Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Leggo di un incontro/dibattito avvenuto un paio di giorni fa in cui, con la moderazione del giornalista Giovanni Fasanella, due ex si sono trovati a parlare del loro passato. Due ex, però, di opposta estrazione e che negli anni ’70 si trovavano da parti opposte della barricata: Alberto Franceschini (fondatore e leader delle BR) e Mario Mori (generale dei Carabinieri che alle BR dava la caccia). >leggi l'articolo tratto dal sito Panorama d'Italia<
Una prima riflessione che mi viene in mente è come mai non si sia levato il solito coro di disapprovazione in quanto, seppur accompagnato da un esponente delle istituzioni, sempre di ex brigatista si tratta e, in questi casi, consiglieri comunali e politicanti di ogni genere riescono ad ottenere il proprio minuto di visibilità inveendo contro un assassino, il suo diritto di parola e contro chi ha osato dargli voce.
C’è da dire che questa pratica, mediaticamente parlando, funziona, se è vero che qualcuno ha pensato di portarla ai massimi livelli inneggiando ad un “Fuori le BR dalle Procure”. Ma siamo in Italia e se la cultura su quegli anni è poca l’ignoranza, invece, è tanta. Ed aumenta sempre di più.
Una prova la trovo proprio nel tono dell’articolo (descritto quasi come un ritrovo tra due leader politici opposti che si sono fronteggiati nella conduzione di un Paese) e nelle considerazioni che vi sono presenti.
“Franceschini contribuì a fondare le Br con Renato Curcio e Mario Moretti e fu incarcerato dagli uomini di Mori prima di macchiarsi di fatti di sangue.”
Non è la prima volta che sento questa atrocità che è figlia del pensiero dietrologico che vedrebbe i primi brigatisti come buoni e ingenui Robin Hood che mai e poi mai si sarebbero macchiati dei crimini commessi dopo che l’Organizzazione fu decapitata proprio di Franceschini e dell’altro leader Renato Curcio.
Niente di più falso, per almeno due motivi:
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la linea di sviluppo dell’attacco allo Stato, la formulazione del SIM, della DC come nemico numero uno da abbattere attraverso i suoi uomini di spicco, la diede proprio Renato Curcio (“vecchia guardia” per così dire) nella primavera del 1975, nel suo breve periodo di libertà dopo l’evasione dal carcere di Casale Monferrato. Quindi dire che le BR successive siano state, dal punto di vista politico e del salto di qualità nella lotta, una cosa diversa è errato
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proprio Alberto Franceschini è stato tra coloro che in carcere ha più ferocemente condotto la lotta sia verso coloro che si pentivano o fossero solo in odore di pentimento, sia nei confronti dei compagni fuori allorché, al momento della scissione tra Partito della Guerriglia e Partito Comunista Combattente, si schierò con l’astro nascente Giovanni Senzani che fu protagonista dell’ultima stagione brigatista, un insensato precipitare in una spirale di crimini senza senso e fini a se stessi.
La storia delle BR è una storia collettiva, un’insurrezione dove non è possibile distinguere tra chi guidava un’auto, offriva riparo a latitanti, consegnava lettere o produceva documenti falsi e procurava armi. Una storia che ne ha visti i leader esserne responsabili al 100% dall’inizio alla fine.
Qualcuno obietterà: “Ma se uno era in carcere come faceva a contrastare, ad esempio, la decisione di rapire Aldo Moro massacrando la sua scorta?”. Vero, in parte. Perché anche stando in carcere, nessuno dei leader ha mai esternato una condanna. Curcio, in rappresentanza degli altri che in quel momento erano ancora sotto un unico “partito armato”, dopo l’uccisione di Moro ebbe parole molto dure, seppure frutto di una citazione di Lenin. E Franceschini era al suo fianco, era l’altro generale brigatista.
Non se ne esce da questo drammatico periodo della nostra storia applicando le semplificazioni algebriche per ridurre le responsabilità, ma capendo realmente cosa successe, al di la delle facili e comode dietrologie che spostano il problema su un altro terreno.
Non più una società che ha portato una parte non marginale di una generazione a volere una società più giusta (e questo è lecito) ritenendo che non si potesse che percorrere la strada della violenza (e fu questo l’errore) perché ciò che si voleva non erano nuove regole nella società in cui vivevano ma una nuova società che partisse dall’abbattimento di quella esistente.
