sano tenerle distinte» (20 maggio ANSA) Armando Spataro «Io penso che sia allarmismo, devo essere sincero ed onesto. E’ ovvio che non si può minimamente abbassare la guardia e anche questo tipo di antagonismo che teorizza la violenza vada tenuto sotto controllo. Ogni democrazia avanzata deve fare i conti, quasi fisiologicamente, con manifestazioni di violenza di questo tipo. Ma attenzione a lanciare allarmi che gli addetti ai lavori sanno tenere nella giusta dimensione ma che potrebbero essere non solo infondati ma favorire fughe verso la rinuncia dei propri diritti pur di sentirsi garantiti sul piano della sicurezza. E’ una vecchia storia». (19 maggio TG2 Punto di Vista) Ora io non sono un esperto e non sono nemmeno un addetto ai lavori. Ma il gioco cui stiamo assistendo, non mi piace per niente. Il fatto di sapere che un giorno siamo sotto la minaccia del ritorno degli anni di piombo e l’altro potrebbero esserci i presupposti per una riappacificazione con il passato mi sembra tanto il gioco delle tre carte dove, magari, per pura combinazione una volta ti può anche capitare di vincere ma alla fine è sempre lo Stato che sbanca. Ho detto Stato? Scusate, volevo dire il banco…
Lorenzo Conti, figlio dell’ex Sindaco di Firenze Lando Conti ucciso dalle BR nel 1986, in una lettera a Napolitano (nella quale ha espresso forti critiche nella gestione della II giornata per le vittime del terrorismo) ha riproposto un ritornello che da tanti anni si sente in Italia: chiudiamo gli anni di piombo facendo emergere la verità ma rinunciando a condannare i colpevoli dei crimini confessati. Se non fosse perché trattasi apertamente di un'ipotesi irrealizzabile, sarebbe un’affermazione da standing ovation. Perché il concetto "verità in cambio di impunità" è una pura illusione? Procediamo con ordine. Si porta sempre l’esempio del Sudafrica e del modo voluto da Nelson Mandela come strumento strategico per la riconciliazione nazionale dopo l'apartheid. In Sudafrica, però, ci si dimentica che la parola riconciliazione non fu affidata alla giustizia ma ad una Commissione (la Truth and Reconciliation Commission) che per le stesse parole del suo Presidente Desmond Tutu «fu istituita come meccanismo per gestire le ingiustizie del passato; perché altrimenti quelle stesse ingiustizie avrebbero continuato ad affliggere il nuovo governo e a minacciare le fragili strutture della nuova democrazia del Sudafrica» e come precisò ancor meglio lo stesso Mandela «nonaveva l’obiettivo della giustizia ma della verità: la verità dei fatti, la verità imbavagliata e incatenata nelle camere di tortura e nei luoghi occulti dove operavano gli aguzzini dell’apartheid» Altra peculiarità della soluzione sudafricana fu che per ottenere l'amnistia da condanne per la violazione dei diritti umani non era necessario il pentimento né il rimorso, né tantomeno il perdono che, a volte, veniva accordato dalle stesse vittime o dai loro parenti. Veniva richiesta invece l'ammissione dettagliata, completa e pubblica dei propri crimini. Era questa l’auto-punizione esemplare, un’esperienza traumatica che rappresentava, contemporaneamente, anche il superamento dei propri atti. Come sono andate le cose in Italia? La giustizia ha processato oltre 6.000 persone infliggendo valanghe di ergastoli ed anni di carcere, ha istituito le carceri speciali all’interno delle quali le violenze sono continuate, spesso, a parti invertite. Quando coloro che avevano impugnato le armi, hanno capito che l’esperienza era finita e che occorreva ammettere la propria sconfitta e lavorare insieme per la chiusura di quegli anni come frutto di un’esperienza collettiva, la politica ha completato il lavoro iniziato dai magistrati negando fino alla nausea l’esistenza di un conflitto sociale e sottolineando come tutti i crimini commessi fossero solo il frutto dell’opera di pochi delinquenti isolati dal resto della società. L’unica variante era sul tentativo di attribuire oltre confine la direzione e la guida di questi “manovali della rivoluzione” (naturalmente a carico di una delle due grandi potenze a seconda della parte dalla quale si stava). Per quanto riguarda la verità, ci sarebbe da scrivere un trattato enciclopedico ad iniziare dal porsi alcune domande fondamentali. 