Lo scorso 2 marzo, nell’ambito del processo ai due generali del ROS Mori e Obinu, è stato ascoltato Mons. Fabio Fabbri. Uno degli argomenti del processo è la famosa trattativa Stato-Mafia che tra il ‘92 ed il ’93 pare abbia portato ad uno scambio tra le parti che avrebbe portato ai boss mafiosi sotto 41bis notevoli alleggerimenti nelle condizioni carcerarie. Fabbri è stato udito come testimone dei fatti in quanto fu protagonista, assieme ad un altro esponente importante del Vaticano Mons. Cesare Curioni, di un consulto con il Presidente Scalfaro che chiese ai due preti di segnalargli un successore di Nicolò Amato (che ormai aveva fatto il suo tempo) alla guida del DAP.
Nel corso dell’interrogatorio, sempre in ambito trattative, Fabbri ha tirato in ballo anche la vicenda Moro nella quale, come braccio destro di Mons. Curioni, ebbe un ruolo nell’ambito dei canali che la Santa Sede attivò per arrivare alla liberazione del Presidente della DC. La cosa più rilevante che Fabbri ha riportato alla corte è che quei famosi 10 milioni di dollari di cui si è parlato in passato, messi a disposizione da Papa Paolo VI per il rilascio dell’amico Aldo Moro, “io li ho visti con questi occhi!”. E lo avrebbe rivelato per primo al “famoso storico Satta, che (mi pare) insegna alla Sapienza” quando gli chiesero di mettersi a disposizione dell’archivio del Senato in occasione della pubblicazione del libro che viene pubblicato ogni 25 anni sui fatti più importanti della Repubblica. Vladimiro Satta avrebbe intervistato Mons. Fabbri per 7 ore e da quel colloquio avrebbe prima scritto un saggio su Nuova Storia Contemporanea, poi un primo ed un secondo libro che sarebbero diventati la pietra miliare per chiunque scrisse sulla vicenda successivamente.
Satta, documentarista del Senato dal 1987, sulla rivista Nuova Storia Contemporanea, ha pubblicato un articolo nel 2002 come anteprima del suo volume “Odissea nel caso Moro” ed un secondo studio nel 2005 proprio sulle trattative avviate dalla Chiesa per la liberazione del prigioniero delle BR. Oltre a diversi altri lavori il cui elenco trovate qui http://www.biblio.liuc.it/scripts/essper/ricerca.asp?tipo=autori&codice=2038844
Analizziamo le perle che ci ha regalato Mons. Fabbri. Perché di perle si tratta, anche se nessuno si è soffermato ad approfondire perché in cronaca giudiziaria le testate si sono fermate esclusivamente alle parole dette dal prelato.
Ad un certo punto, parlando del “potere” di Mons. Curioni, Fabbri cita un colloquio con il Sen. Andreotti. Argomento dello scambio di battute la trattativa della Chiesa per la liberazione di Moro. Fabbri ricordò ad Andreotti che dopo la morte di Curioni a sapere quelle cose erano rimasti solo loro due. “Teniamo duro!”, fu la risposta del Presidente. Silenzio dei magistrati e del Presidente della Corte. Nel descrivere l’interessamento di Papa Paolo VI per la vita di Moro, Fabbri parla dei canali attraverso i quali le informazioni giungevano ai brigatisti che custodivano il Presidente e tornavano indietro. In pratica confessa che ci fu un dialogo diretto attraverso canali riservati e non ancora noti. “Non mi chieda i canali senò va a finire che mi arrestano!” chiede Fabbri dimenticando che non si trattava di una conversazione con un giornalista all’happy hour. Silenzio dei magistrati e del Presidente della Corte.
Nel parlare degli eventi, Fabbri racconta una storia da “fantabosco” che non sta né in cielo (è il caso di dirlo!) né in terra. Per dirla in breve (ma avete a disposizione l’audio per ascoltarla dalla voce del prete) Paolo VI chiamò Curioni e Fabbri che erano a bari per un convegno subito dopo il rapimento di Moro. I due tornarono a Roma. Paolo VI pensava di poter attivare dei contatti sfruttando la malavita e, di conseguenza, rivolgendosi al mondo delle carceri. Prima però c’era la necessità di essere certi dell’esistenza in vita di Moro. Tramite i loro canali Curioni e Fabbri spinsero le BR a far pervenire una foto di Moro. Ma questa prima foto, quella senza giornale, non dimostrava che Moro fosse ancora vivo ed allora Paolo VI chiese ai due di ricontattare i brigatisti per fornire una nuova prova. Arrivò così la seconda foto di Moro, con la Repubblica del 19 aprile che convinse Paolo VI a raccogliere il denaro per il riscatto. Denaro che lo stesso Fabbri dichiara di aver visto: una consolle a Castel Gandolfo, coperta da un drappo azzurro che il Papa spostò per far vedere i “mazzetti” di dollari pronti per ottenere la libertà di Moro. E a proposito di questa faccenda, Fabbri chiude dicendo che “io ed Andreotti sappiamo un po’ come le cose sono andate”.
