Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Mi è capitato di leggere una serie di commenti su un’inchiesta di qualche anno fa il cui senso profondo non è stato ancora colto da nessuno. Mi permetto di fare un piccolo intervento, dato che ritengo di conoscere un po' meglio di tutti la vicenda. Al di là delle ricostruzioni di cronaca che a distanza di 30 anni possono anche essere condizionate da elementi esterni, io credo che NESSUNO abbia compreso a fondo l'importanza della questione. Che non è se hanno aperto la macchina così o cosà, se c’era tizio o caio, se tizio ha detto una cosa o un’altra. Ma è l’orario. Già nel 1980, in Commissione Moro, Signorile indicò l’orario in cui seppe assieme a Cossiga del ritrovamento del cadavere di Moro alle 11. E lo disse quasi a ridosso dei fatti e di fronte a persone che non erano le ultime arrivate (ad esempio c’era il Sen. Flamigni tra i commissari). Nessuno obiettò nulla sull’orario. Io sarei saltato sulla sedia, per esempio… Per tanti anni mi sono posto il problema di trovare un riscontro a quella dichiarazione di Signorile: non era facile in quanto l’unica strada era riuscire a trovare un testimone diretto. Per caso incrociai Raso e mi stupì il fatto che non avesse scritto nel suo libro proprio l’orario in cui fu chiamato ad intervenire. Quando glielo chiesi e mi disse che era poco prima delle 11, capii che forse c’era una possibilità. Per lui l'orario non era un problema e per molto tempo gli ho lasciato credere che fosse vero che la telefonata di Morucci fosse stata fatta nel primo mattino (di questo era convinto). Il Maresciallo Circhetta ricorda perfettamente il momento in cui ricevette la chiamata dalla centrale in cui gli venne chiesto di rientrare urgentemente a Roma. Lo ricorda perché stava facendo addestramento a circa un’ora di distanza dalla capitale: guardò l’orologio ed erano le 11. Lo ha ribadito con grande lucidità anche il 9 maggio scorso nella trasmissione "Radio Anch’io" che lo ha intervistato nuovamente. Tutti i colleghi di Raso che facevano parte del gruppo all’epoca hanno confermato l’orario e anche dei superiori di Raso Un’agenzia delle 9.35 informa della visita di Signorile al Viminale. L’Onorevole ha sempre confermato sia l’orario, sia la circostanza dell’invito di Cossiga per il caffè a quell’orario. Nei servizi dei TG di quel 29/06/2013, il sottosegretario Darida dice che lui stesso accompagnò Cossiga in via Caetani verso le 12, e sostiene di ricordarlo bene. Ora le 12 non saranno le 11 ma nemmeno le 14 in cui il Ministro si vide in via Caetani ripreso dalle telecamere. Qualcuno prima delle 14, evidentemente, Raso deve averlo visto. E dato che l’orario credo sia ormai un dato di fatto, allora le domande che ci dovremmo porre sono altre: 1) Come facevano le Istituzioni a sapere che lì, a quell’ora (le 11) c’era un’anonima macchina rossa che conteneva “la nota personalità”? 2) Come mai la notizia non la diede lo Stato (ad esempio il Ministero dell’Interno) ma si attese la famosa telefonata delle 12.13? 3) A cosa servì quel lasso di tempo in cui il cadavere del povero Moro fu tenuto in ostaggio dallo Stato? Queste domande, secondo me, portano diritti alla questione principale di tutta la vicenda: cosa realmente fece lo Stato per liberare il prigioniero, quali personaggi furono coinvolti, con quali obiettivi e con che risultati agirono. Perché è questo il vero dubbio che ho sempre avuto: che lo Stato, più dei brigatisti, non ci abbia raccontato quasi nulla e quel poco sia da catalogare in un mare di frottole. E quell’orario e ciò che successe nelle due ore successive, per me ne sono un concreto indizio.
E’ una mia impressione o Alessandro Marini è (ri)sparito dalla circolazione?
Tanti anni fa mi sarebbe piaciuto raccogliere la testimonianza di quello che è sempre stato consiedrato il testimone principale dell’agguato di via Fani, il famoso Ing. Alessandro Marini.
Lo chiesi, in una delle tante straordinarie chiacchierate, al caro amico Giuseppe Ferrara che ci aveva lungamente parlato sia in occasione della scrittura della sceneggiatura del suo film “Il caso Moro” sia negli anni successivi.
Nel suo libro “Il caso Moro” (ed. Massari, 2003) aveva dato ampio spazio a quello che secondo lui era stato un testimone più volte minacciato al punto che il capitolo sulla testimonianza dell’ingegnere lo aveva intitolato “Il testimone subornato”. Ricordo anche il particolare dell'Avvocato che lo avvicinò per farlo desistere dal ripeter certe dichiarazioni, avvocato noto per la sua collaborazioni con i Servizi Segreti.
“Magari potessi fartelo conoscere– mi disse – purtroppo è morto prematuramente per una brutta malattia”. L’espressione del viso nascondeva un non so che di tristezza destinata a chi aveva avuto molte sfortune nella vita finendo con l’essere perseguitato dal suo stesso destino.
Ricordo che quando il Procuratore Ciampoli fu ascoltato dalla Nuova Commissione Moro (ed era lo scorso novembre) sobbalzai nel sentire che il famoso Ing. Alessandro Marini era stato riascoltato ed aveva confermato le sue precedenti dichiarazioni. Ciampoli aveva avocato l’inchiesta sulla presenza di una moto Honda in via Fani ed aveva interrogato colui che, dal presunto passaggio di questa moto, avrebbe subito un tentativo di omicidio.
Mi attivai subito per capire se fossi io a ricordare male o se anche altre persone avevano e mie stesse informazioni. Dopo un giro di telefonate conclusi che qualcuno aveva messo in giro questa voce e che la cosa era stata presa molto sul serio se gente del calibro di Ferrara e Flamigni (ne cito solo due per dare l’idea che non si trattava di persone sprovvedute) sapevano della dipartita dalla vita terrena del famoso Ing. Marini.
Tengo a precisare che siamo tutti contenti che egli sia ancora in vita e stia bene, a scanso di equivoci. E che l’argomento di questo post non è la preventiva (falsa) sparizione di un testimone chiave ma di come ritengo incredibile il fatto che dopo ben 8 mesi dall’audizione del dott. Ciampoli, non si sia ancora provveduto alla convocazione di Alessandro Marini.
O meglio. La sua audizione era stata approvata nel mese di febbraio. E sarebbe stato difficile fare altrimenti proprio per la centralità che le sue parole nelle varie sedi che lo hanno ascoltato in 37 anni sono citate una seduta si e l’altra pure!
Ma allora perché non è stato possibile ascoltare, per la prima volta in tempi recenti e dopo le ultime indagini in cui la sua figura è tornata di primo piano, la viva voce del testimone principe di quella tragica mattina del 16 marzo 1978?
Uno strano collegamento mi tocca farlo: poche settimane dopo l’approvazione è uscito il testo “Questi fantasmi” di Gianremo Armeni che ridimensiona notevolmente i ricordi dell’Ing. emersi in tanti anni.