1) Chi dovrebbe dire la prima verità? 2) Si dovrebbe parlare dei propri crimini o sarebbe preferibile si potesse chiamare in causa anche terze persone? 3) Nel caso dovrebbe trattarsi esclusivamente di gente viva (in modo che siano possibili delle repliche)? Problemi non da poco. Proviamo a discuterne. Il primo punto. Che ne dite se a parlare per primo sia chi, fino ad ora, ha detto di meno o ha sempre negato tutto? Non sarebbe un cattivo punto di partenza. Dalla parte degli ex terroristi in molti hanno scelto la strada della dissociazione o del pentimento e, Peci a parte ma per i motivi che tutti conosciamo, nessuno ha avuto in premio l’impunità. Mai sono stati tirati in ballo personaggi esterni alle organizzazioni, persone della società che pur non avendo aderito alle scelte militari potrebbero averne condizionato o favorito alcune azioni. Cosa potrebbe emergere da queste ammissioni? Mah, padroni di casa, suggeritori culturali, prestanome. Sinceramente non credo aiuterebbe più di tanto la riconciliazione sapere se il direttore di una testata giornalistica abbia ospitato incontri tra brigatisti e altri personaggi più o meno ai margini della lotta armata. Anzi, la loro impunità servirebbe quasi certamente ad accentuare le divisioni politiche odierne fondate sul rassicurante alibi delle guerre del passato. C’è qualcun altro che non ha mai parlato? A pensarci bene, direi proprio di si. Le recenti acquisizioni di documenti e l’inchiesta che Stefania Limiti ha ben rappresentato nel suo “L’Anello della Repubblica” dimostrano che in Italia sono sempre esistite delle strutture illegali e clandestine alle dipendenze di pochi personaggi politici (adesso si capisce anche perché per 40 anni al governo ci siano state sempre le stesse persone) che hanno avuto ruoli importanti in vicende chiave della nostra democrazia. E se nel caso Cirillo l’aver mediato segretamente con Giovanni Senzani e la Nuova Camorra di Raffaele Cutolo e l’aver sborsato oltre un miliardo di lire ha portato alla liberazione del politico democristiano, nei casi di Moro e Kappler le cose sono andate diversamente. Intendiamoci. E’ lecito che uno Stato si doti di strutture segrete, se queste devono utilizzare la segretezza per garantire, attraverso dei sacrifici, il bene di tutti. Ma se queste sono alle dipendenze d una ristretta cerchia politica e non possono essere al servizio della magistratura perché inesistenti, ed aggiungiamoci anche che si dovrebbero occupare di affari sporchi come incidenti e omicidi, allora io le chiamerei sovversive. Io credo che lo Stato non ci abbia detto ancora nulla. E anche se i problemi siano potuti provenire da singoli disegni criminosi operati da strutture dell’intelligence o di forze armate convenzionali e non, dubito che i vertici della politica non ne siano venuti a conoscenza e, di conseguenza, non abbiano autorizzato certe strategie. Magari correggendole e assicurando protezioni. Caro Conti, come si sentirebbero le famiglie delle vittime di piazza della Loggia o di piazza Fontana se qualche funzionario di Stato accogliesse il suo invito e dicesse una verità imbarazzante? Sareste pronti a sobbarcarvi anche questo peso? E a che servirebbe? Ad accendere ancora di più il conflitto? No, caro Conti. Non ce la possiamo permettere la verità in questo Paese. Non farebbe comodo a nessuno. E’ il “punto di equilibrio di Nash” della nostra storia recente, che permette a tutti di ricavare il massimo dall’assurda situazione nella quale ci ritroviamo. Spesso sento la gente chiedersi se i terroristi hanno vinto. Credo abbiano vinto tutti, credo sia stata trovata la strada per far pagare il meno possibile a tutti quando alla fine il più forte ha prevalso. Anche se non credo alla verità come gesto di auto-accusa, le posso assicurare che sono invece fiducioso che qualcuno sarà capace di sbrogliare alcune importanti matasse. Non un punto di arrivo, ma un bel punto partenza. Tanto per cominciare. Che ne dice di riaggiornarci al prossimo weekend? Sono con degli amici intorno ad un tavolo ed un simpatico spiritello mi ha appena rivelato il nome di una piazza, un anno ed una data di fine maggio. Non so voi, ma io mi segno l’appuntamento, senò rischio di prendere altri impegni.