Ma la più rassicurante immagine di una società buona e giusta nella quale forze esterne (per lo più straniere ed in genere i cattivi russi o americani a seconda del punto di vista) hanno voluto disturbare il nostro benessere agitando le nostre giovani generazioni attraverso presunti agenti segreti.
Riuscendo, in questo insabbiamento, a perseguire un altro importante risultato: inseguendo improbabili piste si riesce a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli indicibili segreti dello Stato che potrebbero, almeno in parte, emergere dalle carte di prossima desecretazione.
Ultimi giorni di relax per il popolo vacanziero, in una situazione da "limbo" in cui non sei fisicamente al lavoro ma neppure più con la mente in vacanza (discorso a parte per quelli che, come me, sfruttano le vacanze per sbrigare il lavoro arretrato con maggiore calma e all'ombra delle montagne...). In questa strana atmosfera, negli ultimi giorni, ho riletto alcuni passi della nuova edizione di " Io l'infame", il racconto biografico della vita dell'ex brigatista Patrizio Peci primo pentito della storia delle BR, sulla cui vicenda, non mi stancherò mai di ripeterlo, non è mai stata fatta piena luce. Nel libro, Peci racconta del tumore che l'ha colpito qualche anno fa e della sua lotta che l'ha portato alla vittoria contro questo terribile male. E di questo ne sono molto contento. Sia per l'aspetto umano, perchè quel tipo di malattie portano ad una sofferenza atroce ed alla consapevolezza di trovarsi su una strada sulla quale, dietro ogni curva, può nascondersi un muro di cemento armato sul quale sarà inevitabile disintegrare la propria auto. Ma anche perchè spero che Peci sopravviva molto a lungo, a sufficienza per raccontarci, quando i tempi saranno maturi e nessuno dovrà avere più nulla da temere, la vera storia di quei due mesi che vanno dal 15 dicembre 1979 (data della riunione della direzione Strategica alla quale partecipò) al 19 febbraio 1980 (data ufficiale del suo arresto). Ormai nessuno più vuole che la gente finisca in carcere, nessuno si scandalizzerebbe più sapendo che uomini dei servizi (o delle istituzioni che combattevano le organizzazioni di lotta armata) hanno sfruttato una ghiotta occasione per penetrare i segreti delle Brigate Rosse, conoscerne a fondo i meccanismi per poterli combattere e debellare. E' solo questione di scelte. Quello che mi preoccupa in questi giorni è che molti (quasi tutti) dei personaggi che sono a conoscenza di quei fatti, non ci sono più (Dalla Chiesa, Pignero, Bonaventura) o non hanno alcuna intenzione di parlare (come il gen. Bozzo che ha fornito una versione dell'arresto di Peci del febbraio '80 radicalmente diversa rispetto a come lo stesso Peci la racconta nel suo libro...). Dalla Chiesa Bonaventura Bozzo E allora mi auguro davvero che la vittoria di Peci sul suo male interno, possa farlo riflettere e dargli l'illuminazione necessaria per essere in pace con la propria coscienza. Almeno per dare un contributo di speranza a tanti familiari di vittime di quegli anni che intravedrebbero un barlume di verità, un piccolo spiraglio per capire meglio tanti episodi poco chiari. Dette a 30 anni di distanza, queste cose, ormai non arrecherebbero più conseguenze a nessuno ma solleverebbero molte coscienze da un dolore aggiuntivo dato dalla sfiducia di poter colmare le troppe lacune che tante ricostruzioni hanno. Per cui "lunga vita all'infame", perchè se morisse anche lui potremmo dire addio all'ultima possibilità che abbiamo di scrivere la parola fine sulla storia di Patrizio Peci. Perchè le rivelazioni postume, ahime, non hanno il privilegio della smentita. E ne sa qualcosa Germano Maccari (che proprio di questi giorni 9 anni fa morì in una patria galera): neanche 10 giorni dopo la sua scomparsa, Lanfranco Pace rilasciò un'intervista a "Sette" in cui affermava che lo stesso Maccari gli confessò di essere stato il solo a sparare contro Moro, dopo che Moretti fu colto dal panico e Gallinari da una crisi di pianto.