Chi pensa positivo potrebbe ritenere che si stia aspettando l’audizione di Armeni (anch’essa programmata) per poter fare un confronto qualitativo tra queste due facce della stessa medaglia. I maligni, invece, sarebbero autorizzati a pensare che le molte contraddizioni emerse nel “racconto giudiziario” che Armeni ha messo insieme abbiano sconsigliato un po’ tutti dall’andare alla ricerca di qualche figuraccia. Cioè prendere per buone nuove dichiarazioni che nelle carte potrebbero aver già trovato smentita all’epoca.
Qualunque sia la motivazione che ha mosso i Commissari nel non aver ancora dato seguito ad una cosa deliberata dalla loro assemblea, sarebbe troppo chiedere una parola di chiarezza in merito?
Concludo con un’osservazione. La Commissione si chiama “Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro” ma fino ad ora mi sembra che sulla morte si sia dedicato spazio prossimo allo zero. E nel capitolo della morte ci sono anche, e soprattutto, le trattative, le persone dello Stato che hanno avuto un ruolo, i piccoli interessi di bottega eclissatisi dietro il muro della "non trattativa".
Capisco che, cronologicamente e storicamente, prima avvenne il rapimento e solo in un secondo momento si arrivò all’omicidio ma andando avanti di questo passo si rischia di dimezzare gli obiettivi della Commissione per sopraggiunta fine della legislatura. Soprattutto se fosse anticipata…
Per chi vuole approfondire il lavoro svolto da Gianremo Armeni, oltre all'intervista che ho avuto il piacere di fargli, può recarsi alla presentazione del suo libro il giorno 3 giugno 2015 alle 17.30 presso la libreria ARION di Piazza Montecitorio a Roma.
Ci saranno ospiti competenti per cui, comunque la si pensi sulla vicenda, sarà un'occasione utile di approfondimento e di conoscenza.
Io, purtroppo, non potrò esserci per motivi di famiglia ma avrò la possibilità di pubblicare sul sito l'audio integrale del dibattito per poterlo condividere con tutti voi.
Su via Fani se ne sono dette tante: tutto e il contrario di tutto. E molti elementi sono diventati verità accettate da tutti. Ad esempio il fatto che qualcuno dei presenti sul luogo dell’agguato, a bordo di una moto di grossa cilindrata, abbia tentato di uccidere un inerme testimone oculare. E sull’identità di questo presunto killer si sono accesi i dibattiti più infervorati cui abbiamo assistito in quasi 40 anni di indagini ed analisi. Oggi, un comune cittadino non pienamente convinto dei “presunti” fatti, ha portato a termine quella ricerca che nessuno ha saputo (o voluto) fare ed è arrivato a negare un ruolo attivo della moto nell’operazione. Basandosi su documenti inediti (stavolta è davvero così, documenti mai trasmessi alle varie Commissioni d’Inchiesta) ha messo in seria discussione l’attendibilità di quello che tutti hanno sempre ritenuto il principale testimone: ricostruendone dichiarazioni e ricostruzioni il suo contributo risulta essere talmente pieno di contraddizioni da minarne alla base la fondatezza nel ricostruire la dinamica dell’agguato.
Gianremo Armeni, che oggi ho il piacere di presentare a tutti voi, ha svolto questa estenuante ricerca (durata anni), ha pubblicato un libro dal titolo “Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro” (edizioni “Tra le righe libri”) e, assieme, abbiamo fatto una bella chiacchierata non solo sulla sua inchiesta ma anche sul perché chi avrebbe dovuto farla prima di lui perché ha avuto sicuramente la possibilità di analizzare quelle carte, non ha mai tirato fuori quei documenti.
Questo libro non può restare una voce inascoltata in quanto sulla base di un “malinteso” la Magistratura sta cercando i colpevoli di un reato che, in maniera inequivocabile, non è stato commesso. L’intervista si conclude con un appello di Gianremo Armeni al Procuratore Generale Antonio Marini per archiviare questa triste pagina del caso Moro.
L'appuntamento è per dopo la presentazione del libro che si terrà a Roma il 3 giugno: l'audio del dibattito sarà pubblicato in area riservata e chi vorrà potrà commentare ciò che si è discusso e porre le proprie domande all'autore del libro.
Da dove nasce l’esigenza di scavare a fondo attorno ad un argomento così
specifico?
Da un sospetto: che nessun esperto del caso Moro da me interpellato era
riuscito a sedare, ed ora capisco anche il perché, perché nessuno si era mai
preoccupato di scandagliare chirurgicamente le dichiarazioni dell’ingegner
Marini e verificare su quali basi era stato determinato dalla magistratura quel
passaggio processuale. Avendo studiato la storia delle Brigate rosse a partire
da Chiavari, ho dubitato sin da subito della versione del teste Marini. I
brigatisti, in tutta la loro storia, non hanno mai attentato alla vita di un
civile, è sempre stato un vanto garantire l’incolumità di persone terze rispetto
all’obiettivo. Se a sparare al teste fossero stati invece uomini dei servizi o
degli apparati statali, come ipotizzato dai sostenitori del complotto, ciò
sarebbe risultato ancor più bizzarro perché per un’operazione così complessa e
delicata non avrebbero mai assoldato due mentecatti.
Quale è stato il primo documento che, in qualche modo, ti ha spinto ad
andare “fino in fondo”?
In realtà non c’è stato un primo documento rivelatore, c’è stato un insieme
di elementi che continuava a ronzarmi nella testa ma che non riuscivo a definire
con chiarezza. La sentenza di primo grado del “Moro uno”, tutti i verbali delle
dichiarazioni di Marini, gli esami degli altri testi, e tante altre informazioni
che avevo raccolto, hanno concorso a stimolare un’indagine più approfondita. A
quel punto ho iniziato ad analizzare tutte le frasi proferite sotto giuramento
da Alessandro Marini, e ciò che è emerso è stato davvero inimmaginabile, come se
ci fosse stata una partita a scacchi tra il teste e la magistratura. E’ invece
esistito un documento, il verbale del 6 luglio 1982, dibattimento “Moro uno”,
che ho trovato presso l’archivio della Corte d’Assise dopo aver già accertato
l’incongruenza di molte affermazioni dell’ingegnere, che mi ha lasciato davvero
sconcertato perché dà un’altra versione dei fatti rispetto a ciò che abbiamo
sempre saputo.
Documenti noti, documenti meno noti, documenti ignorati. Cosa possiamo
ancora aspettarci di trovare?
Mi sono fatto un’opinione ben precisa in merito: c’è ancora molto da trovare
per smentire altre affermazioni esuberanti. Oltre a quei 3-4 documenti relativi
alle aree tematiche di maggior interesse trattate nel libro, ho scoperto almeno
6 verbali di testimoni che hanno dichiarato di aver chiamato il 113 ad azione
ancora in corso, ottenendo subito la comunicazione, demolendo in tal modo tutta
la dietrologia sul sabotaggio delle linee telefoniche. Se noi immaginiamo che la
prima commissione Moro ha dedicato non so quante audizioni e interrogazioni al
mistero delle linee telefoniche, quando già c’erano documenti e segnalazioni
della questura che negavano tutto il costrutto, abbiamo l’esatta dimensione
della portata dell’affaire. Qualcuno non ci ha forse raccontato che la signora
De Andreis sentì parlare in lingua tedesca? Ho cercato i suoi verbali ed ho
preso atto che aveva sempre escluso che la lingua avesse tale origine. E di
questi esempi, nel libro, ne trovi in quantità industriali. Sono dell’opinione
che qualcuno, molto attivo a ridosso dei primi anni Ottanta, e qualcun altro che
ha raccolto il testimone nella successiva commissione stragi, abbia seriamente
pensato di avere una propria esclusiva sulla documentazione a disposizione.