Nel bel libro inchiesta di Stefania Limiti “L’Anello della Repubblica” (Chiarelettere) si fa riferimento alla richiesta da parte de L’Anello alla Nuova Camorra di Raffaele Cutolo (latitante durante il caso Moro) di fornire informazioni per individuare il luogo di prigionia dove le BR tenevano il Presidente DC Aldo Moro. Nell’inchiesta della Limiti emerge chiaramente che, attraverso Cutolo, L’Anello individuò la prigione di Moro in via Gradoli e che pur essendo in grado di liberare il Presidente DC, la struttura fu fermata da “importanti politici nazionali”. Tra le tante circostanze che sembrerebbero collocare la scoperta della prigione di Moro in via Gradoli, la Limiti porta la testimonianza della signora Franci una delle inquiline del 96/B (palazzina accanto a quella dove fu scoperto il covo brigatista il 18 aprile ’78) che notò dei gruppi di 7-8 persone che stazionavano davanti all’ingresso del cancello di accesso alle due palazzine del civico 96 ed avevano tutta l’aria di fare da pali (per maggiori dettagli rimando alle pagine 198-199 del testo). Il tutto poi si interruppe quando la notte tra il 4 ed il 5 aprile la signora sentì un gran traffico di persone che salivano e scendevano dalla scala A andando verso i garage trasportando cose pesanti. Il tutto durò circa tre ore e la signora, impaurita, restò pietrificata nel suo letto non avendo il coraggio di affacciarsi per vedere cosa stesse accadendo. Ci sono altre due testimonianze raccolte dal Reparto Operativo dei Carabinieri che parlano di queste persone viste nei pressi dell’ingresso dello stabile in questione e che sembravano controllare il traffico in transito verso il palazzo, l’ingresso di via Gradoli o la scala in ferro che scendeva verso i garage. La signora Sanciu ha riconosciuto tra i personaggi impegnati in queste attività i tre brigatisti Teodoro Spadaccini, Antonio Marini e Giovanni Lugnini arrestati nell’ambito della scoperta della tipografia di via Foa e riconosciuti in quanto il quotidiano “Il Tempo” ne aveva pubblicato le fotografie. La Sanciu ha anche precisato che essi stazionarono in via Gradoli dalla fine di marzo sino all’11-12 aprile. Elias Chamoun, invece, non solo riconobbe sia Spadaccini che Lugnini ma si disse certo di aver visto più volte il primo a bordo di un’Alfa Romeo scura che transitava più volte da via Gradoli. Disse anche di aver visto più volte Lugnini in via Gradoli e riteneva che abitasse in quella strada proprio al civico 96 da almeno un anno, tanto che era solito legare un motorino “Ciao” ad un’anta del cancello d’ingresso. Agli inizi del mese di aprile l’amministratore ebbe a lamentarsi con il Lugnini di questa sua abitudine (Chamoun assistette alla scena da poco lontano) e a seguito di ciò non ebbe più modo di notare né la moto né la persona. Due testimonianze chiave che si aggiungono a quelle ritrovate dalla Limiti e che ci raccontano di una strana attività di sorveglianza di cui godeva quel caseggiato al civico 96 di via Gradoli. E’ un’attività insolita per le BR questa sorveglianza esterna. Stavano li per solo per proteggere una base strategica o perché accanto a quella base c’era un tesoro più importante da preservare? Un’osservazione, a scanso di equivoci. Ovvio che a quel gruppetto non potesse essere affidata un’attività di difesa militare in caso di blitz e quindi il loro compito non doveva essere quello di protezione fisica ma di tutela logistico-informativa di un sito e, soprattutto, delle persone cui a questi luoghi avevano accesso. Una specie di " service h24" che poteva garantire la comunicazione ed il contatto continuo tra parti interne e/o esterne che, in quel periodo, avevano grande necessità di interagire…