In questi giorni mi è capitato di parlare spesso con altri appassionati di storia degli anni ’70. Persone che sacrificano il proprio tempo libero e le proprie famiglie per cercare di capire meglio cosa ha attraversato l’Italia nei cosiddetti “anni di piombo”. E al centro di quegli anni, come tutto a se richiamare, il caso Moro. Ciascuno la vede a modo suo. Ciascuno interpreta gli stessi elementi in mille sfumature diverse. Ciascuno ha l’abilità di riuscire a convincerti che i suoi elementi “reggono” nella propria ricostruzione. Nelle interminabili discussioni, si salta di palo in frasca, si parte da via Fani per giungere alle aree limitrofe a Roma, per tornare a via Fani e finire al materialismo storico applicato alla classe operaia delle grandi fabbriche degli anni ’70. Mi sembra di essere una rana, che salto dopo salto, percorre le sponde del lago come un improbabile canguro reatino. Ma mi sembra anche di essere in una grande caccia al tesoro in cui qualcuno, da un livello superiore, dirige gli indizi e si diverte ad osservare come si allontanano dalla meta i partecipanti, utilizzando la nota legge di Truman “Se non li puoi convincere, confondili”. Ma solo perché il gioco prevede un unico vincitore che, come premio, avrà il privilegio di accedere a tale esclusivo livello. E per rappresentare questa sensazione non mi è venuto di meglio che il trovarmi in un campo di gigli che impregnano l’aria con un profumo che non è un profumo, intensi come un olezzo che non è una puzza ma che ti resta dentro per un tempo indefinito. Eleganti, dal fusto eretto, dalle importanti proprietà medicali e che, nell’iconografia religiosa rappresentano la purezza. Ricordiamoci, però, quanto Shakespeare sottolineò sui gigli: “ Quando marciscono i gigli mandano un puzzo più ingrato che quello della malerba”. A buon intenditor…
E' passato una anno da quel 30 maggio in cui Grazia Di Donna, giornalista dell' ADNKronos è stata stroncata da un infarto a soli 49 anni. Persona speciale, davvero, per chi ha avuto il privilegio di conoscerla. Persona disponibile con tutti, al contrario di altri suoi colleghi che pur ricoprendo incarichi molto meno prestigiosi sono molto bravi nello sport nazionale del "chi se la tira di più". Ma quando telefonai alla redazione dell'ADNKronos, nella quale lei lavorava dal 1980 e dove ricopriva l'importante ruolo di caposervizio della redazione Interni, mi fu passata senza problemi e fu pronta ad ascoltarmi. Poi lesse il mio libro, appena uscito (era il 2007), le piacque, discutemmo di molti aspetti, ci confrontammo ed ebbi la sensazione che mi stesse mettendo al suo stesso livello. Lei, che di esperienza ne aveva davvero ed io, che ero l'ultimo arrivato e lo sono tutt'ora. Grazia e' stata per anni la cronista di punta dell'agenzia, seguendo i principali avvenimenti di cronaca giudiziaria e le maggiori inchieste sul terrorismo, (l'attentato al Papa, le Brigate Rosse, la strage di Ustica, Gladio, l'affaire Mitrokhin, l'inchiesta su Telekom Serbia, per citare solo le vicende più note al grande pubblico. C'eravamo sentiti pochi giorni prima, con Grazia, perchè stavamo valutando assieme alcune analisi. Poi i miei impegni lavorativi mi avevano costretto a rimandare alcuni propositi e quando nel novembre scorso decisi di ricontattarla, prima di chiamarla telefonicamente mi feci un giro online per vedere se aveva scritto qualcosa di nuovo che mi era sfuggito. Fu così che appresi la notizia e, ricordo, il mio pomeriggio lavortivo finì li. Il resto fu un girovagare di pensieri, ricordi (piccoli) e immagini. Il giorno dopo chiamai un amico comune per chiedere conferma e per sapere qualcosa di più. Non mi aveva avvisato perchè la cosa lo sconvolse molto a livello umano, era persona di cui si fidava e, mi disse "ora mi sento molto più solo". Fu allora che realizzai davvero cosa avevamo perso. E spero che da lassù possa provare un po' di quella felicità che per tutta la sua vita ha regalato alle persone che hanno avuto il dono della sua compagnia.