In un Paese normale qualcuno avrebbe chiesto chiarezza. Un Parlamento che si rispetti avrebbe posto interrogazioni. Un giornalista onesto avrebbe protestato, lui che è portatore di verità, il paladino della trasparenza, la penna della denuncia. Ecco un esempio di cosa ho trovato il 3 marzo http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/03/trattativa-stato-mafia-cappellano-delle-carceri-amico-potenti/195320/
Siamo sinceri. Ancora crediamo che ci sia qualcuno in Italia che voglia la verità sul passato? E ancora crediamo ad un Presidente che fa bei discorsi di parata in occasione delle ricorrenze ufficiali e che realmente utilizzi tutti gli strumenti in proprio possesso per sostenere la tanto invocata giustizia? Siamo tutti a bravi quando si tratta di chiedere ad un ex brigatista di stare zitto, perché non ha il diritto morale di parlare, o di farlo parlare a comando a condizione, cioè, che faccia dei nomi nuovi di personaggi marginali che nulla cambierebbero alla storia ma che magari potrebbero servire per soddisfare un personale bisogno di vendetta. Ma nessuno, e sottolineo NESSUNO, ha le palle (passatemi l’eufemismo) per chiedere conto allo Stato, alle istituzioni, ai partiti e a tutti quei politicanti da quattro soldi che da 30 anni conservano il potere anche grazie al loro silenzio. Non pretendo che a chiedere ciò siano i giornalisti (figuriamoci...) e nemmeno gli storici (troppo impegnati a conservare le cattedre). Ma i parenti delle vittime, si.
Strano Paese il nostro.
PS: solo per la cronaca, ho trovato in rete dei riferimenti a Mons. Fabio Fabbri. Non so se e come siano finiti questi procedimenti, ma mi sembra sia comunque interessante metterli sul piatto…
Per chi si occupa di storia della lotta armata il nome Papago rappresenta il puntino pulsante dello schermo di un radar. Un’iconcina che ti indica un oggetto, che quindi sai essere presente in mare o aria, ma del quale conosci poco. Giorgio Guidelli ha provato a seguire le orme sul monitor per cercare di farci capire meglio cosa quel nome (i Papago sono una tribù indiana dell’Arizona) rappresentasse nel complesso intreccio di avvenimenti che nel dopo-Moro (1978-1981) attraversarono l’Italia ed interessarono anche il resto d’Europa.
E’ andato alla fonte della questione e quale fonte migliore se non lo skipper dell’imbarcazione? Con il suo solito stile che è a metà tra la narrazione e la cronaca, con un linguaggio fruibile a tutti ma che si attiene rigorosamente ai “fatti storici” ci ha regalato questo nuovo lavoro che, rispetto ai precedenti sull’argomento, si presenta come un racconto. Autobiografico, che racconta lo svolgersi degli eventi e delle emozioni che in prima persona deve aver provato nell’entrare sempre più nei nodi cruciali ed inesplorati di una vicenda chiave della nostra storia. I cui risvolti, a leggerli bene, interessano le massime cariche dello Stato, i loro segreti ed il comportamento di alcuni organismi dello Stato, in molti casi quanto meno ambigui di fronte all’eversione.
Il libro, non a caso, si chiama “Porto d’armi - Indagine sui rapporti Br-Palestinesi” (editore Quattroventi) perché rappresenta il risultato di una serie di lunghi colloqui tra Guidelli e lo skipper del Papago, ex brigatista marchigiano stimato psichiatra. Un testo che per l’argomento e per la piacevolezza della lettura non posso che consigliare a tutti. Cento pagine che si leggono tutte d’un botto, che lasciano sempre col fiato sospeso e che l’unica pecca che hanno è di finire troppo presto.
La storia apre una voragine, non tanto perché svela l’esistenza di rapporti operativi tra la lotta armata europea e i guerriglieri palestinesi, due facce ispirate dagli stessi principi marxisti-leninisti, simili ma profondamente differenti per storia, contesto ed intensità.
La questione centrale è l’aver portato una prova dell’esistenza del cosiddetto “lodo Moro”, ovvero quel patto tacito tra le autorità italiane ed i palestinesi (che porta il nome del presidente della DC ucciso dalle BR perché egli stesso ne fu l’ispiratore ed il mediatore) con cui si sancì l’estraneità di obiettivi italiani nel panorama di attentati che i palestinesi organizzavano in tutta l’Europa in cambio della possibilità concessa agli stessi palestinesi di attraversare il nostro stivale trasportando armi ed esplosivi destinati ad attentati o ad altre formazioni combattenti. Un “patto” grave per un Paese di diritto, tanto più grave perché riguarda proprio quella “ragion di Stato” che è sempre stata utilizzata sulla base del principio della convenienza non dei molti, ma dei singoli interessi di bottega.