Dopo mesi di riservatezza assoluta (e vi assicuro che mantenere un segreto del genere l'è dura) è finalmente in tutte le librerie il libro inchiesta sulla "madre di tutte le stragi", ovvero la strage del 12 dicembre 1969 che uccise 17 persone e che ne portò altre due come quella dell'anarchico Pinelli e del commissario Calabresi. Settecento pagine di inchiesta, una enormità, soprattutto se si pensa che 300 pagine infarcite di virgolettati presi dai libri sono le inchieste alle quali siamo abituati. Un'opera colossale, da studiare con attenzione ed umiltà uscita dal genio di Paolo Cucchiarelli. Un lavoro da affrontare con grande umiltà perchè non deve essere preso come l'ennesima tesi di comodo (o accomodante) ma come il risultato di uno studio lungo e di un lavoro sul campo, analizzando i dati ed i fatti ed ascoltando tanti protagonisti ed osservatori privilegiati. Tante novità, come quella ripresa da tutte le agenzie che riguarda la presenza di due bombe, una di matrice anarchica (ad effetto dimostrativo) ed una fascista (Ordine Nuovo, per uccidere). Io non ho ancora letto il libro ma le anticipazioni accennatemi da Cucchiarelli lasciano immaginare uno scenario davvero devastante per le conoscenze acquisite in 40 anni di depistaggi. Cucchiarelli dimostra come il principale obiettivo politico di tutta l’operazione fosse Aldo Moro, che, nel novembre del 1968, aveva varato la “strategia dell’attenzione” nei confronti del Pci. Con le loro bombe i neofascisti tentarono di far ricadere tutta la colpa della strage sugli anarchici e sull’editore di sinistra Giangiacomo Feltrinelli. Ecco perché, da molti mesi, nelle presentazioni del mio libro sto proponendo una proporzione suggeritami da Cucchiarelli e che, a prima vista, poteva sembrare azzardata e illogica: "piazza Fontana sta a Moro come via Fani sta a Moro". Insomma, di materiale nuovo e di grande qualità ne abbiamo abbastanza e abbiamo tutto il tempo per studiarlo e fare le nostre analisi. Vorrei che tutti ci prendessimo un impegno. Studiare con attenzione i contenuti e poi parlarne, rifletterci su, condividere o confrontarci sulle differenze. Una sola preghiera: leggiamo il libro, prima di tutto.
Non è neanche un giorno che si parla dell'inchiesta di Paolo Cucchiarelli su piazza Fontana che già si sono scatenati " i dilettanti allo sbaraglio", cioè quella categoria di persone che, dall'alto della loro saccenza, pensano di poter irridere un lavoro di 10 anni, solo perchè da un articolo su un quotidiano, hanno capito tutto. Non so chi sia materialmente l'estensore del post tratto dal blog BlitzQuotidiano che pubblico qui sotto, ma di chiunque si tratti devo dire che lo prenderò ad esempio sul come non fare giornalismo e sul come non trattare un argomento come lo stragismo e tutti i morti che si è portato dietro. Dunque, a questo link, trovate la seguente "perla".