Ieri sera alla bella trasmissione di Serena Dandini " Parla con me" era presente la scrittrice Anna Negri, che presentava il suo romanzo "Con un piede impigliato nella storia". Anna Negri è persona di grandi capacità e talento. Basta dare un'occhiata all sua voce su WikipediaForse per questo mi ha colpito molto una sua frase, pronunciata con aria particolarmente seccata, a sottolineare una citazione (forse l'ennesima) che la Dandini ha fatto in relazione al padre, forse più famoso di lei, Toni Negri. Anna Negri ha commentato un'affermazione della Dandini con un " ma non si riesce a fare un'intervista senza nominarlo quell'individuo là?". La Dandini, in evidente imbarazzo, ha voltato pagina e ha iniziato a parlare del libro. Toni Negri ha una grande personalità, una forte presenza, a detta di chi ci ha parlato (come Aldo Grandi che è stato con lui in contatto per il libro " La generazione degli anni perduti. Storie di Potere Operaio") si crede ancora il centro della rivoluzione mondiale. Forse è per questo che una figlia non da meno per talento ed intelligenza può sentirsi soffocata da tanta personalità? O forse, come tutti i figli di personaggi celebri, non ne può più di essere continuamente ricondotta al padre?
Tipi strani in giro ce ne sono tanti e da quando ho scritto il libro me ne sono passati davanti non pochi. Di aneddoti da raccontare ne avrei tanti perchè ad ogni presentazione c'è sempre qualcuno che vuoi per protagonismo, vuoi perchè non ha molto da fare si dedica allo sport più amato dagli italiani: il pettegolezzo. E se succede ad uno scrittore NO-SELLER come il sottoscritto posso immaginare cosa capiterà agli autori più popolari. Ma questa la voglio raccontare perchè temo sia troppo esilarante. Tenetevi forte: il sottoscritto è uno stipendiato dalla CIA. E naturalmente non perchè sia dipendente della Confederazione Italiana degli Agricoltori. E' andata così. Stasera mi ha chiamato un lettore con il quale siamo diventati abbastanza amici e, riuscendo a trattenere a stento le risate, mi ha raccontato un episodio che gli è capitato recentemente assistendo ad una proiezione del documentario "Il sol dell'avvenire" a Roma. Era arrivato con largo anticipo e prima della proiezione stava dando un'occhiata al mio libro, che aveva portato con se nella borsa. Quando si è avvicinato un altro spettatore che, indicando il testo, inizia un dialogo. Racconto quello che i due si sono detti, per come mi è stato riferito. Spettatore: "Conosci quel libro?" Amico: "Beh, direi di si" Spettatore: "L'hai letto'" Amico: "Si..." Spetttore: "Ti è paciuto?" Amico: "Si..." Spettatore: "Secondo me è di parte" Amico: "Credo che qualsiasi libro sia di parte. Non credo possa essere considerato un difetto. Stai dicendo una cosa lapalissiana..." Spettatore: "Ma tu lo conosci l'autore?" Amico: "No, perchè tu lo conosci?" Spettatore: "Certo. Ed è un amico degli americani" Amico: "Prego?" Spettatore: "Si, è pagato dalla CIA. Gli danno 8.000 (!) euro al mese, capisci?" Amico: "Ah, si certo, capisco. Beh ora ti saluto che mi sa che è arrivato un mio amico con cui avevo appuntamento" Ho chiesto all'amico di descrivermi il personaggio. Giovanile, alto, pochi capelli ed una vistosa chierica. Chissà se avrò mai il piacere di conoscerlo. Non fosse altro per dirgli che, nel caso la CIA decidesse di stipendiarmi, sicuramente mi ricorderò di lui e avrò modo di dividere i proventi con la formula dell'80-20: 80% a me, 20% a lui. Una provvigione del 20% mi sembra decisamente generosa. O no?