Cosa ha a che fare il Papago con il “lodo Moro”? Apparentemente niente, visto che potrebbe trattarsi di un semplice traffico clandestino sfuggito alle maglie della legge. Ma di clandestino, quel viaggio aveva davvero poco.
Il nono capitolo del racconto di Guidelli si intitola “Porto delle nebbie” parafrasando l’appellativo con il quale negli anni ’70-’90 venne etichettato il Tribunale di Roma per la facilità con cui molte inchieste si arenavano.
Lo skipper racconta della spedizione ferma per tre-quattro giorni nel porto di Numana pochi chilometri a sud di Ancona. A bordo, ovviamente, l’imprendibile capo delle BR Moretti. E narra di un colloquio che egli (lo skipper) ebbe in carcere con un capo delle Forze dell’Ordine che gli disse: “Ci arrivò una telefonata anonima, che riferiva: ‘Andate a Numana, in porto. Troverete Moretti, in porto’”. Le Forze dell’Ordine si armarono di tutto punto, circondarono il porto e si preparavano all’irruzione. Quando strani movimenti, ombre e oggetti fecero temere di essere stati scoperti. Stava per scoppiare il finimondo. Per fortuna, questione di attimi, riconobbero gli uomini dell’anti-terrorismo che invitarono le Forze dell’Ordine ad andare via, tanto c’erano già loro. Lo skipper, in un momento successivo, scoprì anche che qualcuno dei servizi sapeva del viaggio prima di lui e questo lo fece tirare fuori da quella storia e non ne volle sapere più nulla. Il luogo del “rifornimento” di armi era fissato poco lontano da Beirut, su un’isola di fronte a Tripoli. In quel periodo in Libano c’era la guerra, l’Esercito italiano e il contingente di Carabinieri presidiavano la zona, il Mossad era a due passi e parte in causa nel conflitto. Un trasbordo ad alto rischio, dunque. Perché tanta sicurezza, si chiede Guidelli?
E’ solo un assaggio di quanto troverete nel libro, ma credo sia indicativo dell’importanza che riveste il testo. La delicatezza dell’argomento è confermata da una coincidenza: quasi in contemporanea è stato pubblicato un altro libro che racconta, sempre dalla voce diretta dello skipper, il viaggio del Papago. In questo secondo caso, però, nessun accenno allo sfiorato patatrac di Numana, nessun accenno al “lodo Moro”. Molto spazio, invece, ai particolari esilaranti: la Bertè che sostituisce Guccini e De Andrè, un “Hasta la victoria” “Siempre!” come unico botta e risposta con i palestinesi, date le differenze di lingua, Moretti che pensa di sparare ad un delfino per arricchire il menu di bordo.
Personalmente, l’aver stretto un patto con chi era in procinto di buttar giù con un missile un aereo passeggeri in partenza da Roma, non mi scandalizza più di tanto. Può essere ricondotto a quella “ragion di Stato”, quel dilemma “pietas o polis” dell’Antigone di Sofocle dove, si badi bene, si costruisce la polis attraverso la pietas. Con la condizione che quel “segreto di Stato” non sia eterno, che se ne debba rendere conto ai cittadini quando il pericolo ormai non c’è più. Proprio perché alla base deve esserci la buona fede e la tutela dell’interesse pubblico. Purtroppo parlare di buona fede, trasparenza ed interesse pubblico in Italia, per utilizzare un eufemismo, fa sorridere.
Ed allora lasciatemi il privilegio di avere un sospetto. L’Italia, il paese dei furbi e della politica dai costi a talmente tanti zeri da produrre cifre impronunciabili. Il paese del ricatto, degli interessi privati che pervadono la sfera pubblica con i risultati disastrosi cui siamo giunti. Ma vogliamo davvero credere che tutto questo meccanismo (parlo del “lodo Moro”) sia stato gestito a gratis? Non vogliamo sospettare che, nel paese delle tangenti, delle provvigioni del malaffare che spettano alla politica per gentile concessione, su quei traffici non si siano generati profitti? Non faccio fatica a pensarlo, ancor meno ad immaginare che fine possano aver fatto quei proventi.
Ed allora, forse, ecco perché il nostro “segreto di Stato” in questo caso (e chissà in quanti altri) non può essere svelato, neanche a distanza di qurant’anni. Perché mancano i presupposti della pietas e perché un intreccio di interessi e complicità hanno blindato quel patto di verità che non conviene a nessuno tradire.
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