Per chi si occupa di storia della lotta armata il nome Papago rappresenta il puntino pulsante dello schermo di un radar. Un’iconcina che ti indica un oggetto, che quindi sai essere presente in mare o aria, ma del quale conosci poco.
Giorgio Guidelli ha provato a seguire le orme sul monitor per cercare di farci capire meglio cosa quel nome (i Papago sono una tribù indiana dell’Arizona) rappresentasse nel complesso intreccio di avvenimenti che nel dopo-Moro (1978-1981) attraversarono l’Italia ed interessarono anche il resto d’Europa.
E’ andato alla fonte della questione e quale fonte migliore se non lo skipper dell’imbarcazione? Con il suo solito stile che è a metà tra la narrazione e la cronaca, con un linguaggio fruibile a tutti ma che si attiene rigorosamente ai “fatti storici” ci ha regalato questo nuovo lavoro che, rispetto ai precedenti sull’argomento, si presenta come un racconto. Autobiografico, che racconta lo svolgersi degli eventi e delle emozioni che in prima persona deve aver provato nell’entrare sempre più nei nodi cruciali ed inesplorati di una vicenda chiave della nostra storia. I cui risvolti, a leggerli bene, interessano le massime cariche dello Stato, i loro segreti ed il comportamento di alcuni organismi dello Stato, in molti casi quanto meno ambigui di fronte all’eversione.
Il libro, non a caso, si chiama “Porto d’armi - Indagine sui rapporti Br-Palestinesi” (editore Quattroventi) perché rappresenta il risultato di una serie di lunghi colloqui tra Guidelli e lo skipper del Papago, ex brigatista marchigiano stimato psichiatra.
Un testo che per l’argomento e per la piacevolezza della lettura non posso che consigliare a tutti. Cento pagine che si leggono tutte d’un botto, che lasciano sempre col fiato sospeso e che l’unica pecca che hanno è di finire troppo presto.
La storia apre una voragine, non tanto perché svela l’esistenza di rapporti operativi tra la lotta armata europea e i guerriglieri palestinesi, due facce ispirate dagli stessi principi marxisti-leninisti, simili ma profondamente differenti per storia, contesto ed intensità.
La questione centrale è l’aver portato una prova dell’esistenza del cosiddetto “lodo Moro”, ovvero quel patto tacito tra le autorità italiane ed i palestinesi (che porta il nome del presidente della DC ucciso dalle BR perché egli stesso ne fu l’ispiratore ed il mediatore) con cui si sancì l’estraneità di obiettivi italiani nel panorama di attentati che i palestinesi organizzavano in tutta l’Europa in cambio della possibilità concessa agli stessi palestinesi di attraversare il nostro stivale trasportando armi ed esplosivi destinati ad attentati o ad altre formazioni combattenti.
Un “patto” grave per un Paese di diritto, tanto più grave perché riguarda proprio quella “ragion di Stato” che è sempre stata utilizzata sulla base del principio della convenienza non dei molti, ma dei singoli interessi di bottega.
Cosa ha a che fare il Papago con il “lodo Moro”? Apparentemente niente, visto che potrebbe trattarsi di un semplice traffico clandestino sfuggito alle maglie della legge. Ma di clandestino, quel viaggio aveva davvero poco.
Il nono capitolo del racconto di Guidelli si intitola “Porto delle nebbie” parafrasando l’appellativo con il quale negli anni ’70-’90 venne etichettato il Tribunale di Roma per la facilità con cui molte inchieste si arenavano.
Lo skipper racconta della spedizione ferma per tre-quattro giorni nel porto di Numana pochi chilometri a sud di Ancona. A bordo, ovviamente, l’imprendibile capo delle BR Moretti. E narra di un colloquio che egli (lo skipper) ebbe in carcere con un capo delle Forze dell’Ordine che gli disse: “Ci arrivò una telefonata anonima, che riferiva: ‘Andate a Numana, in porto. Troverete Moretti, in porto’”. Le Forze dell’Ordine si armarono di tutto punto, circondarono il porto e si preparavano all’irruzione. Quando strani movimenti, ombre e oggetti fecero temere di essere stati scoperti. Stava per scoppiare il finimondo. Per fortuna, questione di attimi, riconobbero gli uomini dell’anti-terrorismo che invitarono le Forze dell’Ordine ad andare via, tanto c’erano già loro. Lo skipper, in un momento successivo, scoprì anche che qualcuno dei servizi sapeva del viaggio prima di lui e questo lo fece tirare fuori da quella storia e non ne volle sapere più nulla.
Il luogo del “rifornimento” di armi era fissato poco lontano da Beirut, su un’isola di fronte a Tripoli. In quel periodo in Libano c’era la guerra, l’Esercito italiano e il contingente di Carabinieri presidiavano la zona, il Mossad era a due passi e parte in causa nel conflitto. Un trasbordo ad alto rischio, dunque. Perché tanta sicurezza, si chiede Guidelli?
E’ solo un assaggio di quanto troverete nel libro, ma credo sia indicativo dell’importanza che riveste il testo. La delicatezza dell’argomento è confermata da una coincidenza: quasi in contemporanea è stato pubblicato un altro libro che racconta, sempre dalla voce diretta dello skipper, il viaggio del Papago. In questo secondo caso, però, nessun accenno allo sfiorato patatrac di Numana, nessun accenno al “lodo Moro”. Molto spazio, invece, ai particolari esilaranti: la Bertè che sostituisce Guccini e De Andrè, un “Hasta la victoria” “Siempre!” come unico botta e risposta con i palestinesi, date le differenze di lingua, Moretti che pensa di sparare ad un delfino per arricchire il menu di bordo.
Personalmente, l’aver stretto un patto con chi era in procinto di buttar giù con un missile un aereo passeggeri in partenza da Roma, non mi scandalizza più di tanto. Può essere ricondotto a quella “ragion di Stato”, quel dilemma “pietas o polis” dell’Antigone di Sofocle dove, si badi bene, si costruisce la polis attraverso la pietas. Con la condizione che quel “segreto di Stato” non sia eterno, che se ne debba rendere conto ai cittadini quando il pericolo ormai non c’è più. Proprio perché alla base deve esserci la buona fede e la tutela dell’interesse pubblico.
Purtroppo parlare di buona fede, trasparenza ed interesse pubblico in Italia, per utilizzare un eufemismo, fa sorridere.
Ed allora lasciatemi il privilegio di avere un sospetto. L’Italia, il paese dei furbi e della politica dai costi a talmente tanti zeri da produrre cifre impronunciabili. Il paese del ricatto, degli interessi privati che pervadono la sfera pubblica con i risultati disastrosi cui siamo giunti.
Ma vogliamo davvero credere che tutto questo meccanismo (parlo del “lodo Moro”) sia stato gestito a gratis? Non vogliamo sospettare che, nel paese delle tangenti, delle provvigioni del malaffare che spettano alla politica per gentile concessione, su quei traffici non si siano generati profitti? Non faccio fatica a pensarlo, ancor meno ad immaginare che fine possano aver fatto quei proventi.
Ed allora, forse, ecco perché il nostro “segreto di Stato” in questo caso (e chissà in quanti altri) non può essere svelato, neanche a distanza di qurant’anni. Perché mancano i presupposti della pietas e perché un intreccio di interessi e complicità hanno blindato quel patto di verità che non conviene a nessuno tradire.