Consiglio a tutti i giovani studiosi del caso Moro di avviare indagini autonome,
indipendenti da tutta la letteratura esistente, compreso il mio testo.
All’inizio riuscirono a persuadermi della bontà di alcuni assunti, facendomi
perdere anni alla ricerca di ulteriori elementi che potessero corroborare la
congiura degli apparati statali, ma nel confronto ravvicinato con le carte ho
trovato solo smentite. In un caso così complesso e così vasto ci si può trovare
tutto ciò che si desidera trovare, a patto che si ometta tutto ciò che lo nega.
Alessandro Marini, un teste attendibile. Per anni considerato il più
attendibile. Almeno fino ad ora. Perché, secondo te?
Faccio una premessa, che poi lascia anche intuire la risposta. I documenti che
ho passato al setaccio, e le analisi che ho svolto sulla base di essi, non sono
inediti in quanto una mia pura esclusiva. Essendo già esistenti da decenni,
devono considerarsi non soltanto editi, ma anche noti alle autorità che hanno
indagato la questione della moto Honda. In che momento diventano “inediti”,
paradossalmente? Quando uno studioso decide di allegarli al suo libro. Questi
verbali e questa documentazione erano presenti nei fascicoli processuali sin dal
1978, e la mia ricerca è uscita a marzo 2015. Faccio molta fatica a credere che
nessun altro, che si è battuto anima e corpo nella dimostrazione di alcuni
teoremi, non li abbia passati in rassegna, cercati, visionati... Prendiamo, ad
esempio, il documento dell’iter del parabrezza che ho rincorso per mesi, fino a
trovarlo presso l’ufficio corpi di reato, che dimostra senza appello come
nessuna perizia sia mai stata eseguita sul parabrezza più famoso della storia
dei ciclomotori, ebbene, ci troviamo di fronte a una situazione molto nebulosa.
Il senatore Granelli, in una relazione della commissione stragi, scrive che è
stata eseguita una perizia e che l’indagine peritale ha dimostrato
inequivocabilmente come il parabrezza sia stato attinto da colpi d’arma da
fuoco. Io avevo le prove che tutto ciò non era vero, eppure in un documento
istituzionale si affermava il contrario. Qualcuno mi spieghi anche come mai
nessun osservatore - sostenitore della tesi del ruolo attivo della Honda - abbia
ritenuto di verificare quella perizia per portare l’opinione pubblica a
conoscenza di altri dettagli degni di curiosità: che tipo di arma venne usata
contro Alessandro Marini, se faceva parte delle 6 già individuate, quanti colpi
vennero riscontrati contro il parabrezza, se venne forato o solo colpito di
striscio, il calibro, la direzione dei proiettili, e tutta una serie di elementi
tecnici che abbondano nelle perizie balistiche. Magari qualcuno lo ha fatto
questo tentativo e ha scoperto che mancava l’elemento originario? Il teste
Marini è stato sempre ritenuto super affidabile perché egli è dal 16 marzo 1978
la prova regina – per citare un passaggio della prefazione di Vladimiro Satta –
e l’architrave su cui si è sempre poggiato il teorema della funzione attiva
della moto.
La moto non ha avuto un ruolo operativo e non ha sparato su nessuno. I
documenti che tu analizzi lo provano chiaramente. Eppure sul suo ruolo è stato
detto di tutto e costruiti i teoremi più disparati. Quali altri presunti misteri
su Via Fani potrebbero crollare presto secondo te?
Non parlerei tanto di teoremi che potrebbero crollare, perché un teorema per
essere tale deve anche essere sostenibile e condiviso da una vasta platea. In
circolazione esistono invece molte analisi di fantasia che non hanno bisogno di
essere messe in discussione proprio perché non esistono nella realtà. Io credo
che molti magistrati, e insigni studiosi, mi vengono subito in mente Satta,
Clementi, Casamassima... e tanti altri che non cito solo per non dilungarmi,
abbiano ampiamente dimostrato nelle loro ricerche come il caso Moro abbia
raggiunto un livello di conoscenze senza precedenti, demolendo molti assunti
fantasiosi che hanno generato un mistero dietro l’altro. La presunta funzione
attiva della moto Honda non la considero un’analisi di fantasia, specie perché
nella già citata sentenza venne scritto quel che venne scritto, e in una
commissione parlamentare si fece riferimento alla perizia del parabrezza.
Considero assurdo tutto ciò che in modo indiscriminato e incontrollato è stato
piazzato a bordo della due ruote giapponese. Non escludo che all’interno della
storia dell’organizzazione armata, e dei 55 giorni in particolare, possano
sussistere zone grigie mai sufficientemente chiarite, che ci possa essere
qualche militante che è riuscito a sottrarsi alle proprie responsabilità, ma
questi sono aspetti della vicenda connaturati in ogni organizzazione illegale.
Credo che dietro alle grandi affermazioni, del tipo “a sparare in via Fani sono
stati i servizi”, ci debbano essere grandi prove.
Una moto è stata vista comunque attraversare la scena dopo la fuga dei
brigatisti. Possiamo escludere che si trattasse di un soggetto esterno alle BR
che, bisognerebbe capire come mai, era li per verificare cosa era successo? E
che magari durante l’azione si era tenuta a debita distanza?
Possiamo escludere in modo inequivocabile che si trattasse di soggetti coinvolti
nell’azione terroristica, e possiamo escludere che fossero personaggi informati
dell’agguato e rimasti appartati in attesa che tutto finisse. Ho ricomposto il
mosaico facendo interagire tutti gli elementi, sonori, geografici, e
testimoniali. Non esiste alcun margine, a mio avviso, che possa far ipotizzare
il contrario. Nel libro ci sono pagine e pagine di dettagli (è sintomatica la
ricostruzione che alcuni osservatori fanno del testimone Luca Moschini e che
smentisco allegando i suoi verbali) che relegano la moto a semplice appendice
estranea a tutto, così come lo saranno stati in quei due minuti di ritardo con
la quale si è palesata tutti i mezzi e le persone che sono transitati dopo la
fuga dei “cancelletti”. Nel mio testo la figura di Alessandro Marini ne esce
demolita, di Luca Moschini nemmeno bisognerebbe parlarne dopo aver letto
attentamente le sue dichiarazioni, per quanto riguarda Intrevado rimando al
testo.
Si è parlato, lo scorso anno, della presenza, a bordo della moto di due
ragazzi del movimento (Roberta Angelotti e Giuseppe Biancucci) che avevano
appena smontato dal turno notturno in un garage di via Stresa. Tu hai trovato
documentazione in grado di acclarare questo fatto? Che idea ti sei fatto di
questa interpretazione?
