Mio zio paterno, Antonio Castronuovo, è sempre stato attivo in politica e ricordo ancora, quando da bambino mi recavo al "paese" a casa di mia nonna, le sue interminabili liste di libri di politica, i quotidiani sempre sotto il suo braccio (a mo' di baguette) e le sue discussioni con il prete del paesino di 800 anime e l'allora sindaco democristiano. Era segretario della locale sezione di Carbone (Pz) paese del quale divenne sindaco nel '90 per opera di una riedizione di quel compromesso storico che solo 12 anni prima aveva portato tanti problemi alla nazione.
Spesso, soprattutto in estate, lui non c'era e mia nonna mi diceva che era andato in viaggio nell'est europeo per "studiare". Io ero troppo piccolo per interessarmi di quelle cose ma mi chiedevo cosa potesse avere da studiare a 30 anni e perché non lo facesse in Italia.
Solo recentemente ho scoperto quale era il vero scopo dei suoi viaggi ed in particolare di uno a Sofia nell'ottobre del 1973, poco dopo l'incidente (attentato) cui era stato vittima il segretario del partito Berlinguer. Tenetevi forte (e soprattutto si tengano forte coloro che monitorizzano il sito quotidianamente): Antonio Castronuovo si recava nei paesi dell'est per addestramenti clandestini, incaricato dai dirigenti filo-bulgari dell'epoca che, sostanzialmente, facevano capo ad Armando Cossutta.
Questa estate ho provato ad approfittare dell'esperienza e della cultura politica di mio zio, in una classica riunione di famiglia tutt'altro che clandestina. Gli ho chiesto cosa ne sapesse della Gladio Rossa, per avere una sua opinione, derivante anche dall'aver vissuto così in "diretta" quegli anni. La sua risposta mi ha sconcertato. "Come, non lo sai che ero un gladiatore rosso che si andava ad addestrare nei campi bulgari?".
In un primo momento pensai di aver capito male, ma il suo sguardo non sembrava contemplare lo scherzo. Poi ha cambiato espressione e con un sorriso che tratteneva a stento una forte risata ha aggiunto: "Hai letto il libro di Giovanni Fasanella sull'attentato a Berlinguer? Bene lui ha trovato il modo di insinuare, in maniera chiara e che lascia pochi dubbi, che un mio viaggio a Sofia nel '73 lasciasse sottintendere la partecipazione ad un campo di addestramento per gladiatori rossi..."
Scusa, scusa. Come? L'ennesimo scoop del giornalista di Panorama o una svista clamorosa?
Tornato a casa, rimproverandomi di essermi perso la "perla", mi sono procurato il libro in questione e me lo sono letto con calma. Nell'edizione uscita in allegato con L'Unità nel 2006, a pagina 40 ho appreso allibito: "[Cossutta] organizzava "viaggi-scambio", caldeggiando una degna accoglienza anche per una serie di oscuri dirigenti di sezioni di ogni angolo d'Italia, che presentava come "compagni che svolgono un'importante funzione". Quale fosse la natura dell'importante funzione di Umberto Pinna, segretario della sezione Serrenti di Cagliari o di Antonio Castronuovo, segretario della sezione Carbone di Potenza (per citare solo due dei personaggi che compaiono nelle lettere), Cossutta non lo specificava. Si trattava di militanti della cosiddetta Gladio Rossa, inviati nei paesi dell'Est per dei corsi di addestramento?"
Una prima osservazione mi è venuta da un termine preciso, 'oscuro', che può essere utilizzato sia per indicare il fatto che una persona non sia sotto la luce dei riflettori (quindi un po' nascosto dalla grande platea) ma anche e soprattutto per indicare una persona ambigua che ha da nascondere qualcosa. Mi ricorda quanto mi raccontò l'Avv. Guiso in un nostro colloquio ribadendomi quanto disse in Commissione Stragi: L'8 maggio il "Corriere della Sera" pubblica un articolo in cui io da illustre cassazionista divento oscuro avvocato di provincia e Tobagi mi dice, in sostanza: "Caro Giannino, ti stanno preparando il piattino. Ti vogliono fermare"
Sono davvero sconcertato da tanta semplificazione. Oltretutto essendo mio zio regolarmente in vita e assolutamente non in clandestinità (nonostante avrebbe dovuto esserlo con un passato del genere) Fasanella avrebbe dovuto, come minimo, provare a contattarlo per avere una sua versione. Non che fosse obbligato, intendiamoci, ma se avesse voluto davvero portare un contributo di conoscenza e non di rimescolamento delle cose credo sarebbe stato il minimo. Allora ho provato io a chiedere a lui qualcosa, anche perché credo la faccenda sia grave in quanto una simile leggerezza avrebbe potuto potrebbe portare a conseguenze poco piacevoli, considerando che c'era un'indagine in atto da parte della magistratura.