Terrorismo/ Chi mise la bomba a Piazza Fontana? Risposta del “Corriere”: fascisti e anarchici, le bombe erano due. E il dramma diventa commedia |
Chi mise la bomba nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura il 12 dicembre del 1969? Chi uccise e ferì, chi organizzò la strage? I fascisti o gli anarchici, la destra o la sinistra eversiva? Da 40 anni si rincorrono opinioni, ricostruzioni, processi. Ora un’inchiesta del Corriere della Sera risolve salomonicamente la questione e applica la “par condicio” della bomba. Insomma, chi la mise? Elementare Watson, la misero tutti perchè le bombe erano due, una fascista e una anarchica. La prima fece scoppiare la seconda. Come e perchè le due bombe si sono date appuntamento lo stesso giorno nella stessa banca non risulta chiarissimo. Chiarissimo è invece che con la trovata delle due bombe due la storia diventa finalmente revisionata ed equanime: una bomba per uno non fa male a nessuno. Una pagina intera di giornale per sostenere tutti colpevoli: Freda e Ventura ma anche Valpreda e Pinelli. Una pagina intera per raccontare un dramma italiano come fosse una commedia, una commedia all’italiana. Se non ci fossero quei poveri morti di mezzo, lo sceneggiatore del nuovo copione potrebbe essere la premiata coppia dei fratelli Vanzina. |
Possiamo dire che è un "pezzo da manuale"? La paternità dell'inchiesta viene attribuita al "Corriere della Sera", la tesi delle due bombe è definita "salomonica", quindi nata con l'obiettivo di posizionarsi come giusta ed imparziale, poco chiaro risulterebbe come le due bombe sarebbero arrivate nella stessa banca. Alla certezza che l'autore del post non ha letto il libro, si aggiunge il sospetto (neanche troppo infondato) che non abbia neanche letto l'articolo del Corriere. La cosa più sconvolgente è l'idea che questa persona si è fatta di inchiesta giornalistica. Che sarebbe possibile, cioè, sintetizzare un'inchiesta come quella per una strage che fa 17 morti, in una pagina di quotidiano (anzi, per l''autore una pagina intera sembrerebbe anche troppa per le tesi riportate...). Neanche il Commissario Basettoni riuscirebbe a condensare un'inchiesta sul colpo grosso a Topolinia in una sola puntata di Topolino. Ma secondo l'autore del post (del quale mi piacerebbe davvero conoscere il nome) il Corriere sarebbe riuscito ad arrivare alla verità in un'inchiesta dove si sono arenati 11 processi, e riassumere i risultati in una sola pagina. Forse è vero che "una bomba per uno non fa male a nessuno". Ma articoli come questo fanno male alla storia ed al giornalismo. Un'aggiunta del 29 maggio, per la cronaca. Dopo il mio post di ieri, gli autori dell'articolo in questione hanno modificato il testo rettificando sia la fonte che ha prodotto l'inchiesta sia aggiungendo delle formattazioni al testo.
Mi auguro che la rettifica più importante, e cioè dell'attribuzione dell'inchiesta a Paolo Cucchiarelli, sia dovuta ad una rilettura più attente dell'articolo del Corriere e che questo possa suggerire maggiore attenzione le prossime volte nel riportare le notizie...
Si è parlato di riconciliazione, nelle settimane scorse. Si è invitato chi poteva parlare a dire quello che sapeva. Si è sollecitato chiunque, nel nome della riappacificazione storica, a contribuire affinchè la verità sulle principali tragedie italiane prevaricasse i piccoli interessi di bottega. Il 27 maggio (l’altro ieri) viene annunciato il primo libro della collana inchieste di Ponte alle Grazie, un lavoro immane sulla strage di piazza Fontana, la madre di tutte le stragi. Paolo Cucchiarelli era consapevole, prima dell’uscita del libro, che la sua tesi potesse risultare scomoda sia a destra che a sinistra. Ma i dati oggettivi della sua inchiesta hanno portato all’ipotesi delle due bombe. E lui ha avuto il coraggio di metterla sul tavolo per discutere, sperando che dagli “elementi dissonanti” della sua inchiesta qualcosa o qualcuno potesse inserire i tasselli mancanti (prevalentemente nomi e cognomi) che non spetta di certo ad un giornalista fare. E invece niente. Neanche la soddisfazione del preannuncio di una querela o un articolo in prima pagina che smonta ad una ad una le analisi di