Pochi giorni fa è venuto a mancare l’avv. Giannino Guiso. Come ricordano molti giornali fu avvocato difensore di Craxi, Mesina e Pillitteri. Avvocato vicino al PSI, difese diversi politici implicati nella stagione di Mani Pulite. Qualcuno ricorderà la frase “La storia giudicherà chi ha tentato di giudicarlo” che Giannino Guiso pronunciò nel gennaio del 2000 subito dopo la morte dell’assistito ed amico Bettino Craxi.
In questi giorni è stato ricordato anche un altro ruolo importante: quello che fece, come difensore di Curcio e Franceschini da un lato, e come esponente dell’area socialista dall’altro, di avviare un tentativo di trattativa per la liberazione di Aldo Moro coinvolgendo i brigatisti del cosiddetto “nucleo storico” che in quei giorni erano sotto processo a Torino.
Mentre lavoravo all’ultimazione della prima edizione di Vuoto a perdere, riuscii a stabilire un contatto con l’avv. Guiso: me ne interessai perché parlando dell’azione “umanitaria” del PSI il suo ruolo era stato importante e volevo avere il suo parere su ciò che avevo scritto e, soprattutto, se avesse qualcosa da aggiungere.
Nei primi colloqui fu molto cordiale. Mi parlò del tentativo di individuare un terrorista che non si fosse macchiato di reati di sangue e, a seguito di una prima analisi, vennero fuori i nomi di Cesare Maino e Alberto Buonoconto.
Gli spedii la parte del testo che lo vedeva, in qualche modo, coinvolto. Quando lesse queste parole, Guiso andò su tutte le furie:
<<Secondo Franceschini, fu steso un comunicato nel quale i brigatisti storici proponevano di spostare il terreno della trattativa, dalla liberazione di prigionieri politici al miglioramento delle condizioni carcerarie. Fu chiesto all’avvocato Guiso di riferire a Craxi, che se i socialisti avessero appoggiato la proposta, i detenuti avrebbero dichiarato pubblicamente che “la vita di Moro doveva essere salvata”.>>
Mi disse che questa affermazione non stava né in cielo né in terra e che le cose stavano in modo molto diverso. Che altro non ero se non l’ennesimo tentativo di strumentalizzazione della sua vicenda, sulla quale era sempre stato chiaro e trasparente.
Poi gli dissi che forse non ricordava bene il testo che gli avevo mandato in quanto, poche righe prima, specificavo che quella frase non era mia ma del suo ex assistito Alberto Franceschini e che lo aveva scritto in un libro da poco uscito.
Il suo atteggiamento cambiò. Tornò ad essere cordiale e disponibile, mi disse che avrebbe chiarito questa dichiarazione con l’ex terrorista e mi raccontò altre cose.
Ad esempio mi disse che, secondo lui, la sua iniziativa era molto concreta e aveva buone possibilità di essere portata a termine. Solo che qualcuno, probabilmente, si mise di traverso spezzando il dialogo che Guiso aveva pazientemente costruito e stava faticosamente portando a termine.
Pochi giorni prima del 9 maggio, iniziò a riscontrare cambiamenti di atteggiamento nei suoi riguardi: dove prima vi era attenzione e interesse notò diffidenza e lassismo. Tanto che, mi disse, quelli che prima lo definivano “illustre cassazionista” lo etichettavano come un “oscuro avvocato di provincia”. E fu il suo amico Walter Tobagi a metterlo in guardia: “Ti vogliono fermare”.
Lui era davvero convinto di riuscire ad ottenere la liberazione di Moro e contava molto sull’apertura di Fanfani (che aveva preso accordi con il vice presidente del PSI Signorile). Guiso aveva una possibilità in più, a differenza di altri, e sapeva di poterla utilizzare al meglio: le pressioni su Curcio e sugli altri perché facessero una dichiarazione esterna. E si era arrivati ad un passo dall'ottenerla...
E poi mi disse la sua opinione cocnlusiva, e parlo di opinione in quanto non mi è stato possibile confortarla da fatti.
“Le Brigate Rosse - mi disse con tono molto calmo - sono state costrette ad uccidere Aldo Moro”
“Cosa vuole dire?”
“Esattamente quello che ho detto”
“Si – replicai cercando di farlo essere più preciso – ma questa era un’ovvia conseguenza se si considera che dall’altra parte non si volle trattare”
“Non mi ha capito. Loro lo volevano liberare. Sono state costrette dall’esterno…”
Non feci a tempo ad aggiungere nulla che stroncò la comunicazione.
“E non mi faccia aggiungere altro. Ho già subito due attentati per aver detto queste cose e non ho nessuna intenzione di subirne un terzo. Arrivederci.”
Da allora non l’ho sentito più. Avrei potuto richiamarlo, approfondire, magari anche invitarlo ad una presentazione del libro, ma preferii rispettare quella sua decisione di chiudere la conversazione. Perché era evidente che questo era il suo intento, con quella frase conclusiva.
Nei colloqui precedenti, Guiso mi parlò del caso Moro per quello che, secondo lui, era: un sequestro di persona. Perché il 16 marzo c’era stato un omicidio plurimo, il 9 maggio un ulteriore omicidio ma nei 55 giorni la vicenda altro non era che un sequestro di persona. Politico, ovviamente, ma sempre un sequestro. E nei sequestri, si tratta. E trattare non vuol dire dare degli ultimatum unilaterali ma, in qualche modo, dialettizzarsi.
Guiso ha scritto un libro a ridosso della vicenda, “La condanna di Aldo Moro” (1979) che non ha avuto la diffusione che meritava, soprattutto nel tempo. Forse non a caso.
La sostanza delle parole di Guiso, che non credeva ovviamente a eterodirezioni o condizionamenti esterni delle BR, è molto semplice.
Al di la delle iniziative pubbliche (comunicati, articoli, dichiarazioni del governo, ecc.) vi furono azioni istituzionali che portarono ad una trattativa concreta con i brigatisti. Una trattativa fatta di contatti reali e di mediazioni politiche e materiali. Portata avanti in nome e per conto delle Istituzioni. Poi vi furono altre azioni, differenti per protagonisti ed obiettivi che non si sovrapponevano ma neanche ostacolavano la trattativa “ufficiale”. Anzi, in un certo senso, potevano rappresentare un’utile velo protettivo. Azioni autonome, come quella dello stesso Guiso, di Cazora, dei collaboratori di Moro ecc.
Il problema era che, quando sembrava ormai andata in porto, la trattativa fallì, proprio nelle ultimissime ore. L’onorevole Signorile parla di sabotaggio. Qualcuno tradì? Qualcuno osò troppo? Sta di fatto che le BR ormai sicure di aver portato a casa il risultato furono costrette, da un cambiamento esterno delle condizioni sulle quali si era fino a quel momento giocato, ad uccidere il prigioniero.
Forse Guiso aveva capito il meccanismo che aveva portato all’arenarsi la sua trattativa che, ripetiamolo, lui stesso riteneva molto concreta ed in grado di portare alla liberazione di Aldo Moro. Forse aveva addirittura individuato i responsabili del “sabotaggio”. Ma, evidentemente, nulla poté per impotenza o mancanza della “smoking gun”.
Era un grande avvocato, ma troppo piccolo per cambiare la storia.