Ieri sera sono andato a vedere lo spettacolo teatrale scritto da Corrado Augias e Vladimiro Polchi " Aldo Moro: Una tragedia italiana" a Lecce, presso i Cantieri Teatrali Koreja. Lo spettacolo è in tour dalla scorsa primavera, occasione del trentennale del rapimento del Presidente della DC. Non me ne avevano parlato bene, ma nonostante ciò sono andato al teatro, anche con entusiasmo e convinzione. La mia delusione non è stata dettata dalla qualità dei contenuti, che reputo eccellente. E del resto la firma di Augias in tal senso era una garanzia assoluta. No. Quello che mi ha deluso sono state le scelte relative all' approccio politico e all' idea drammaturgica. Mi spiego. La scelta politica è davvero riduttiva. La narrazione degli eventi, infatti, confluisce nella domanda finale sul "Polis o Pietas" mutuata dall'Antigone di Sofocle. Ripercorrendo gli avvenimenti e le lettere di Moro nelle diverse fasi della prigionia sembra, secondo Augias, che davvero l'essenza di tutto sia la contrapposizione tra fermezza e trattativa. Ormai non ci crede più nessuno che non vi furono trattative. Le trattative ci furono eccome, a diversi livelli e tra diversi interlocutori. Il problema è che qualcuno rincorreva le trattative per boicottarle. E al termine prevalse la forza di chi, una volt che pensava di essersi liberato di Moro, non aveva nessuna intenzione di ritrovarselo vivo. La scelta drammaturgica, invece, mi ha lasciato sconcertato. Lo spettacolo inizia con un'abbondante serie di filmati che riguardano l'agguato di via Fani. Prosegue con una voce narrante che illustra gli eventi al pubblico. Tra voce narrante e immagini, si inserisce la figura di Aldo Moro che legge le lettere più significative. Se fosse stata una puntata di Enigma, sarebbe stata da antologia. Una specie di "La notte della Repubblica" di Zavoli in un bignami che scandisce perfettamente gli avvenimenti e li contestualizza nella vicenda. Ma diavolo, siamo al teatro, non in TV! La comunicazione teatrale è diversa, la gente non va al teatro per un'opera di divulgazione, ma per cogliere la rappresentazione artistica di un evento. Le possibilità di comunicazione del teatro sono state completamente ignorate (e qui la colpa non può essere di Augias ma di chi si è occupato della trasposizione del testo in forma teatrale) e ne è venuto fuori un "programma di divulgazione di alto livello" che se fosse andato sulla terza rete sarebbe rimasto un pezzo da antologia. Sarebbe bastato inserire dei dialoghi, ad esempio un brigatista che comunciava a Moro cosa avveniva all'esterno e Moro che commentava e cercava di stendere le sue lettere dando indicazioni al suo interlocutore brigatista affinchè l'effetto del messaggio fosse il più efficace possibile. Mah. Non vorrei essere stato troppo severo. Forse sono condizionato da un coinvolgimento nella vicenda che eleva di molto le mie aspettative, forse non era serata. Ma mi piacerebbe avere il parere di altri che hanno assistito allo spettacolo. Mentre ero seduto, anche se non mi annoiavo (come qualcun altro mi ha detto di se a fine serata), ho pensato al bellissimo monologo di Giorgio Gaber "Cosa non mi sono perso". Per godere delle cose che si perdono, è necessario sapere in anticipo quanto si soffre.
Sul sito di Repubblica di qualche giorno fa è apparsa una curiosa notizia. Il segretario regionale del Movimento sociale-Fiamma Tricolore della Basilicata, Vincenzo Mancusi, ha proposto un piccolo aiuto finanziario (1.500 €) alle famiglie che avranno nel corso del 2009 un figlio e che decideranno di chiamarlo Benito o Rachele. La condizione è semplice: i soldi dovranno essere usati per il nascituro (per comprare culla, vestiti o alimenti). La stessa cifra sarà destinata anche ai bambini nati da genitori extracomunitari. E' un pensiero sicuramente utile e sarà apprezzato da quanti avendo in cantiere un figlio decideranno di chiamarlo come suggerito da Vincenzo Mancusi per onorare le radici profonde del partito. Un'importante condizione posta è che la nascita del bimbo sia compresa in uno dei seguenti comuni lucani: Calvera, Carbone, Cersosimo, Fardella e S. Paolo Albanese. Ad un osservatore superficiale potrebbe sembrare che la scelta sia stata effettivamente dettata dal rischio di spopolamento cui sono sottoposti tali ridenti località. Qualcun altro avrà potuto pensare che la scelta sia stata dettata da motivi finanziari (per comuni grossi, dato l'elevato consenso che il partito riscuote in Basilicata, si rischierebbe di non avere troppe risorse per far fronte alle richieste). Ma gli osservatori più attenti avranno notato che il vero motivo della scelta è che in tal modo il partito conta di conquistare quella che da decenni è una delle roccaforti nemiche. Il comune di Carbone. Certo. Io l'ho capito subito. Poichè Carbone era una delle sedi più temibili della > Gladio Rossa<, è chiaro che Mancusi a questo punto sta cercando di convertire figli di ex gladiatori rossi ad una tradizione profondamente italiana. Mi viene da pensare che quasi quasi mi spiace che mio zio Antonio (famoso dirigente della Gladio Rossa ) non possa avere più figli. Chissà cosa si sarebbe inventato. Escludendo Joseph (nome già dato dal padre al fratello maggiore al ritorno dalla campagna di Russia) magari l'avrebbe chiamato Vladimir, Stalingrado o Fidel che accoppiato con il cognome non sarebbe stato male.
