Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Terzo appuntamento con la rassegna " Riparliamo degli anni '70". Un nome, una garanzia: Giuseppe Ferrara, un sovversivo rompiballe per un potere che non vuol parlare dei suoi problemi (mafia, P2, storia irrisolta, affari loschi) ma preferisce farci credere che il grande dramma italiano siano gli extracomunitari (basta guardarli per essere derubati o stuprati) o il pericolo islamico. Se Ferrara è sempre stato un sovversivo, la cosa ridicola (o tragica) è che lo è stato sia per i governi degli anni '70, sia per quelli degli anni '80-90, sia per quelli odierni, tanto da non far uscire un film come " Guido che sfidò le Brigate Rosse" forse perché, come dice Ferrara, "lo Stato sta dalla parte delle Brigate Rosse". Questo mi suona più strano e quasi quasi mi fa pensare che alla fine "la marca" può anche cambiare ma lo stabilimento di produzione è sempre lo stesso. Scusatemi il paragone markettaro (nel senso di persona di marketing...) Ferrara ci ha fatto vedere l'ultima mezz'ora del film e l'atmosfera in sala è stata toccante. Un anziano spettatore (e per questo più saggio di noi) che è giunto a Brindisi da Matera (wow) non ha trattenuto le lacrime nonostante pensava dopo tanti anni di poter guardare gli avvenimenti con maggiore freddezza. Il dibattito è stato meno lungo del solito, anche perché il film è stato eloquente, ha dato molte risposte e il pubblico ha voluto approfondire le vicende artistiche di un Maestro come Ferrara. Peccato per la defezione all'ultimo momento di Leo Caroli, la sua presenza avrebbe portato un contributo diretto per capire meglio anche come il sindacato ha affrontato in questi anni la vicenda e come si pone di fronte ai nuovi simpatizzanti dei brigatisti di trent'anni fa (definirli eredi mi sembra davvero azzardato). Ferrara ci ha parlato di un suo nuovo lavoro che definisce il "Gomorrino", perché parlerà di camorra. E ne parlerà a modo suo come ha già fatto per la mafia in "Giovanni Falcone" e "Cento giorni a Palermo". Il film ha un solo problema. I finanziamenti. Certo per chi può contare sui contatti giusti, è facile trovare i soldi per realizzare un mediocre film su cose note e stranote (basta leggere i libri e le interviste dei protagonisti che quelle stesse persone che prendono i soldi per fare il film vorrebbero far zittire). Per uno come Ferrara, però, le cose sono diverse perché quando si è contro, si è contro. Io sono pronto a scommettere che i soldi per il suo progetto sulla camorra non li troverà mai. E se li troverà succederà come per il film su Guido Rossa. Dovrà organizzarsi un suo giro di proiezioni, contanto su tanti (per fortuna) amici disposti a veicolare il suo verbo. Anche questo è il nostro strano Paese.
