Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Nel numero di Aprile di " Cronache e opinioni", mensile del Centro Italiano Femminile, è apparsa una interessantissima intervista di Paola Di Giulio al giornalista dell'ANSA Paolo Cucchiarelli incentrata sul trentennale della vicenda Moro e su quelli che, comunemente, vengono definiti "Misteri". Dall'agguato di via Fani alle foto scomparse, dalla giornata del 18 aprile alle trattative, dall'apertura degli archivi alle ultime ore del Presidente della DC. > scarica il PDF <
La seconda polaroid di Moro nella "prigione del popolo"
L’idea di fondo di Cucchiarelli è che si è “verificata una concordanza di interessi a far si che nessun protagonista veda svelata al sua quota-parte di segreto” ed è per questo che le cose, con il tempo, diventano un mistero. In realtà in Italia non sono i misteri a reggere la prova del tempo, ma i “segreti concordati”. Come fare a scardinare questo segreto? Questo Cucchiarelli non lo dice nell’intervista, per ovvie ragioni di spazio. Ma, come ha sottolineato in una recente intervista ad Alessandro Forlani su GRParlamento > ascoltala <, sarebbe necessario recuperare la tradizione ormai quasi persa del “giornalismo d’inchiesta”, avvalendosi di un serio e rigoroso metodo di raccolta dei fatti evitando di far si che debbano essere i fatti ad adattarsi alla propria ideologia. Al contrario sarebbe necessario tornare a far parlare i fatti. Perché è mettendo assieme i dati, trovando le connessioni logiche, e compiendo verifiche incrociate delle ipotesi che l’analisi finale può condurre a svelare il mistero. Utilizzando questo metodo che Cucchiarelli insegna nelle aule di formazione ai giovani giornalisti, Valentina Magrin e Fabiana Muceli hanno svolto una dettagliata inchiesta (che è poi diventata la loro tesi in giornalismo investigativo) che è poi diventata anche un libro “ La chiave di Cogne”. > leggi < Credo che possa essere una strada giusta per giungere alla soluzione del “segreto di Moro”. In Vuoto a perdere (che non è un libro d’inchiesta) questo metodo è stato applicato (devo dire inconsapevolmente) per raccogliere e strutturare i fatti in un contesto non ideologico permettendo al lettore di poter “ascoltare” i fatti e analizzarli autonomamente. Applicando il metodo suggerito da Cucchiarelli si potrà arrivare offrire alla nazione la verità che sta dietro al “segreto di Moro”? Molto probabilmente si. In questa vicenda, però, occorrerà superare due ostacoli fondamentali:
1) Cucchiarelli a parte, c’è qualcuno disposto a mettere da parte le proprie teorie con il rischio di di vedersele, alla fine, capovolte completamente? 2) Siamo pronti, come Paese, a sapere fino in fondo la verità o questo provocherebbe ulteriore dolore e conseguenze istituzionali?
Il Sussidiario.net, intervista a Francesco Cossiga (02/05/2008) La peculiarità del Sessantotto italiano, come notano diversi osservatori del fenomeno, è quella di essere durata un decennio. E il tramonto di quel decennio coincide con l’alba tragica degli anni bui della lotta armata. I violenti scontri del ’77, prima, e poi l’evento culmine degli “anni di piombo”: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Uno dei protagonisti indiscussi di quegli anni è Francesco Cossiga; o, meglio, “Kossiga”, con doppia esse in stile gotico (a richiamare le SS naziste). Così, infatti, figurava sui muri il nome dell’allora ministro degli Interni, dopo la repressione dei fatti di Bologna del 1977, quando negli scontri tra polizia e manifestanti perse la vita il militante di Lotta Continua Pierfrancesco Lorusso (gli scontri, vale la pena ricordarlo, furono generati dal tentativo, da parte di Autonomia Operaia, di interrompere un convegno organizzato dagli studenti Comunione e Liberazione; in seguito alla repressione, gli stessi “ciellini” furono fatti oggetto di una serie di minacce e attentati). L’anno successivo, poi, i 55 giorni del caso Moro; Francesco Cossiga era ancora ministro, e, dopo l’uccisione di Moro, rassegnò le dimissioni. Allo stesso Cossiga ilsussidiario.net ha chiesto di riportare per un istante lo sguardo su quegli anni. Presidente Cossiga, guardiamo al passaggio dal Sessantotto alla lotta armata: quali sono gli elementi di continuità e quali invece gli elementi di rottura? Il ’68, cioè, si evolve naturalmente in violenza (perché ideale già violento all’origine) o c’è stata in mezzo una frattura?Certamente c’è stata una frattura, perché solo una minima parte dei teorici e dei protagonisti del Sessantotto si è data poi alla lotta armata. Ma c’è anche un elemento di continuità: da una parte la “violenza” faceva parte della cultura del Sessantotto, almeno la “violenza” teorica contro il potere, contro le convenzioni, contro l’“autoritarismo” che veniva esercitato in diversi ambiti: nella società, nello Stato, nella scuola, nella famiglia e anche, per le frange cattoliche, nella Chiesa. Lei ha dovuto gestire in prima persona il problema della violenza di quegli anni: ritiene la sua una posizione privilegiata o di svantaggio per capire il fenomeno?Mi sono certamente trovato in una posizione che definirei tragicamente privilegiata
Cosa riafferma di ciò che ha fatto politicamente per arginare il fenomeno terroristico di quegli anni? Cosa invece rinnega, o non rifarebbe se tornasse indietro?Credo di essermi comportato in fedeltà allo Stato e alla morale, e farei anche oggi le scelte che ho fatto allora. Mi è rimasta però una domanda, riguardo ai provvedimenti adottati in quegli anni: la dura repressione dei movimenti dell’Autonomia, culminati nella “rioccupazione” di Bologna del 1977 e nel fallimento del “convegno contro la repressione”, considerato che si trattava di movimenti che certo usavano la violenza ma non nelle forme e con l’intensità del terrorismo di sinistra, non può aver spinto gli stessi militanti dell’Autonomia verso la lotta armata? Avere la responsabilità che lei ha avuto nel periodo più buio della storia della Repubblica è un peso difficilmente immaginabile per chi non l’ha vissuto: che cosa l’ha sorretta in questo? E soprattutto che cosa l’ha sorretta dopo la tragica capitolazione del rapimento Moro?Anzitutto mi ha sorretto la volontà di servire lo Stato in solidarietà con i “ragazzi” delle forze dell’ordine e nel rispetto dei caduti e del dolore delle famiglie e la volontà di operare perché tutto avesse fine: e ciò secondo una coscienza formata religiosamente dalla Fede e laicamente dal “patriottismo repubblicano”. La morte di Moro, poi, l’ho vissuta come una mia sconfitta, ed anche come la dolorosa conseguenza di una scelta tragica, ma necessaria. Che cosa ci portiamo ancora addosso di quegli anni?Il dolore per i caduti e le famiglie offese, insieme anche al dolore per i militanti della lotta armata, che hanno gettato via la loro giovinezza. E, infine, la mancata risposta alla domanda: «Perché è successo?»
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