Ricevo e pubblico con molto piacere, questo articolo di un lettore che ha provato a ripercorrere lo spazio e la memoria tornando, dopo 30 anni, in via Montalcini.
Via Montalcini 8, Roma di Patrizio J. Macci Parto da una strada che si chiama Via Roma Libera, ai piedi della collina di Monteverde. Ho appena lasciato il caos di Trastevere e le sue strade sudice di vita. L'autobus che mi accompagna è uno scassone della Linea 44. Arranca, sgassa, sembra non farcela, poi sterza violentemente a sinistra ed imbocca la salita di Via Dandolo; è un nome che mi piace perchè rotola in bocca come una caramella e spazza via la polvere di Porta Portese. Comincio a immaginare quello che c'era trent'anni fa. Un mese fa sono venuto con un'amica architetto, laureata con una tesi sulla storia di questo quartiere. E' stata rassicurante: "Guarda, a parte gli edifici che avevano le facciate pulite (!) e le automobili decuplicate, il resto è tale e quale!!!". Sembra di stare a S. Francisco: curve e saliscendi "a strappo", ville con giardini patronali e palazzotti della borghesia romana. Targhe ottonate scintillano sui portoni : avvocati, commercialisti, un notaio recentemente decaduto nelle cronache, un chirurgo estetico in voga. Consulto il block notes e rifletto su come abbiano potuto trasportare il corpo, senza vita e crivellato dai colpi d'arma da fuoco, nel portabagagli di una Renault 4 evitando sballottamenti e perdite di sangue: il mio lapis non riesce a scrivere di seguito per cinque secondi, eppure l'autobus procede e frena lentamente per raccogliere una piccola folla di studenti. Sono stranieri, inglesi o meglio americani, urlano e si lanciano appuntamenti serali. [continua a leggere] E' rimasto un pertugio per sbirciare dal vetro la vettura è stracolma. Indovino il muso fascista del Palazzone delle Case Popolari, questo c'era eccome! Dominava dall'alto e se allungavi il collo potevi vedere il ferrobedò di Pasolini e il figlio di Tommaso che correva verso il Tevere. Sciamano via tutti insieme come sono arrivati, appena superiamo uno splendido parco del quale non memorizzo il nome. Penso che loro no non c'erano, non erano ancora nati. Siamo arrivati alla prima base della collina, c'è il Teatro Vascello e chissà che programmava in quei giorni maledetti. L'autobus si arresta completamente, il conducente impreca: la cosa è grave. C'è un tamponamento, una moto ed il centauro riversi a terra: si attendono soccorsi. Impossibile procedere o andare indietro. Impazzano i clacson, le sirene cominciano a ululare, salgono dall'ospedale S. Camillo. Ne approfitto per scendere, siamo fermi proprio all'angolo con una stradina che affaccia su due ville vagamente anni settanta. Mi affaccio ed è tutto finito: un fazzoletto di giardino, due bambini un pallone da calcio ed un gatto. Sono lontano mille miglia da Roma e dalle Brigate Rosse. Cristina è nata dopo il 9 maggio 1978, però forse i suoi genitori si conoscevano, avevano gia cominciato a "fare l'amore". Mi ha detto che lo chiederà alla madre appena sarà a casa, ride divertita: l'idea la intriga assai. Di Moro conosce poco, che è molto di più di quello che la maggior parte dei ventenni impareranno mai. Ho accettato di portarla, ha una borsa piena di obiettivi e macchinette fotografiche digitali. Mi ha convinto: "prendiamo qualche istantanea" ha detto, pixel spalmati su un monitor evocheranno fantasmi e demoni nascosti dalle probabili ristrutturazioni estetiche. Incrociamo Piazza S. Giovanni di Dio, ci sono i binari del tram come allora, l'autobus sobbalza e chissà come si sono guardati in faccia i due terroristi se davvero l'hanno attraversata: il pensiero corre all'uomo nel bagagliaio, l'adrenalina che sale mentre la mano stringe la calibro 9 che è fredda maledettamente gelida, anche se siamo a maggio ed è gia esplosa l’estate. Sale un uomo col borsello accessorio maschile in voga negli anni '70, questo potrebbe essere arrivato con la sua macchina del tempo ed aver parcheggiato nelle strisce blu dopo aver esposto il tagliando orario. Ci avviciniamo, siamo su Via dei Colli Portuensi i negozi si diradano scorgo in