Ho chiesto i verbali ma le trafile burocratiche mi hanno fatto desistere, e poi
avevo già trovato i documenti che demolivano la funzione attiva della moto, e a
me questo bastava. Perdere altri mesi prima di avere tra le mani il verbale
Digos di Biancucci e Angelotti, senza avere la certezza di ottenerlo,
sinceramente non lo ritenevo proficuo. Non ho elementi tali che possano
avvalorare in modo oggettivo la presenza dei due autonomi, però inserisco i due
giovani in un contesto più organico rispetto a quanto si era fatto sino adesso,
un contesto probatorio risultante da più livelli di ricerca come hai potuto
notare, e credo che la tesi di Peppo e Peppa sia molto plausibile, seppur non
definitiva.
Il ruolo attivo della moto ed il suo ruolo operativo nella dinamica
dell’azione, l’ho precisato prima, sono una cosa. E la si poteva escludere in
base a ragionamenti logici. Adesso i tuoi documenti elevano l’ipotesi a livello
di fatto. Senza più margini di manovra. Ma il passaggio di una moto sul luogo
dell’azione, diciamo un minuto dopo la fuga dei brigatisti, perché non sarebbe
potuto essere un curiosare interessato di chi si era volutamente tenuto a debita
distanza?
Rispetto le opinioni di tutti, ma continuerei ad escluderlo perché questo
curiosare a distanza non è confortato dal quadro probatorio risultante. Se
avessero voluto ficcare il naso senza intervenire, a mio avviso, si sarebbero
potuti scegliere un posto in prima fila, magari all’incrocio con via Stresa,
fingendo di essere stati fermati dal cancelletto al pari di altri testimoni, e
nessuno li avrebbe potuti confondere come soggetti in qualche modo implicati.
Non è questa la sede per argomentare al meglio la risposta, ma esiste tutta una
serie di altre ragioni che mi porta a pensarla diversamente.
Tornando ai presunti “Peppe e Peppa”, non penso sia irrilevante quel
documento. Senza cercare lontano, ne hanno parlato lo scorso anno alcuni siti
(commettendo dei grossolani errori, tuttavia). Non basterebbe chiedere a loro?
Se hanno approfondito la notizia devono avere in mano qualcosa o, quantomeno,
conoscere la catalogazione esatta di quel verbale di ammissione. Chiuderebbe
definitivamente la questione.
Hai ragione, non è irrilevante, ma qui distinguerei il piano storiografico da
quello giudiziario. In merito al primo aspetto credo sia molto importante
approfondire la questione per posizionare altre tessere nel mosaico.
Diversamente, come ha scritto Vladimiro Satta nella prefazione, con il quale
concordo, il tentativo di cercare questi due centauri, una volta escluso il
coinvolgimento della moto, non sarebbe nemmeno così determinante sul piano
giudiziario. Non so francamente cosa abbiano in mano quei siti a cui fai
riferimento, probabilmente notizie di prima mano ma non il verbale, anche se non
ho certezze in merito. Fonti attendibili mi confermano l’abitazione di Biancucci
in via Stresa. Su quel verbale ho un’idea ben precisa: noi sappiamo che in
procura, quella di Roma, è depositata l’istruttoria del sexies, che stando a
quanto riferito dal procuratore generale Antonio Marini ruoterebbe per larghi
tratti attorno al ruolo della Honda. Biancucci e Angelotti sono stati
interrogati dalla Digos. Mi pare evidente che il giudice Marini abbia acquisito
quelle sommarie informazioni facendole diventare parte integrante del fascicolo
custodito in tribunale, che è off limits per i non addetti ai lavori.
Ci sono due particolari che mi hanno molto colpito, apparentemente due
dettagli che, però, in chiave interpretativa possono risultare fondamentali. Il
primo riguarda il “famoso” parabrezza del motorino di Marini. Sia il Commissario
Granelli in una relazione per l’allora Commissione Stragi, nel 1994 parla di una
perizia sul parabrezza. L’ex Giudice Imposimato, addirittura, scrive in un suo
libro che i buchi sul parabrezza erano visibilissimi (e questo confermava
l’attendibilità del teste). Mi sembra che tu abbia cercato a lungo la perizia …
Come ti dicevo in precedenza, ho scoperto un documento che ripercorre l’iter del
“parabrezza”, una sorta di carta d’identità del reperto che sconfessa qualsiasi
ipotesi d’indagine peritale. I destinatari della tua domanda dovrebbero essere
Imposimato e Granelli, quest’ultimo credo sia scomparso, ma il primo potrebbe
chiarire almeno due aspetti. Com’è possibile che egli individuò dei fori di
proiettile sul parabrezza quando, come hai potuto appurare anche tu dal mio
testo, è escluso che qualcuno abbia sparato all’ingegnere? Difatti, la mia
analisi è volta proprio a demolire qualsiasi ipotesi di tentato omicidio,
volontario che fortuito, sia che il parabrezza venne attinto da colpi, sia che
andarono a vuoto, e a inficiare il ruolo attivo della moto non limitando il
discorso all’attendibilità di Marini, anche se poi questa è stata da sempre la
prova regina di determinate teorie. Qualche mese fa, Paolo Persichetti, sul sito
“Insorgenze”, è stato autore di uno scoop che ha ritratto il famoso motorino
davanti al bar Olivetti. La foto inizialmente era in bianco e nero,
successivamente, Nicola Lofoco ha individuato una diapositiva molto nitida, a
colori, dove si evince in modo cristallino l’assenza dei fori. Se invece
dovessimo accreditare l’altra versione, quella dei colpi deviati dal parabrezza,
quindi con imprecisati segni di striscio, da profano, credo - e questo è il
secondo quesito da porre – che l’ex giudice istruttore, in entrambi i casi,
avrebbe dovuto chiedere un’immediata perizia fugando in tal modo tanti dubbi e
individuando l’eventuale arma utilizzata. Perché i due frammenti di parabrezza
vengono segnalati dalla Digos come corpo di reato (vd. foglio rosa allegato al
libro), su richiesta del giudice istruttore, e poi vengono rinchiusi in un
magazzino senza essere indagati da un perito balistico? Potrebbe averla chiesta
alla Corte ed aver ottenuto un rifiuto? Sarebbe interessante conoscere sia la
sua di versione, che quella del presidente Santiapichi. Inoltre, Alessandro
Marini ha sempre parlato, nelle sue tante versioni discordanti, di un solo foro,
mentre Imposimato usa il plurale nel suo libro. Io credo che qualcuno debba
delle risposte alla società civile, non a noi due.
Il secondo riguarda le presunte minacce che Marini avrebbe ricevuto nei
mesi successivi alle sue deposizioni proprio sulla moto Honda. La sua utenza fu
messa sotto controllo ma le registrazioni non è sembrato che siano interessate
più di tanto.
Questo, a mio avviso, è l’aspetto più inquietante di tutta la faccenda perché
non posso credere che a nessun inquirente fosse venuto il sospetto. Le
dichiarazioni dell’ingegner Marini, da alcuni riferimenti temporali che ho
radunato, stridevano in modo imbarazzante. Eppure, il tema delle intimidazioni
ha rivestito all’udienza del “Moro ter” il 90% della deposizione del teste, e
questo i frequentatori del tuo blog lo possono verificare pacificamente andando
sul sito di radio radicale, e cercare la deposizione di Alessandro Marini del 7
ottobre 1987. Si parlò solo di questo aspetto. Il nastro del baracchino che gli
venne assegnato per registrare le telefonate non venne mai sbobinato, ci ha
pensato 36 anni dopo il Procuratore Generale, dott. Ciampoli, che in audizione
davanti alla commissione ha detto chiaramente che le minacce non avevano nessuna
attinenza con la strage. Questo aspetto della vicenda non ha forse sempre fatto
da corollario al tentato omicidio e al coinvolgimento della moto?