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Mario Sossi è uno dei casi in cui la celebrità arriva certamente più per merito di una disavventura personale che per i suoi trascorsi professionali. Chi tra i meno giovani non ricorda il suo rapimento da parte di un gruppo rivoluzionario denominato Brigate Rosse che ancora in tanti definivano sedicenti? E chi, tra quelli che hanno frequentato le posizioni più estremiste, non ricorda lo slogan “ Sossi fascista sei il primo della lista”? Tutte cose che a distanza di 35 anni dovrebbero far sorridere. E, invece, l’irriducibile Sossi prima dichiara che non ha la minima intenzione di conoscere e stringere la mano al suo carceriere Franceschini, poi si candida con il movimento di Alessandra Mussolini. Ma non si ritiene soddisfatto perché ritiene che la deriva a sinistra del Pdl sia sotto gli occhi di tutti, e che Forza Nuova sia l’unica soluzione per tenere fede ai valori della vera destra. Forza Nuova. Già. Formazione di estrema destra fondata nel 1997 da Roberto Fiore, personaggio che negli stessi anni in cui Franceschini rapiva e “processava” Sossi da sinistra, era tra i fondatori di Terza Posizione che agiva in opposizione (da destra) al MSI, la cui politica era ritenuta reazionaria. Un’organizzazione speculare alle BR che contrastavano da sinistra il PCI in quanto portatore di una politica troppo prudente giudicata riformista. Le notizie sono due. Una nuova ed una vecchia. Quella nuova è che la prima parte dello slogan degli extraparlamentari non doveva essere tanto azzardata e che Sossi a forza di spostarsi a destra rischia di risbucare a sinistra (per la teoria sulla circolarità della politica). Quella vecchia è che di questi tempi in cui in molti passano il tempo a contare le apparizioni in pubblico degli ex brigatisti, deve essere sfuggito il passato del fondatore di un partito che concorrerà alle elezioni europee e che nel 2008 era addirittura candidato alla Presidenza del Consiglio. Trattasi di persona condannata per banda armata in primo grado a 5 anni e in secondo a 3 e mezzo. Che ha trascorso un lungo periodo di latitanza all’estero e che infine non è andato in carcere perché è arrivata la prescrizione. Che dichiara di essere stato “attivo in senso radicale” nella destra e che “c’era anche la spinta romantica di una gioventù alla ricerca di una verità”. In definitiva, secondo Fiore “non si può criminalizzare quel periodo”. Intervista sul Corriere della SeraE, infatti, non sono i periodi ad essere criminalizzati ma, come dice lo stesso termine, i criminali, cioè chi commette dei reati. E la banda armata è un reato. Lo stesso reato che oggi rende complicato ad uno come Renato Curcio persino scrivere un libro. Figuriamoci se volesse presentarsi alle elezioni… Che fine hanno fatto le associazioni delle vittime del terrorismo? E’ questo uno dei modi per ricordarne la memoria ed il sacrificio? Qualcuno mi ha fatto notare che, intanto, andrebbe aggiornato lo slogan: “Sossi fascista, sei il secondo della lista”
Nel gennaio del 2007 andai ad assistere ad una presentazione che Renato Curcio tenne nell’Università di Lecce del suo libro sulle carceri speciali. C’era una folla inaspettata, le TV di mezzo mondo (persino Sky) e fummo testimoni anche di un tentativo di aggressione di un gruppo di contestatori che iniziò ad urlare davanti alla porta dell’aula ove si teneva il dibattito ma fu, fortunatamente, subito allontanato da poliziotti in borghese. In questi giorni Curcio è tornato a Lecce per partecipare ad un’iniziativa di studi in commemorazione di George Lapassade, scomparso la scorsa estate, figura che ha ispirato non poco gli studi dello stesso Curcio e di un gruppo di studiosi di tutta Europa. Non potendo andare a Lecce, ho assistito al pomeriggio di studi tenutosi a Brindisi presso la sede Universitaria all’interno del vecchio ospedale “Di Summa”. Iniziativa destinata agli studenti, ma di studenti ce n’erano pochi. Destinata ai nostalgici, ma non ve n’era traccia. Allora penso: “adesso arriveranno i contestatori!”. Macchè, neanche quelli. Tempi davvero magri Questa volta tutto è filato liscio. O quasi. A protestare per la presenza del fondatore delle BR è stato Saverio Congedo, consigliere regionale del PDL e che ha sottolineato tre aspetti:
- l’Università del Salento invita il fondatore delle BR, mai pentito
- lo fa in prossimità del 9 maggio, ricorrenza dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle BR
- secondo Congedo, resterebbero «un mistero i meriti accademici e le qualità culturali di Renato Curcio, che evidentemente merita tanto onore proprio per le prodezze che lo hanno reso noto alle cronache»
La prima osservazione è stata smentita dal Rettore La Forgia che attribuirebbe l’ideazione e l’organizzazione dell’evento al Prof. Fumarola (interessante il fatto che un prof. potrebbe organizzare in Università un evento al netto dei pareri dei consigli di Facoltà). La seconda osservazione rappresenta già una variante. La prossimità con la data del 9 maggio e la conseguente non opportunità per uno come Curcio di apparire in pubblico. Quindi suggerirei a Curcio di iniziare a pensare di fare un po’ di ferie arretrate e di concentrarle nel periodo 13 marzo-13 maggio onde evitare imbarazzanti sovrapposizioni con i 55 giorni più tragici della Repubblica.