Come accennato in precedenza, mio zio approfittava dell'estate per andare a visitare paesi comunisti ed in genere si appoggiava a compagni delle sezioni del nord che erano più attive rispetto alla sua realtà lucana. Era una pratica diffusa all'interno del PCI, una tappa obbligata per chi volesse fare vita politica attiva e critica. In quel periodo si trovava a Milano e, tramite i militanti della locale sezione che frequentava, venne a sapere che il partito stava organizzando un viaggio di scambio-culturale a Sofia e che cercavano un compagno lucano disponibile ad aggregarsi. Lui fece qualche telefonata in segreteria regionale ma nessuno dei militanti lucani all'epoca aveva il passaporto. Nessuno, tranne lui, che avendo abitudine a viaggiare ne era in possesso. A quel punto decide di sfruttare l'occasione e di aggregarsi alla comitiva. Una delegazione di 7 compagni di varie sezioni italiane, guidata da Antonio Papalia, segretario della Federazione di Padova.
La "russa" Moskovic, Balilla d'oltre cortina
La visita durò circa due settimane e gli italiani furono portati in giro per fabbriche, scuole, uffici del partito, sempre con grande seguito e controllati in ogni movimento: basti pensare che i bulgari utilizzavano le famose auto Moskovic e i sette italiani erano divisi in tre auto su ciascuna delle quali c'era un interprete ed un compagno bulgaro di accompagnamento. Il corteo si apriva e chiudeva con un'altra auto. Mio zio, per le sue attività di studio che ancora lo caratterizzano e lo impegnano per quasi tutta la giornata, era solito fare diverse domande. Ad alcune di esse, ritenute "scomode" nell'ambito dei rapporti tra i partiti, il capo delegazione dopo averle etichettate come "spegiudicate" impedì all'interprete di formularle ("Compagno Castronuovo, evitiamo queste domande poco opportune...").
Insomma, mi sembra di aver capito che l'unico addestramento che si trovò a fare lo zio, fu quello nell'utilizzo adeguato della forchetta sicuramente perso a causa del cibo bulgaro che non era certamente all'altezza dei mitici "maccheroni al sugo" di mia nonna! Di quel viaggio, lo zio conserva un dettagliato diario che ogni sera compilava al rientro in albergo. Una quantità sostanziosa di appunti che mi auguro un giorno possano far capire alla solita cricca di storici e giornalisti alla ricerca di facili scoop che i viaggi-scambio dell'epoca erano una cosa seria e che c'erano dei militanti di base che li frequentavano arricchendo il proprio bagaglio culturale e portando delle voci critiche verso ciò che non ritenevano giusto nell'applicazione dell'ideale comunista.
Che poi potesse esistere una Gladio Rossa e che militanti comunisti potessero recarsi "clandestinamente" nell'Est europeo, questo è un altro discorso. Ma ritengo che, poichè tali personaggi non erano stupidi, gli addestramenti non fossero organizzati con tanto di lettera ufficiale e di materiale che sarebbe diventato, un giorno, patrimonio dell'archivio storico del partito che, almeno ufficialmente, non conosceva simili "entità parallele". La presenza di carte "ufficiali" secondo me sarebbe solo la dimostrazione che se ci fosse stata una organizzazione paramilitare del PCI, magari in collegamento con equivalenti strutture della terza internazionale, come minimo la direzione centrale del partito ne era a conoscenza e l'approvava. E quindi, anche il candido Berlinguer, non era esente da colpe.
E, anzi, a sentire i racconti dei vecchi militanti, il PCI era una cosa seria e, soprattutto, unitaria. Non esistevano le correnti ma solo delle visioni personali diverse tra i dirigenti della segreteria centrale. Chiunque fosse in disaccordo con la linea ufficiale del partito, ne era automaticamente fuori. Se ci sono stati dei dirigenti o dei militanti di primo piano che si sono mossi lungo strade poco "chiare" lo hanno fatto esclusivamente sotto il tacito consenso della direzione che, vuoi per calcolo vuoi per impossibilità, non avendo espulso i responsabili ne ha consentito l'operato. Se c'è stata una Gladio Rossa o se ci sono stati legami stretti tra militanti del PCI e brigatisti, sfatiamo il mito che il tutto sarebbe avvenuto in maniera clandestina e occulta al partito. Quando ho chiesto ad alcuni senatori dell'epoca cosa ne pensassero delle rivelazioni che l'ex direttore dell'Asinara Cardullo ha confidato proprio a Fasanella (il senatore triestino definito "il vecio", ritenuto da Cardullo ai vertici delle Br) ho solo ricevuto conferme che dei contatti e delle idee del collega di partito, tutti erano a conoscenza. Perché nessuno è mai intervenuto?