Cucchiarelli. Tempi duri, questi, per un giornalista d’inchiesta. Poche testate hanno riportato la notizia, qualcuna con una forma di diffidenza “a prescindere”. Pochi blog hanno dato risalto all’ipotesi, fosse pure per affossarla. Mi viene in mente il clamore che fece, a settembre, l’uscita della riedizione del libro dell’infame, che nulla conteneva di nuovo se non la notizia che Peci s’era beccato un tumore che diceva di aver sconfitto (la parola sconfitta, però, è da utilizzare con cautela in certe patologie). Paroloni, recensioni, urla. E, soprattutto, la presunzione di invitare tutti gli ex brigatisti a raccontare la verità, come aveva fatto Peci. L’ex, malaticcio, pentito da prendere ad esempio. Salvo il fatto che nel suo libro Peci non dicesse nulla di nuovo rispetto a quanto già non si sapesse e che dopo trent’anni le indicibili verità non possono ancora essere rivelate. Quando uno, invece, cerca seriamente di portare un contributo alla verità (magari migliorabile, per carità) cosa accade? Che piuttosto di scegliere il confronto si opta per la più comoda strada della non curanza. Non mi si venga a dire che in questo Paese c’è la volontà di riappacificazione, di voler voltare pagina. Io credo che ci sia una precisa strategia: quella di saltare le pagine che non fa piacere leggere e rileggere la storia sulla base di come si vorrebbe che queste fossero scritte. E’ destabilizzante, per il nostro Paese, che qualcuno dica che quelle pagine sono state scritte e sarebbe il caso che ci si prendesse la briga di leggerle. Sono passati 40 anni, sarebbe il caso, come dice Cucchiarelli, che la prassi della politica riprendesse ad essere fondata sul rispetto della verità. Alcuni link interessanti di approfondimento: Interviste dopo la conferenza stampa del 28 maggio 2009 a Milano Intervista di Alessandro Forlani per "Pagine in frequenza"Piazza Fontana: la giustizia alza bandiera biancaLa strage dai capelli bianchi 30 Giugno 2001: Tre ergastoli per Piazza Fontana Piazza Fontana 30 anni dopo
E' passato una anno da quel 30 maggio in cui Grazia Di Donna, giornalista dell' ADNKronos è stata stroncata da un infarto a soli 49 anni. Persona speciale, davvero, per chi ha avuto il privilegio di conoscerla. Persona disponibile con tutti, al contrario di altri suoi colleghi che pur ricoprendo incarichi molto meno prestigiosi sono molto bravi nello sport nazionale del "chi se la tira di più". Ma quando telefonai alla redazione dell'ADNKronos, nella quale lei lavorava dal 1980 e dove ricopriva l'importante ruolo di caposervizio della redazione Interni, mi fu passata senza problemi e fu pronta ad ascoltarmi. Poi lesse il mio libro, appena uscito (era il 2007), le piacque, discutemmo di molti aspetti, ci confrontammo ed ebbi la sensazione che mi stesse mettendo al suo stesso livello. Lei, che di esperienza ne aveva davvero ed io, che ero l'ultimo arrivato e lo sono tutt'ora. Grazia e' stata per anni la cronista di punta dell'agenzia, seguendo i principali avvenimenti di cronaca giudiziaria e le maggiori inchieste sul terrorismo, (l'attentato al Papa, le Brigate Rosse, la strage di Ustica, Gladio, l'affaire Mitrokhin, l'inchiesta su Telekom Serbia, per citare solo le vicende più note al grande pubblico. C'eravamo sentiti pochi giorni prima, con Grazia, perchè stavamo valutando assieme alcune analisi. Poi i miei impegni lavorativi mi avevano costretto a rimandare alcuni propositi e quando nel novembre scorso decisi di ricontattarla, prima di chiamarla telefonicamente mi feci un giro online per vedere se aveva scritto qualcosa di nuovo che mi era sfuggito. Fu così che appresi la notizia e, ricordo, il mio pomeriggio lavortivo finì li. Il resto fu un girovagare di pensieri, ricordi (piccoli) e immagini. Il giorno dopo chiamai un amico comune per chiedere conferma e per sapere qualcosa di più. Non mi aveva avvisato perchè la cosa lo sconvolse molto a livello umano, era persona di cui si fidava e, mi disse "ora mi sento molto più solo". Fu allora che realizzai davvero cosa avevamo perso. E spero che da lassù possa provare un po' di quella felicità che per tutta la sua vita ha regalato alle persone che hanno avuto il dono della sua compagnia.