uno squarcio il Gazometro lontanissimo, Viale Marconi con le banche comode per essere rapinate una dietro l'altra, la Banda della Magliana aveva intuito. Improvvisamente spariscono i negozi e ci sono solo abitazioni, palazzi senza nessuno spazio commerciale, la corsia stradale si restringe c'è uno spartitraffico con la terra e qualche ciuffo d'erba che ce la mette tutta per uscire fuori. Consulto l'orologio, è quasi mezzoggiorno. A quest'ora Aldo Moro è gia fantasma. Siamo rimasti noi due e il conducente, la mia fotografa cerca disperatamente qualcosa che non trova dentro la sua borsa da Mary Poppins. Mi sono distratto e l'autobus piega violentemente a destra, altri due secondi ed avremmo buttato giu il muro e la targa di marmo con scritto Via Camillo Montalcini. Frena, ci lascia sul piazzale, l’autista scende e corre ad accendere la sigaretta che stringeva fra le mani da almeno un quarto d'ora. Chissà se il capolinea era proprio qui?? Poi penso no, non c'era e recito a mente dal “Manuale del perfetto brigatista, norme di sicurezza e stile di lavoro”: (...) la casa deve essere scelta con particolare cura: la STRADA deve prestarsi ad un facile controllo da parte del militante e ad un controllo scoperto da parte del potere; cioè possibilmente non deve essere vicina a bar, luoghi pubblici di vario genere: negozi, istituti, magazzini, fermate d'autobus ecc." La villa pubblica prospicente ha il parco che degrada verso la Portuense. E’ riportata nei giornali dell'epoca come “prato con sterpaglie”, ma era gia Villa Bonelli. L'atmosfera è sospesa, sembra di essere a Catania. Un Tomasi di Lampedusa, annoiato e vestito di bianco, potrebbe vergare il suo diario seduto su un divano di vimini. Il traffico di Roma è un rombo lontano che posso scorgere dall'alto se strizzo gli occhi. Il carcere del popolo è rimasto quello che abbiamo scrutato su fotoingrandimenti e vecchi documentari televisivi. C'è un muraglione che protegge il giardino, arriva fino al marciapiede. Una carrucola al secondo piano ed una corda che penzola, operai romeni portano via i calcinacci da un appartamento. Tutta la costruzione è una fortezza minacciosa in cima ad una montagna. Si intravedono le sbarre alla porta finestra che conduce in giardino. L’appartamento ha un soggiorno spazioso ed illuminato, facciamo qualche scatto con il palazzo come sfondo. Sono stanco e contrariato mi sembra che non ci sia assolutamente altro da vedere, nulla che non sia stato scritto verbalizzato e digitalizzato. Cristina si muove rapida: avvita uno zoom, qualcuno dall'ultimo piano fa gestacci. L'anniversario ha reso la strada troppo celebre e oggi non siamo i primi a curiosare. Seguo il muro dell’edificio abbracciandolo, sono praticamente a pochi centimetri dalla casa: se con un pugno potessi bucare la parete entrerei nella prigione di Moro, nella stanza del Presidente. Trevirgolaventiquattro metri quadri sono uno spazio troppo piccolo per uscirne senza i segni che l’anatomopatologo ha cercato invano. Rifletto sconsolato che i terroristi hanno mentito anche su questo. Forse il Prigioniero non ha scorto la luce che filtrava dalla porta a vetri del giardino ma ha visto la finestra, l'unica che si affaccia a sud dove mani intelligenti hanno collocato una scrivania, c’è un libro aperto. Riesco addirittura a leggere il titolo, è un manuale scolastico di terza elementare. Uno scolaro consuma le ore dove è passata la Storia. Alzo gli occhi e fisso i vetri. Intuisco quello che nessuna delle foto che guarderemo la sera stessa fino a notte fonda è riuscita a fissare se non come sincopi digitali, riflessi di uno specchio che non riesci a interpretare. Una mano di bambino ha incollato sui vetri due pupazzi, un personaggio di cartoon, una automobilina e un pesciolino. Hai scritto dalla tua prigione: "Se ci fosse luce...". Abbraccio la mia fotografa stremata che nel frattempo è crollata sul divano, le rimbocco il plaid e siedo sul pavimento davanti a lei. La luce dell’alba bussa alle imposte, le soffio in un orecchio: "Ti racconto il 16 Marzo 1978 e chi era Aldo Moro, un giorno lo spiegherai a tuo figlio".