E allora è più giusto, per l'onore della verità, andare a "pescare nel mucchio" rimescolando i fatti e creando nuova confusione o iniziarsi a chiedere seriamente quale sia stato il vero atteggiamento del PCI nei confronti di quei movimenti e quegli anni e quali comportamenti siano stati decisi e portati avanti alle "Botteghe Oscure"?
Da qualche giorno a questa parte, precisamente da quando Mario Calabresi (figlio del commissario Luigi ucciso il 18 maggio '72 a Milano) ha pubblicato un articolo sulle vittime del terrorismo su Repubblica, si è animato sui giornali nazionali un interessante dibattito sul "caso Calabresi" e sul fatto se il suo omicidio possa essere considerato un atto di terrorismo o un "delitto politico". Adriano Sofri ha infatti risposto all'articolo di Mario Calabresi e da li si sono susseguiti un discreto numero di interventi...
Ho provato a mettere insieme una rassegna stampa con tutti gli articoli (leggi...) pubblicati dai diversi quotidiani per sostenere il dibattito che la prima risposta di Sofri ha generato.
Stavolta non voglio fare commenti data la complessità dell'argomento. La mia impressione, da osservatore esterno, è che stia per succedere qualcosa che potrebbe avere a che fare con la vicenda.
Prendendo spunto dal suo ultimo libro "'68, l'anno che ritorna" (Rizzoli, 2008) ho provato a chiedere a Franco Piperno fondatore di Potere Operaio e leader del movimento romano, quale sia l'eredità positiva e negativa che il movimento di contestazione del '68 ci ha lasciato. Oltre che per aver attraversato da protagonista gli anni della contestazione, Franco Piperno è anche noto per l'impegno civile che lo caratterizza nei dibattiti cui è chiamato a partecipare. Pur non avendo scritto molti libri è uno dei principali osservatori dei movimenti di resistenza critica al processo di globalizzazione che non si fonda sulla condivisione dal basso . '68 l'anno che ritorna, è un testo che parte dall'esperienza sessantottina e dal suo significato nel tentativo di fare un bilancio politico, culturale e sociale di un sogno infranto di giovinezza e rivoluzione di chi, come lui, si è schierato dalla parte dei perdenti perchè i posti della ragione erano già tutti esauriti.
Sono passati 40 anni ma ancora c’è chi difende il ’68 attribuendogli il merito di aver reso possibili molte riforme sociali di cui godiamo tutt’ora, e chi lo attacca indicandolo come causa principale dei “disastri” che hanno attraversato l’Italia negli anni successivi e che in parte ci portiamo sino ad oggi. Quale è l’eredità positiva che il ’68 ci ha lasciato? Franco Piperno: La critica alla modernità. Il ’68 proprio perché era un movimento di giovani intellettuali ha attaccato lucidamente il nucleo della sofferenza moderna che è l’astrazione della modernità. L’idea dei diritti dell’uomo e tutto il resto che ha messo su un imperialismo quanto mai chiuso e ideologico. Criticare i diritti dell’uomo tra le tribù indiane sopravvissute è totalmente ridicolo in quanto caratterizzate da una concezione della vita e dei legami sociali completamente diversi, poco basata sull’individuo e molto sul collettivo. Quello che ha elaborato l’Europa nel ‘700 è un’idea di divisione dei poteri di rappresentanza legata irriducibilmente alla stessa Europa. Faccio un esempio. La distinzione tra potere giudiziario e potere esecutivo è semplicemente che in Europa i nobili vengono sistemati a fare i giudici e invece il Re acquista questa capacità esecutiva che prima non c’era. Quindi si arriva alla rappresentanza che sono in realtà i borghesi del ‘700, il Re che è la tradizione della mano pubblica e poi i giudici che sono i nobili che sono privati degli altri poteri e gli si dà il potere di giudizio. Pensare che invece il risultato della scienza politica è valida per l’Oceania come per la Lapponia è talmente ridicolo e provinciale che più non si può. Stiamo assistendo alle rovine di questo tentativo perché quello che sta accadendo con la globalizzazione è giusto la messa in evidenza della sua incapacità di funzionare. E ancora ne vedremo delle belle. Ma il ’68 ha fatto questo 40 anni fa, è talmente evidente che quando riprenderà una critica pratica alla nostra società saranno i magazzini del 68 a fornire gli strumenti e i sentimenti per affrontare questa guerra.