Il prof. Piero Fumarola
Per la terza osservazione, però, direi che Congedo ha mostrato non poca ignoranza (nel senso di ignorare i fatti essenziali per avvalorare la propria dichiarazione). Sospettare che i meriti di studio di Renato Curcio e Nicola Valentino siano un “risarcimento” per le prodezze che li hanno visti protagonisti vuol dire, essenzialmente, due cose: 1) che quello Stato (e io mi chiedo, perché non anche questo) ha foraggiato i crimini delle BR e dopo aver concordato delle pene poco congrue adesso restituisce delle indennità in cambio della fedeltà dei brigatisti 2) far finta di non sapere che Curcio è, sostanzialmente, un laureato in sociologia (ha rifiutato la tesi al contrario della moglie Mara Cagol che dopo la laurea salutò la commissione a pugno chiuso) e che ha compiuto studi commissionati da grosse aziende, che sono diventati libri riconosciuti all’interno delle facoltà universitarie. Chi vuole può riascoltare l’intervento di Curcio e Valentino (la qualità è quella che è perché preso da un MP3 non professionale). Magari confermerà le accuse di Congedo, o magari si ravvederà. Non è un mio problema. Io, da cittadino, osservo e pongo all’attenzione di altri cittadini come sia ancora, e sempre più possibile, utilizzare la storia comune degli anni ’70 (perché non dimentichiamoci che c’era anche una destra fascista e stragista) per strumentalizzare le divisioni di oggi. Un'ultima cosa. Ho approfittato per chiedere a Curcio di raccontarmi l'episodio della sua "richiesta" di pensione. E lui mi ha risposto, lapidariamente: "Assolutamente falsa. Pura invenzione". Beh, a questo punto mi piacerebbe sentire cosa ne pensi il giornalista che l'ha raccolta. Magari potrebbe farci riascoltare la registrazione del suo MP3. Sempre se non l'ha inavvertitamente cancellata o se le batterie non si erano appena esaurite...
Renato Curcio e Nicola Valentino
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Quarto appuntamento con la rassegna " Riparliamo degli anni '70" dedicato al caso Moro. Il pretesto è stato quello di parlare di Vuoto a perdere nell'anniversario della morte dello statista democristiano e della seconda giornata dedicata alle vittime del terrorismo. In realtà è stata l'occasione per ascoltare due punti di vista diversi: quelli di Marco Cazora (figlio dell'On. democristiano Benito) e di Alessandro Forlani (giornalista RAI che per il GRParlamento ha curato molte interviste sia in occasione del 25° che del 30° anniversario della vicenda Moro. Di fronte ad una platea molto attenta, come già è stato per le precedenti occasioni, il collegamento audio con Roma è stato il centro della serata. Cazora ci ha parlato delle informazioni raccolte dal padre ed offerte agli inquirenti e al ministro dell'Interno Cossiga, informazioni precise e inedite che però furono sottovalutate e messe da parte. Non sapremo mai se per superficialità o dolo. Forlani, invece, ci ha fornito un importante quadro cronicistico per approcciarsi alla vicenda e per lavorare sui fatti e sulle ipotesi. Insomma, una serata diversa, nella quale non si è parlato di misteri e di aspetti "tecnici" ma si è cercato di fornire dei punti di vista più complessivi che riguardano le trattative e le difficoltà per la ricerca di quei pezzi di verità cui tutti chiedono ma per i quali in molti non muovono un dito pur potendo... Spero che la scelta di non parlare del libro (se non nei brevi momenti di "caduta della linea per problemi tecnici") e di non allinearsi al coro dei misteri o presunti tali sia stata apprezzata dai presenti e da coloro che ascolteranno il tutto online. Colgo l'occasione per ringraziare molto l'amico Pino De Luca che sta rendendo queste serate più interessanti grazie al suo punto di vista ed alle sue graffianti osservazioni. Non è l'età, caro Pino, che ci rende differenti (come tu dici nel tuo blog) nei punti di vista e nelle "etichette". Credo che la cosa sia molto più complicata e spero di poterne parlare con te molto presto. Se poi in presenza anche di altri nostri amici, ancora meglio. Comunque grazie, e anche se ti definisci rompic*****ni ti assicuro che la tua presenza è quella necessaria dose di additivo per rendere tutto più stimolante.