Per chiudere sulla moto. Che idea ti sei fatto? Una moto
(indipendentemente da chi e perché) è passata sul luogo dell’agguato dopo la
conclusione dell’azione o no?
Secondo me dovremmo attenerci ai fatti. Tutto ciò che esula dal ruolo attivo del
mezzo nell’attacco terroristico, e in questo discorso rientrano naturalmente
Peppo e Peppa, assume contorni del tutto secondari ed estremamente aleatori
perché qualsiasi ipotesi potrebbe prestarsi a un’infinità di interpretazioni. Mi
permetto di fare un discorso semplicissimo. Chi ha raccontato di aver visto una
moto? Per essere più precisi: chi avrebbe visto passare una moto dopo la fuga
del commando, quando tutto era già terminato e non c’era più nulla di anomalo da
notare? Alessandro Marini, come hai potuto comprovare, ha costruito ex novo un
pezzo di storia. Intrevado fa le sue dichiarazioni una ventina di giorni dopo,
quando già sapeva che era circolata una certa notizia, che oggi sappiamo essere
stata distorta. Abbiamo poi un medico, Moschini, che ne vede ancora un’altra,
prima e non dopo l’azione, di colore diverso, di diversa cilindrata, in un’altra
posizione, e per giunta non ci dice nemmeno che fosse una Honda. Infine, anche
Bruno Barbaro ci parla di un due ruote – senza fornirci nessun dettaglio sul
mezzo - che transita abbastanza dopo la fuga dei brigatisti, ma non può
corrispondere a quella presunta vista da Marini e Intrevado perché non
combaciano i tempi. Ebbene, ci sono 3 moto diverse che passano o stazionano in
zona nell’arco di circa 5-10 minuti. Probabilmente, ne saranno passate altre 5
per via Stresa, e altre 4 saranno state parcheggiate in via San Gemini...
Capisci cosa voglio dire? Tutto ciò che non può essere addomesticato con
elementi plausibili si presta a illazioni di varia natura, impossibili da
controllare.
Quali sono state le prime reazioni al tuo lavoro che, ricordiamo, è in
libreria ormai da qualche mese? E’ quello che ti aspettavi?
E’ accaduto esattamente quello che mi aspettavo. In molti, te compreso, hanno
preso atto di ciò che non poteva essere demolito opponendo solo ipotesi, ed è
abbastanza intuibile la reazione degli altri, ma questo va messo in preventivo
per ogni libro che si scrive. Le cose si fanno anche per essere vagliate
criticamente da chi la pensa in modo contrario.
Torniamo alla ricerca documentale che ha permesso la costruzione
dell’inchiesta. Come ti sei mosso tra le varie ubicazioni dove è possibile
reperire documenti giudiziari? E’ stato difficile? E’ un qualcosa che prevede
delle “barriere all’ingresso” o è alla portata di tutti?
Nel testo ho inserito una piccola guida che dovrebbe orientare gli studiosi
neofiti della materia. La barriera più invalicabile è costituita dalla posizione
geografica in cui si trovano le carte. Per chi non vive a Roma è oggettivamente
un ostacolo la loro consultazione, almeno fino a quando l’archivio di Stato non
concluderà la digitalizzazione di tutto il complesso informativo. Sul web si
trova qualcosa inerente ai lavori delle precedenti commissioni, ma ti assicuro
che è una porzione infinitesimale rispetto alla documentazione presente negli
archivi. Per visionare gli atti della commissione stragi è sufficiente un
tesserino che viene rilasciato dall’archivio storico del Senato dopo aver
compilato un modulo online. Per l’archivio della Corte d’Assise di Roma, le cose
si fanno già un tantino più complicate perché bisogna inviare una richiesta
scritta al presidente del tribunale di Roma, e poi, in caso positivo, rispettare
la programmazione del cancelliere. Per lo studio dei 130 volumi della prima
commissione Moro non esiste nessuno scoglio, basta recarsi nelle biblioteche di
Camera e Senato.
Quali sono stati i tempi necessari a mettere insieme tutti i documenti che
hai trovato?
Non lo so con precisione. Posso soltanto dire che la ricerca è iniziata 5 anni
fa senza sapere esattamente dove mi avrebbe portato il successivo confronto con
la documentazione. Questi cinque anni sono stati necessari per lo studio della
stragi, della Moro, e dei faldoni conservati a Rebibbia, presso l’archivio della
Corte d’Assise.
Perché, secondo te, altri storici, giornalisti, scrittori ben più noti di
te non l’hanno fatto prima? Per limiti professionali, pigrizia o per malafede?
Anche qui il discorso andrebbe distinto. Tutti gli studiosi che non vivono a
Roma sono oggettivamente impossibilitati a mettere insieme tutto quel materiale
documentale che ho potuto raccogliere; sono costretti a basare la loro
conoscenza su fonti che non sono primarie. Se l’elemento originario subisce una
distorsione - è il caso di quel passaggio della relazione Granelli – la notizia
si diffonde in modo veritiero, quando invece è soltanto una leggenda. Per questo
ribadisco l’umile consiglio a chi voglia interessarsi della materia: va bene
leggere tutto, ma è altrettanto indispensabile svolgere indagini autonome e
indipendenti. Poi esistono tutti quegli osservatori che si sono lasciati
persuadere dalla sentenza del “Moro uno”, e non avevano legittimamente nessuna
ragione per andare a scavare oltre ciò che era passato in giudicato. Infine,
coerentemente con una risposta che ti ho già dato in precedenza, c’è qualcuno
che sin dagli anni Ottanta ha avuto un accesso privilegiato alla documentazione,
ma questo non mi autorizza a sostenere che ci sia stata malafede. Quest’ultimo
aspetto lo potranno valutare soltanto i lettori.
Se avessi la possibilità di scegliere, su quale altro filone scaveresti?
Per il momento non ho focalizzato appieno l’idea sulla quale lavorare in futuro.
Adesso cosa sarebbe necessario fare?