Il “68” ha portato con se elementi negativi che hanno prodotto effetti visibili anche nella nostra società? F.P.: Certo. Molti, come succede nei momenti di grande cambiamento. Intanto l’elemento della violenza che ferisce non solo chi la patisce ma anche chi la pratica. Penso alle ferite interne, ovviamente, ai mutamenti di carattere e della sofferenza che è implicita nella violenza sociale, non in quella criminale che ha altre radici ed è sempre limitata nel tempo. Qui si è trattato di un fenomeno di massa. Poi, come accade nelle sconfitte, è che la sconfitta non è semplicemente il fatto che tu “non sei riuscito” ma anche che interiorizzi questo e passi dall’altra parte! Ci sono pentiti di vario genere che occupano posti rilevanti. Fortunatamente in Italia, come in Giappone in Germania non sono tanti. In Francia ce ne sono certamente di più. Ma quello è di nuovo un aspetto della sofferenza dal punto di vista dell’anima sociale per cui quelli che hanno tentato di migliorare le cose o di farne una radicale trasformazione, oggi inneggiano a Di Pietro e alla legge all’ordine. Quello è un dolore, non è solo il fatto che uno si sia pentito. E’ semplicemente che Lanfranco Pace è stato con Berlusconi e in questo stare con Berlusconi ci sentiamo tutti coinvolti, come accade quando un tuo amico commette una sorta di tradimento delle sue idee, idee che una volta vi avevano resi amici. Poi si potrebbe continuare col fatto che la reazione al ’68, tanto in Italia quanto all’estero, ha comportato un peggioramento delle libertà, ma questo è tipico di ogni rivoluzione sconfitta. Il ’68 ha provocato tanto male ma nessuna trasformazione avviene usando i guanti.
La fabbrica è stato uno dei terreni di scontro che studenti e militanti di Potere Operaio hanno utilizzato per battersi al fianco degli operai nelle lotte per il salario, per i diritti sul lavoro, ecc. Come è cambiata la fabbrica dal ’68 ad oggi? F.P.: Di fatto la fabbrica si è computerizzata ed è venuto meno l’elemento di fatica fisica del corpo che era un fondamento importante per la presa di coscienza degli operai. La fabbrica si è come denaturata non solo nel senso quantitativo ma soprattutto perché la nuova tecnologia fa si che l’intervento dell’operaio (ma non so se è più possibile chiamarlo così. Forse dovremmo dire dell’impiegato…) sia del tutto ausiliario rispetto alle macchine. Questo comporta anche la scomparsa dell’innovazione operaia che era, in fondo, la base dell’orgoglio collettivo degli operai. Nella vecchia fabbrica l’operaio cercava in tutti i modi di risparmiare gesti per diminuire la fatica e questo richiedeva una capacità oltre cha manuale anche intellettuale. Tutto funzionava nel senso che gli operai cercavano trucchi per risparmiare lavoro, i capireparto annotavano questi trucchi. Dopo di che il nuovo protocollo dei gesti operai nella fabbrica fordista aveva interiorizzato questa scoperta operaia. Quella che Arquati con una bella espressione chiama “l’innovazione operaia”. Questo non è più possibile perché se pensiamo ad una fabbrica che costruisce laser il rapporto dell’esperienza dell’operaio è totalmente insignificante perché, contrariamente alla vecchia concezione della fabbrica, un operaio non sa neanche cosa è un laser e non riesce a dominare intellettualmente l’oggetto che costruisce. E questo in realtà va di pari passo con il ridimensionamento del bisogno di lavoro e quindi il bisogno di lavoro diventerà impellente per coloro che vogliono arricchirsi mentre per gli altri, poiché la società chiede meno lavoro, può essere un’occasione di estrema emarginazione o di un rapporto diverso col reddito. La società oggi è abbastanza ricca da garantire il necessario. Le crisi che noi abbiamo sono crisi di eccedenza che dipendono anche dai nostri consumi, che aumentano sempre di più e necessitano di migliori stipendi, comportano un riproporre senza fine lo stesso modello con le macchine che ci intasano. L’altra possibilità, naturalmente, è un altro modello di consumo, un altro rapporto con la merce che non è un concetto di austerità ma una cosa di qualità diversa. E’ più importante preservare la struttura delle nostre città dell’interno, al sud, che sono realizzate con l’idea della “città con gli orti” come Gerusalemme. C’è una vecchia idea mediterranea dove l’auto consumo è un elemento importante e non marginale o addirittura folkloristico. Mangiare un