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Per scaricare il file MP3, qui Per chi volesse approfondire la vicenda politica e professionale di Benito Cazora, può ascoltare la trasmissione Pagine in frequenza di Alessandro Forlani ( qui) del 18 aprile 2008
Quinto appuntamento con la rassegna " Riparliamo degli anni '70" dedicato al bel libro di Gabriele Paradisi "Periodista, di la verdad!". Partendo da un blog nel lontano 2005, Paradisi ha realizzato un lavoro di analisi dell'informazione relativamente alla vicenda di Litvinenko, la cui morte a causa dell'avvelenamento da Polonio, ha rappresentato l'opportunità per i mezzi di informazione per "colpire" i lavori della Commissione d'Inchiesta sull'archivio Mitrokhin e sul suo presidente Paolo Guzzanti. Una serata molto intensa, che dopo un'attenta lettura dei fatti narrati nel testo, si è arricchita con molti interventi del pubblico, alcuni anche molto critici nei confronti dell'autore e della reale esistenza di una campagna "non basata sui fatti" di denigrazione della validità dell'operato della Mitrokhin. Paradisi ha condiviso con i presenti molte riflessioni e tutti noi abbiamo avuto la possibilità di conoscere il metodo che lo ha portato a vedere quelle piccole crepe nell'informazione che, se si ha il coraggio di scrutare da vicino, sono in grado di allargarsi e rivelare veri e propri misfatti accuratamente cammuffati e fatti passare come fatti indiscutibili. Credo che tutti abbiano apprezzato i contenuti profondi e piacevoli se l'incontro è durato oltre due ore e mezza. Purtroppo, l'ultima mezz'ora il mio MP3 ha deciso che lo spazio su disco era terminato. Ma le oltre due ore "on the air" potete "gustarle" come i prodotti brindisini che al termine di queste serate abbiamo avuto il piacere di condividere con i nostri ospiti.
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Questa sera nella trasmissione di Radio24 "Storiacce" condotta da Raffaella Calandra, è stata ospite Licia Pinelli moglie del cittadino che entrato in Questura il 12 dicembre 1969 ne uscì morto il 15 dicembre da una finestra del quarto piano. Non importa come (anche se la signora parla di "picchiato e creduto morto e buttato dalla finestra"). Quello che conta è che un cittadino innocente è entrato vivo in una Questura e ne sia uscito morto. Il 9 maggio il Presidente Napolitano ha celebrato la seconda giornata per le vittime del terrorismo ed ha invitato al Quirinale sia la vedova Calabresi che la vedova Pinelli. Se per Luigi Calabresi (commissario dalla cui stanza "volò" l'anarchico Pinelli) la storia parla di "morte per terrorismo", fino ad ora non si era mai avuto il coraggio di accostare la fine ddi Giuseppe Pinelli alla stessa causa. Con la conseguenza che se anche Pinelli deve essere considerato vittima del terrorismo, allora ad essere terrorista, per la prima volta, è stato riconosciuto lo Stato italiano. Non è cosa da poco e credo che il gesto di Napolitano sia stato dettato dalla volontà di non farsi trovare impreparato alla imminente scoperta della verità su Piazza Fontana. Perchè lui sa, e sanno anche Cossiga, Andreotti, i vertici dei servizi. E allora, forse, è meglio iniziare ad invitare i colpevoli a dire la verità, che i tempi sono maturi. Ma i tempi (come le pere) non maturano per caso. Se un albero si lascia senz'acqua, le pere seccano, ma se le si lasciano troppo tempo sul ramo va a finire che maturano e ti cascano in testa. Qui sotto l'intervista a Licia Pinelli rilasciata a Radio 24.