Ieri sera si è chiusa la rassegna " Riparliamo degli anni 70" con un appuntamento che ha incollato alle sedie gli intervenuti per oltre due ore e mezzo. Massimo Veneziani ci ha parlato di come è nato il libro, di come si è evoluto e anche alcuni retroscena legati alle critiche che il testo ha sollevato nella critica. Nicola Biondo non è riuscito a raggiungerci per impegni sopraggiunti e per il complicato spostamento Sicilia-Puglia che di certo non consente dei viaggi lampo. Al telefono abbiamo avuto il piacere di ascoltare tanti interessanti contributi. Aldo Giannuli ci ha raccontato della difficoltà di ricercare e muoversi tra i documenti Rita Di Giovacchino ha spiegato ci ha chiarito il ruolo che la Banda della Magliana ha giocato nella Roma degli anni '70. Stefania Limiti, infine, ha esposto con chiarezza la logica che ha contraddistinto una struttura clandestina dello Stato chiamata Anello con il compito di riferire esclusivamente al Presidente del Consiglio. A tutti e tre il mio infinito ringraziamento, anche per aver sottratto loro preziosi minuti di un sabato semi-estivo. Le mie scuse, invece, all'Avvocato Licia D'Amico che avrebbe dovuto sostituire l'intervento telefonico di Rosita Pecorelli che, purtroppo, ha dovuto rinunciare per un forte mal di gola. L'Avv. D'Amico ci avrebbe parlato della figura di Mino Pecorelli e della capacità del giornalista di acquisire informazioni a tutti i livelli caratteristica, questa, che probabilmente ne determinò l'uccisione. L'ultimo ringraziamento va a Brundisium.net e all'infaticabile Valerio Gatti (editore) che si è impegnato nella condivisione dell'iniziativa ed alla sua diffusione. Ad Oreste Pinto ed Angela Gatti, sempre dello staff di Brundisium.net. Ed al pubblico, che ha gradito gli argomenti ed i contenuti, ed ha seguito con grande interesse e partecipazione le serate. Un ciclo si è chiuso, ma non è che l'inizio. In autunno ne vedremo delle belle.
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Il 13 giugno p.v. si terrà il Premio Internazionale Città di Ostia, e nella sezione cultura il premio internazionale spetterà al poeta LICIO GELLI, attualmente agli arresti domiciliari perchè condannato dalla Cassazione per la sua opera di depistaggio nel processo per la Strage della Stazione di Bologna. Non mi sembra sia una notizia da commentare. Chiuso per lutto, si potrebbe scrivere se questo blog avesse la ribalta nazionale, in memoria delle 85 vittime della strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. L'unico commento che ritengo opportuno è il disprezzo ed il disgusto provato per persone come Licio Gelli ed ancor più per chi pensa dio poter utilizzare la sua immagine per pubblicizzare un inesistente premio di provincia che con questa edizione, forse, troverà qualche piccolo spazio nei lanci ANSA. Così quegli oscuri (nel senso che stanno all'ombra dei riflettori) politicanti locali che si agitano dietro poltrone così piccole da stare troppo strette avranno i loro 5 minuti di visibilità nazionale e potranno vantarsi di aver portato alla ribalta mediatica un insignificante premio, che da quest'anno sarà ancora più insignificante. Indipendentemente dalla qualità letteraria delle sue opere, io credo che qualsiasi uomo di cultura dovrebbe vergognarsi di sedere allo stesso tavolo di chi, come Gelli, ha contribuito ad ammazzare una seconda volta, con i suoi depistaggi, 85 cittadini che quel 2 agosto, probabilmente, andavano in vacanza dopo un anno di duro lavoro. Fossi uno di loro, sabato prossimo, darei buca e chiederei che fosse letto al pubblico un comunicato che potrebbe suonare più o meno così:
"Gentili Organizzatori del Premio Internazionale Città di Ostia, mi spiace non poter essere presente alla Vs meritevole manifestazione, ma purtroppo stasera sono morto assieme alla coscienza sociale di tanti connazionali che vorrebbero si superare le divisioni del passato, ma che proprio non se la sentono di vedersi passare sopra il bulldozer della rimozione storica elevando a figura di nobile poeta una persona, attualmente in detenzione domiciliare, ed il cui passato si commenta da solo. A meno che, per par condicio, non sia prevista la premiazione di altri personaggi di spicco per la nostra moralità quali, ad esempio, tale Salvatore Riina o tale Bernardo Provenzano. In tal caso sarei pronto ad accettare dal Signore, il miracolo della resurrezione Con ossequioso rispetto"
Vorrei invitarvi ad inviare una mail e/o un fax di protesta ufficiale al Presidente del XIII Municipio di Roma On.le Vizzani. Forse si è ancora in tempo per impedire che un tale personaggio si esibisca in pubblico il 13 giugno. municipio.13@comune.roma.it Ostia Via Angelo Celli, 2/c, telefono 0669613333 o 065622701, fax 065622339 Allego la protesta dei cittadini di Ostia
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