pomodoro raccolto dal proprio orto, per chiunque l’abbia fatto, non ha alcun rapporto col pomodoro che compriamo al supermercato. L’immagine vera di questo è Napoli, considerata città povera per cui la Comunità Europea manda miliardi di euro che servono per costruire le reti di consenso, a dare una specie di salario sociale a coloro che stanno col Governatore o con l’anti-Governatore. La conseguenza di questa situazione è che i rifiuti ricoprono gli esseri viventi. La quantità di consumi è così sproporzionata che la povertà di Napoli appare un problema fittizio ed il problema vero è un cattivo consumo collettivo. Come qualcosa che attraversa le persone dove ci sono alcuni innocenti e altri colpevoli. Siamo in una situazione nella quale dobbiamo cambiare abitudini e questo cambiamento di abitudini ha un carattere sovversivo perché ha la possibilità di sottrarsi al mercato. Non abbiamo bisogno di tutte queste merci, il bisogno è costruito artificialmente e per questo dà luogo a delle cose abissalmente contraddittorie. Attraverso i canali umanitari diamo dei soldi all’Africa per aiutare le popolazioni a non morire di fame. Poi mettiamo dei dazi sui prodotti agricoli che provengono dall’Africa per proteggere i nostri pseudo-agricoltori. Ma il modo più giusto di aiutarli non sarebbe vendere i loro prodotti ad un prezzo concorrenziale che loro ti offrono? Ma questo vorrebbe dire modificare gli equilibri politici in Francia dove gli agricoltori hanno un peso importante nella società. Siamo di fronte ad una gigantesca irrazionalità. Quello che crea sofferenza è l’astrazione che viene dall’avere definito alcuni concetti vuoti che si autonomizzano. Forse una rappresentazione più efficace ancora rispetto a quella di Napoli è data dal traffico. L’automobile all’inizio è stata un elemento di libertà del corpo per lo spostamento. Poco tempo fa ho letto una statistica del comune di Roma che dice che nel 1914, quando le auto era molto poche, si percorrevano da 15 a 18 Km in un’ora. Attualmente l’auto percorre in media circa 3 Km l’ora e se consideriamo che a piedi, con passo normale, se ne percorrono più di 4 è evidente che il traffico è diventato una trappola. Però è difficilissimo, paradossalmente non tanto per il ricco che forse è anche più disponibile, dire al povero che deve andare a piedi perché la prende come una regressione sociale. E questo è un dato oggettivo, generalizzato, lo si ritrova anche nei piccoli paesini dai caratteri ancora medievali completamente intasati da macchine.
Per concludere, una domanda sulla politica attuale. Che ruolo può avere oggi la sinistra e cosa comporterà il fatto che la sinistra cosiddetta “antagonista” non abbia più rappresentanza istituzionale? F.P.: Solo del bene. Intanto è evidente che c’è una crisi non nella sinistra radicale ma nella sinistra. Basta guardarli: dai Socialisti a Rifondazione sono dei rappresentanti in cerca di chi rappresentare. Hanno sempre fatto il mestiere di “rappresentanti”. E’ tutta una cosa storta fin dall’inizio. Mentre viceversa ci sono dei militanti che si sentono come orfani. Il punto è che bisogna pensare in una condizione di post-sinistra, non è riproponibile il modello statalista e soprattutto non è riproponibile l’idea della sinistra che i problemi si risolvono aumentando la ricchezza. I problemi di ridistribuzione della ricchezza non sono legati alla quantità di ricchezza ma alle relazioni tra le persone. Noi potremmo star meglio con una produzione persino diminuita rispetto a quella attuale. E’ tutta una cosa diversa, in cui si tratta di ricostruire una cultura ed una sensibilità. Probabilmente da questo punto di vista il volontariato, anche quello cattolico, è molto più vicino ad un altro modo non statalista ma comunitario di porre il problema ad un superamento della dimensione della nazione che è stato l’altro aspetto centralistico della nostra storia. Noi poi l’abbiamo preso pari pari dai francesi senza ereditare però da loro il rigore nella concezione dell’amministrazione pubblica. Il mio amico Deleuse un giorno mi disse che il guaio italiano è che l’Italia è stata concepita come un intreccio tra la capacità organizzativa piemontese e la fantasia napoletana. Poi però è andata a finire che la capacità organizzativa ce l’hanno messa i napoletani e la fantasia i piemontesi. Puoi pensare che disastro…
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