E’ incredibile come la leggenda della Honda, dei suoi occupanti, e del tentato
omicidio ai danni di un testimone sia potuta proliferare per quasi quattro
decenni. Spero, e ho fiducia in questo, che il procuratore generale Antonio
Marini, che rappresenta un pezzo importante della storia giudiziaria di questo
paese, un uomo che tutti stimiamo, chiuda una volta e per tutte questa triste
pagina, prendendo atto del fatto che la sentenza di primo grado, in merito al
tentato omicidio e al ruolo attivo della moto, è stata edificata unicamente
sulle parole di un testimone sconvolto dall’azione, in assenza di ogni riscontro
probatorio. Sono 37 anni che le istituzioni di questo paese, politiche e
giudiziarie, cercano questo mezzo e i due centauri, ma senza alcun risultato
perché a tutt’oggi abbiamo gli stessi elementi di allora; non c’è stato alcun
progresso. La falla va individuata nella distorsione di un frammento della
strage già a partire dal 16 marzo 1978, non ravvisata dalla prima Corte d’Assise
nella sentenza del 24 gennaio 1983. In una tua precedente domanda hai scritto
che nel libro si trovano documenti e fatti che non pongono più nessun dubbio sui
temi in questione, ma ciò è stato possibile soltanto ripartendo da quello che ho
definito l’anno zero, ossia la revisione di tutte le carte che preesistevano
rispetto a quanto passato in giudicato. Io credo che il giudice Marini, una
volta confrontatosi con questa realtà, con il suo elevato senso delle
istituzioni e l’alta concezione che ha della giustizia, non abbia alcuna
difficoltà a mettere almeno in discussione alcune convinzioni, e questo
rappresenterebbe – in un’epoca in cui nessuno lo fa - un atteggiamento
assolutamente edificante perché la memoria dell’onorevole Moro e dei suoi 5
agenti di scorta appartiene soprattutto alla società civile.
Pochi giorni fa è venuto a mancare l’avv. Giannino Guiso. Come ricordano molti giornali fu avvocato difensore di Craxi, Mesina e Pillitteri. Avvocato vicino al PSI, difese diversi politici implicati nella stagione di Mani Pulite. Qualcuno ricorderà la frase “La storia giudicherà chi ha tentato di giudicarlo” che Giannino Guiso pronunciò nel gennaio del 2000 subito dopo la morte dell’assistito ed amico Bettino Craxi.
In questi giorni è stato ricordato anche un altro ruolo importante: quello che fece, come difensore di Curcio e Franceschini da un lato, e come esponente dell’area socialista dall’altro, di avviare un tentativo di trattativa per la liberazione di Aldo Moro coinvolgendo i brigatisti del cosiddetto “nucleo storico” che in quei giorni erano sotto processo a Torino.
Mentre lavoravo all’ultimazione della prima edizione di Vuoto a perdere, riuscii a stabilire un contatto con l’avv. Guiso: me ne interessai perché parlando dell’azione “umanitaria” del PSI il suo ruolo era stato importante e volevo avere il suo parere su ciò che avevo scritto e, soprattutto, se avesse qualcosa da aggiungere.
Nei primi colloqui fu molto cordiale. Mi parlò del tentativo di individuare un terrorista che non si fosse macchiato di reati di sangue e, a seguito di una prima analisi, vennero fuori i nomi di Cesare Maino e Alberto Buonoconto. Gli spedii la parte del testo che lo vedeva, in qualche modo, coinvolto. Quando lesse queste parole, Guiso andò su tutte le furie:
<<Secondo Franceschini, fu steso un comunicato nel quale i brigatisti storici proponevano di spostare il terreno della trattativa, dalla liberazione di prigionieri politici al miglioramento delle condizioni carcerarie. Fu chiesto all’avvocato Guiso di riferire a Craxi, che se i socialisti avessero appoggiato la proposta, i detenuti avrebbero dichiarato pubblicamente che “la vita di Moro doveva essere salvata”.>>
Mi disse che questa affermazione non stava né in cielo né in terra e che le cose stavano in modo molto diverso. Che altro non ero se non l’ennesimo tentativo di strumentalizzazione della sua vicenda, sulla quale era sempre stato chiaro e trasparente. Poi gli dissi che forse non ricordava bene il testo che gli avevo mandato in quanto, poche righe prima, specificavo che quella frase non era mia ma del suo ex assistito Alberto Franceschini e che lo aveva scritto in un libro da poco uscito. Il suo atteggiamento cambiò. Tornò ad essere cordiale e disponibile, mi disse che avrebbe chiarito questa dichiarazione con l’ex terrorista e mi raccontò altre cose.
Ad esempio mi disse che, secondo lui, la sua iniziativa era molto concreta e aveva buone possibilità di essere portata a termine. Solo che qualcuno, probabilmente, si mise di traverso spezzando il dialogo che Guiso aveva pazientemente costruito e stava faticosamente portando a termine. Pochi giorni prima del 9 maggio, iniziò a riscontrare cambiamenti di atteggiamento nei suoi riguardi: dove prima vi era attenzione e interesse notò diffidenza e lassismo. Tanto che, mi disse, quelli che prima lo definivano “illustre cassazionista” lo etichettavano come un “oscuro avvocato di provincia”. E fu il suo amico Walter Tobagi a metterlo in guardia: “Ti vogliono fermare”.
Lui era davvero convinto di riuscire ad ottenere la liberazione di Moro e contava molto sull’apertura di Fanfani (che aveva preso accordi con il vice presidente del PSI Signorile). Guiso aveva una possibilità in più, a differenza di altri, e sapeva di poterla utilizzare al meglio: le pressioni su Curcio e sugli altri perché facessero una dichiarazione esterna. E si era arrivati ad un passo dall'ottenerla...
E poi mi disse la sua opinione cocnlusiva, e parlo di opinione in quanto non mi è stato possibile confortarla da fatti.
“Le Brigate Rosse - mi disse con tono molto calmo - sono state costrette ad uccidere Aldo Moro” “Cosa vuole dire?” “Esattamente quello che ho detto” “Si – replicai cercando di farlo essere più preciso – ma questa era un’ovvia conseguenza se si considera che dall’altra parte non si volle trattare” “Non mi ha capito. Loro lo volevano liberare. Sono state costrette dall’esterno…” Non feci a tempo ad aggiungere nulla che stroncò la comunicazione. “E non mi faccia aggiungere altro. Ho già subito due attentati per aver detto queste cose e non ho nessuna intenzione di subirne un terzo. Arrivederci.”
Da allora non l’ho sentito più. Avrei potuto richiamarlo, approfondire, magari anche invitarlo ad una presentazione del libro, ma preferii rispettare quella sua decisione di chiudere la conversazione. Perché era evidente che questo era il suo intento, con quella frase conclusiva.
Nei colloqui precedenti, Guiso mi parlò del caso Moro per quello che, secondo lui, era: un sequestro di persona. Perché il 16 marzo c’era stato un omicidio plurimo, il 9 maggio un ulteriore omicidio ma nei 55 giorni la vicenda altro non era che un sequestro di persona. Politico, ovviamente, ma sempre un sequestro. E nei sequestri, si tratta. E trattare non vuol dire dare degli ultimatum unilaterali ma, in qualche modo, dialettizzarsi.
Guiso ha scritto un libro a ridosso della vicenda, “La condanna di Aldo Moro” (1979) che non ha avuto la diffusione che meritava, soprattutto nel tempo. Forse non a caso.
La sostanza delle parole di Guiso, che non credeva ovviamente a eterodirezioni o condizionamenti esterni delle BR, è molto semplice. Al di la delle iniziative pubbliche (comunicati, articoli, dichiarazioni del governo, ecc.) vi furono azioni istituzionali che portarono ad una trattativa concreta con i brigatisti. Una trattativa fatta di contatti reali e di mediazioni politiche e materiali. Portata avanti in nome e per conto delle Istituzioni. Poi vi furono altre azioni, differenti per protagonisti ed obiettivi che non si sovrapponevano ma neanche ostacolavano la trattativa “ufficiale”. Anzi, in un certo senso, potevano rappresentare un’utile velo protettivo. Azioni autonome, come quella dello stesso Guiso, di Cazora, dei collaboratori di Moro ecc.