Segreti di Stato non è un romanzo qualsiasi. Ameno per due motivi: 1) l'autore si chiama Massimiliano Passamonti (nella foto sotto) e ha fatto parte per diversi anni di uno dei reparti di eccellenza delle nostre Forze Armate: il gruppo incursori della Marina, i "famosi" COMSUBIN. 2) la storia che Passamonti racconta è ambientata nell'Italia della strategia della tensione e vede protagonisti uomini della politica, dei servizi, della Marina Militare e un gruppo di terroristi della Brigata NoGlobal, un gruppo di estrema sinistra che pratica la lotta armata. Si tratta di un bel thriller in cui non mancano, seppure in forma romanzata, riferimenti storici puntuali ed un nuovo punto di vista dal quale osservare gli anni della strategia della tensione, che tanti dolori hanno provocato al nostro Paese, dai quali non siamo ancora riusciti a venire fuori con una verità trasversale che possa attraversare le ragioni di tutti e portare ad una riappacificazione tra le diverse forze in gioco sia oggi che ieri. Segreti di Stato è un libro che consiglio davvero a tutti, in particolar modo a chi vuole ragionare su una chiave di lettura del caso Moro sicuramente per molti versi di fantasia ma che non tralascia precisi riferimenti a luoghi, fatti o persone protagoniste di quel periodo. Senza voler rovinare la lettura a chi vorrà seguire il mio consiglio, vorrei proporre uno spunto di discussione sull'idea drammaturgica di Passamonti. Un gruppo di estrema sinistra opera in Italia. Il Ministero dell'Interno, non fidandosi dei servizi segreti in quanto alcuni elementi si mostravano scontenti della riforma di ristrutturazione che il sistema politico stava per varare, chiede al comandante dei COMSUBIN di infiltrare un suo uomo all'interno del gruppo. L'operazione riesce ed il giovane incursore viene a conoscenza del tentativo che il gruppo sta portando avanti di rapire un importante leader politico. Il Ministro dell'Interno decide di consentire il rapimento (perchè l'evento sarebbe stato politicamente a lui favorevole) ma di attivare i COMSUBIN per ottenere la liberazione dell'ostaggio. In quest'ottica viene organizzata una prova generale del blitz, cammuffata da esercitazione, utilizzando un casolare prefabbricato identico a quello nel quale, secondo le informazioni raccolte dall'infiltrato, sarebbe stato condotto il rapito. Anche i servizi segreti, all'insaputa del Ministro dell'Interno, stanno muovendosi nella vicenda. Così quando viene effettuato il rapimento, per i COMSUBIN si tratta di una cosa inaspettata e perdono il controllo della situazione. Sicuri che l'ostaggio sia stato portato nel luogo a loro noto, decidono di effettuare subito l'irruzione che avevano già provato in esercitazione. Ma i servizi tirano ai COMSUBIN un brutto scherzo ed il blitz fallisce miseramente. Il rapimento va avanti ed anche i servizi perdono il controllo delle operazioni. Non potendosi fidare più di nessuno viene deciso che la soluzione migliore è rappresentata dalla morte dell'ostaggio. Si trovano molti riferimenti a due operazioni realmente accadute come " Smeraldo" (21 marzo '78) e " Rescue Imperator" (prova generale del 12 febbraio '78). Mi piacerebbe poter avviare delle riflessioni assieme a voi su tre questioni particolari: a) I servizi sapevano qualcosa? b) Alti e limitati vertici delle istituzioni sapevano qualcosa? c) Il sequestro si è evoluto verso direzioni non pi controllabili e questo avrebbe portato alla decisione della morte dell'ostaggio come minor male? Ovviamente, sottolineo che la vicenda raccontata da Passamonti, deve essere presa per quello che è: un romanzo. E quindi opera di assoluta fantasia...
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