Il problema era che, quando sembrava ormai andata in porto, la trattativa fallì, proprio nelle ultimissime ore. L’onorevole Signorile parla di sabotaggio. Qualcuno tradì? Qualcuno osò troppo? Sta di fatto che le BR ormai sicure di aver portato a casa il risultato furono costrette, da un cambiamento esterno delle condizioni sulle quali si era fino a quel momento giocato, ad uccidere il prigioniero.
Forse Guiso aveva capito il meccanismo che aveva portato all’arenarsi la sua trattativa che, ripetiamolo, lui stesso riteneva molto concreta ed in grado di portare alla liberazione di Aldo Moro. Forse aveva addirittura individuato i responsabili del “sabotaggio”. Ma, evidentemente, nulla poté per impotenza o mancanza della “smoking gun”.
Era un grande avvocato, ma troppo piccolo per cambiare la storia.
Moro: avvocato vittime v.Fani, scommetto manca cassetta n.13 (2)
(ANSA) - ROMA, 13 MAR - Davanti alla Commissione stragi Morucci, anni fa, ha spiegato che le cassette con gli interrogatori di Moro furono distrutte probabilmente sovraincidendole. E le cassette di via Gradoli sono in molti passaggi, sovraincise. Parlando con l'Ansa, l'avvocato spiega perche' sono cosi' interessanti queste cassette e perche' quindi la sua attenzione e i suoi timori di scomparsa riguardano la n. 13 "Nella prima parte vi sono canti rivoluzionari, cosi' come nella seconda parte, ma per alcuni giri l'ufficiale di PG annota: 'voce maschile che parla con compagni per discutere di alcuni articoli'. Si tratta di una evidente sovraincisione. La voce registrata e' una sola, e dal tenore delle parole evidentemente si rivolge a piu' persone; a dei 'compagni'. Il tema affrontato dalla 'voce maschile' riguarda 'alcuni articoli'. E' da escludere, per ragioni di evidente sicurezza, che le BR registrassero le loro discussioni". E se fosse uno stralcio dell'interrogatorio di Moro? "Moretti - dice l'avvocato Biscotti - non usava il singolare del tipo 'io delle BR', ma 'noi delle BR' e puo' darsi che Moro rivolgendosi a Moretti e alle Br usasse il plurale. ('Parla/i con i compagni'). La voce registrata e' una sola, altrimenti l'ufficiale di PG avrebbe scritto piu' voci (piu' persone), il plurale e' riferito a quelli che ascoltano. La discussione 'su alcuni articoli' e' suggestiva se si pensa che Moretti portava a Moro i ritagli degli articoli di stampa nella 'prigione' e che in via Gradoli vengono trovati dei giornali del 29-30 aprile con evidenti tagli su articoli riguardanti la vicenda Moro.
E' certo che Moretti per aggiornare Moro su cio' che accadeva fuori gli portava nella 'prigione' solo articoli ritagliati. Sempre a via Gradoli viene trovato un blocco note (reperto 774) di 12 pagine a quadretti manoscritte delle stesse dimensioni del quaderno usato da Moro per scrivere il suo memoriale. Inutile ricordare l'importanza dei giorni 29 30 marzo (lettera a Cossiga che per Moro doveva rimanere riservata).
I poteri della Commissione consentono di far analizzare queste audiocassette e ascoltarle e di valutarle appieno anche rispetto all'ipotesi che ci siano state delle sovraincisioni e sempre se, come temo, la numero 13 non sia scomparsa".
Caso Moro. Grassi (Pd), acquisite 17 cassette audio registrate tra i reperti di via Gradoli. Dagli atti risulta che non sono mai state ascoltate
“Oggi il presidente della Commissione d’inchiesta sul caso Maro, Giuseppe Fioroni, ha acquisito diciassette cassette audio-registrate ritrovate tra i reperti del covo brigatista di via Gradoli grazie al lavoro della dottoressa Antonia Giammaria, magistrato distaccato presso l’organismo parlamentare. Non risulta da nessun atto giudiziario che il contenuto di queste cassette sia mai stato ascoltato e verbalizzato. Da quel che si conosce dagli atti erano 18 le cassette registrate ritrovate nel covo e mai ascoltate: ad oggi ne manca dunque una. Per il momento le cassette sono dunque nella cassaforte della Commissione, presto ne conosceremo il contenuto e ne valuteremo la sua rilevanza per le nostre indagini”. Ne dà notizia Gero Grassi, componente della Commissione d’inchiesta sul sequestro e la morte di Aldo Moro.
Comunicato stampa
Caso Moro. Grassi (Pd), la casa di Senzani era intercettata. I detrattori della Commissione parlamentare siano più cauti
11 marzo 2015 - “E’ emerso dalle recenti acquisizioni della Commissione che la casa del Brigatista Giovanni Senzani, un vero buco nero nella storia dell’eversione rossa, era intercettata. Dagli atti delle inchieste svolte dal procuratore Vigna è emerso che l’ex moglie di Senzani riferì agli investigatori di aver trovato in casa un registratore murato, opera che non era riconducibile a nessuno degli occupanti dell’appartamento. La novità, di cui ha parlato oggi il presidente Fioroni in occasione della interessante audizione del procuratore Tindari Baglioni, potrebbe aiutarci a trovare conferme sulla ‘pista fiorentina’, cioè quella che riconduce nel capoluogo toscano i protagonisti di alto calibro dell’affaire Moro”. Così Gero Grassi, componente della Commissione d’inchiesta sul sequestro e la morte di Aldo Moro, il quale aggiunge: “I detrattori dell’organismo parlamentare farebbero bene ad essere più cauti, perché il caso Moro, purtroppo, non è andato come ci hanno raccontato e scoprire almeno qualche elemento di realtà è nostro dovere”.
Comunicato Stampa.
Leggo di un incontro/dibattito avvenuto un paio di giorni fa in cui, con la moderazione del giornalista Giovanni Fasanella, due ex si sono trovati a parlare del loro passato. Due ex, però, di opposta estrazione e che negli anni ’70 si trovavano da parti opposte della barricata: Alberto Franceschini (fondatore e leader delle BR) e Mario Mori (generale dei Carabinieri che alle BR dava la caccia). >leggi l'articolo tratto dal sito Panorama d'Italia<
Una prima riflessione che mi viene in mente è come mai non si sia levato il solito coro di disapprovazione in quanto, seppur accompagnato da un esponente delle istituzioni, sempre di ex brigatista si tratta e, in questi casi, consiglieri comunali e politicanti di ogni genere riescono ad ottenere il proprio minuto di visibilità inveendo contro un assassino, il suo diritto di parola e contro chi ha osato dargli voce.
C’è da dire che questa pratica, mediaticamente parlando, funziona, se è vero che qualcuno ha pensato di portarla ai massimi livelli inneggiando ad un “Fuori le BR dalle Procure”. Ma siamo in Italia e se la cultura su quegli anni è poca l’ignoranza, invece, è tanta. Ed aumenta sempre di più.
Una prova la trovo proprio nel tono dell’articolo (descritto quasi come un ritrovo tra due leader politici opposti che si sono fronteggiati nella conduzione di un Paese) e nelle considerazioni che vi sono presenti.
“Franceschini contribuì a fondare le Br con Renato Curcio e Mario Moretti e fu incarcerato dagli uomini di Mori prima di macchiarsi di fatti di sangue.”
Non è la prima volta che sento questa atrocità che è figlia del pensiero dietrologico che vedrebbe i primi brigatisti come buoni e ingenui Robin Hood che mai e poi mai si sarebbero macchiati dei crimini commessi dopo che l’Organizzazione fu decapitata proprio di Franceschini e dell’altro leader Renato Curcio.
Niente di più falso, per almeno due motivi:
-
la linea di sviluppo dell’attacco allo Stato, la formulazione del SIM, della DC come nemico numero uno da abbattere attraverso i suoi uomini di spicco, la diede proprio Renato Curcio (“vecchia guardia” per così dire) nella primavera del 1975, nel suo breve periodo di libertà dopo l’evasione dal carcere di Casale Monferrato. Quindi dire che le BR successive siano state, dal punto di vista politico e del salto di qualità nella lotta, una cosa diversa è errato
-
proprio Alberto Franceschini è stato tra coloro che in carcere ha più ferocemente condotto la lotta sia verso coloro che si pentivano o fossero solo in odore di pentimento, sia nei confronti dei compagni fuori allorché, al momento della scissione tra Partito della Guerriglia e Partito Comunista Combattente, si schierò con l’astro nascente Giovanni Senzani che fu protagonista dell’ultima stagione brigatista, un insensato precipitare in una spirale di crimini senza senso e fini a se stessi.
La storia delle BR è una storia collettiva, un’insurrezione dove non è possibile distinguere tra chi guidava un’auto, offriva riparo a latitanti, consegnava lettere o produceva documenti falsi e procurava armi. Una storia che ne ha visti i leader esserne responsabili al 100% dall’inizio alla fine.
Qualcuno obietterà: “Ma se uno era in carcere come faceva a contrastare, ad esempio, la decisione di rapire Aldo Moro massacrando la sua scorta?”. Vero, in parte. Perché anche stando in carcere, nessuno dei leader ha mai esternato una condanna. Curcio, in rappresentanza degli altri che in quel momento erano ancora sotto un unico “partito armato”, dopo l’uccisione di Moro ebbe parole molto dure, seppure frutto di una citazione di Lenin. E Franceschini era al suo fianco, era l’altro generale brigatista.
Non se ne esce da questo drammatico periodo della nostra storia applicando le semplificazioni algebriche per ridurre le responsabilità, ma capendo realmente cosa successe, al di la delle facili e comode dietrologie che spostano il problema su un altro terreno.
Non più una società che ha portato una parte non marginale di una generazione a volere una società più giusta (e questo è lecito) ritenendo che non si potesse che percorrere la strada della violenza (e fu questo l’errore) perché ciò che si voleva non erano nuove regole nella società in cui vivevano ma una nuova società che partisse dall’abbattimento di quella esistente.
Ma la più rassicurante immagine di una società buona e giusta nella quale forze esterne (per lo più straniere ed in genere i cattivi russi o americani a seconda del punto di vista) hanno voluto disturbare il nostro benessere agitando le nostre giovani generazioni attraverso presunti agenti segreti.
Riuscendo, in questo insabbiamento, a perseguire un altro importante risultato: inseguendo improbabili piste si riesce a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli indicibili segreti dello Stato che potrebbero, almeno in parte, emergere dalle carte di prossima desecretazione.
“Una ferita ancora aperta nella storia del nostro Paese, una delle pagine più drammatiche: il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro. Se ne sono occupati in tanti, dal Parlamento fino al cinema ed ora, la ricostruzione fedele dell'agguato di via Fani, nel corso del quale nel 1978 venne rapito Aldo Moro e furono uccisi gli agenti della sua scorta, contenuta nel film del 2003 «Piazza delle Cinque lune», potrebbe diventare un atto ufficiale. «Chiedo che possa essere acquisita come prova nelle indagini della nuova commissione di inchiesta che indaga sul rapimento e l'assassino del presidente della Democrazia cristiana da parte delle Brigate Rosse», spiega il regista del film, Renzo Martinelli, dal palco de «La Gardesana 2014» l'evento in programma a Desenzano del Garda (Brescia) fino al 5 settembre. Il regista, intervistato da Giovanni Terzi, ha raccontato come la scena dell'attentato sia stata «girata più volte utilizzando tutti gli elementi fotografici e le testimonianze raccolte dalla magistratura». Una ricostruzione, secondo Martinelli, «che smentisce nei fatti la versione ufficiale dell'inchiesta» e risulterebbe più accurata di quella ufficiale ma, spiega Martinelli, «nessuno ci ha mai convocato per analizzare quello che abbiamo provato sul campo». Una nuova commissione si sta attivando per fare luce su quei fatti anche grazie al libro scritto da Ferdinando Imposimato, giudice che seguì il caso Moro. Ed ora, un aiuto per far luce su quella drammatica pagina, potrebbe arrivare anche dal cinema.” Mi è capitato di leggere questo articolo tratta da una rassegna del 3 settembre scorso sul sito del quotidiano “Il Giornale”.
La ricostruzione del regista Martinelli può avere talmente tanta importanza da dover essere acquisita dai magistrati? In sostanza il regista ritiene che le BR siano state uno strumento eterodiretto che ha accettato di svolgere una parte del lavoro sporco per conto di altri che hanno realmente manipolato l’intera operazione. Non è una logica a cui ho mai creduto men che meno se debbo rifarmi agli elementi portati nel filmato.
Infatti:
1) non è vero che non ci sia stato alcun tamponamento tra la 128CD brigatista e la FIAT 130 di Moro. A parte gli evidenti segni che sono presenti sulla macchina di Moro quando l’allora trasmissione Mixer l’andò a recuperare dove era custodita, ci sono i testimoni che parlano di un rumore di urto tra lamiere prima dell’inizio degli spari 2) la persona sul lato destro della strada che avrebbe sparato con una pistola su Leonardi colpendolo sulla spalla destra (quindi alle spalle) è una fantasia in quanto gli unici colpi di pistola sono repertabili in prossimità dei due autisti 3) l’arma del fantomatico super killer (ne dimostro l’inesistenza in questo articolo su AgoraVox) non avrebbe sparato dal punto in cui lo colloca Martinelli ma da tutt’altra parte 4) non c’è nessun riferimento a quello che io ritengo essere il vero problema di via Fani e, cioè, lo sparatore dal cancelletto superiore che spara verso Jozzino con un’arma mai repertata (dalla canna molto usurata che non ne permette con certezza l’individuazione) e che sale a bordo della famosa Honda. A questo proposito ho già scritto questa riflessione
Ho l’impressione che troppe imprecisioni non facciano altro che perseguire la machiavellica strategia del “mischia sempre lo vero con lo falso acciocchè nessuno sappia più quale è lo vero e quale è lo falso”. Facendo il gioco di chi vuol continuare a mischiare le carte allontanando la ricerca verso improbabili piste.
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