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Ancora una volta nel giro di pochi giorni, c'è chi se ne va in giro con la bomboletta a spray a tentare di emulare ciò che evidentemente ha avuto modo di leggere sui libri (perché dubito che possa trattarsi di persone che hanno vissuto quegli anni). E l'obiettivo, data la ricorrenza del 17 maggio, è ancora Luigi Calabresi, ucciso proprio il 17 maggio del 1972. Ecco, per la cronaca, i lanci delle principali agenzie nazionali "È il secondo episodio a Milano in tre giorni: dopo la scritta 'Calabresi assassino' comparsa sul muro esterno della chiesa di Santa Francesca Romana vicino a corso Buenos Aires, ieri è stata imbrattata la targa dedicata al commissario Luigi Calabresi, ucciso nel 1972. Sulla lapide di via Cherubini, posta dal comune di Milano nel 2007, è stato disegnato un cerchio con una 'A' al centro. La scritta è stata subito rimossa dagli operatori dell'Amsa. Il vicesindaco e assessore alla Sicurezza Riccardo De Corato ha commentato così l'atto vandalico: » Segnali come questo non devono essere sottovalutati«. (Fonte ANSA)" ''Nella mattinata di ieri e' stata imbrattata la targa sulla lapide di via Cherubini dedicata al commissario Calabresi. Lapide che il Comune di Milano aveva scoperto nel maggio 2007. L'Amsa ha gia' provveduto a ripulire la scritta che recava un cerchio con una 'A' al centro''. Lo comunica Riccardo De Corato, vice sindaco di Milano. ''A distanza di soli due giorni dalla vergognosa scritta apparsa su una chiesa, in piazza Santa Francesca Romana -sottolinea De Corato- questo ennesimo affronto non puo' che inquietare. E' evidente che in certi ambienti e' stato mal digerito l'alto gesto di valore morale di cui si e' reso protagonista il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha promosso uno storico incontro tra la vedova Pinelli e la vedova Calabresi''. In questo modo ''si continuano ad alimentare infamie, falsita' e doppie verita' -conclude De Corato- soffiando sul fuoco su vicende che dal punto di vista giudiziario e storico sono chiuse. Segnali come questo non devono essere sottovalutati: gli anni di piombo non arrivarono dal nulla, ma furono l'approdo di continui messaggi di odio che alla fine sfociarono nella caccia all'uomo con le spranghe''. Fonte ADNKronos" Ora a me poco interessa giudicare la gravità morale del fatto in se. Ma vorrei fare due considerazioni, una politica l'altra storica. Quella politica. Gli anni di piombo, caro De Corato, non furono "l'approdo di continui messaggi di odio". Si vada a leggere la storia. Caso mai sono l'errata valutazione di un gruppo (neanche tanto esiguo) di giovani che lessero nel crescente clima di contestazione che stava alla base della società di allora e che coinvolgeva le lotte per la casa, per i servizi, per i diritti sul lavoro, per i diritti allo studio, al salario, e via dicendo, la possibilità che si potesse avviare un processo rivoluzionario. E, soprattutto, che tale processo poteva essere portato a compimento. Non alimentiamo il clima d'odio già pesante che viviamo di questi tempi, con paradossi come quello che una "A cerchiata" su una lapide potrebbe dare nuovo vigore a forze che spesso esistono solo nella mente chi ha interesse a strumentalizzare degli atti idioti e moralmente deprecabili. Quella storica. Per l'omicidio Calabresi esiste una verità giudiziaria ma non ancora una verità storica. Allora vorrei proporre un gioco (e sottolineo che di gioco si tratta) per "vedere l'effetto che fa". Ipotizziamo che la verità vera sulla fine di Calabresi non sia stata ancora scritta. Che, per esempio, sia Pinelli che Calabresi (le cui vedove il Presidente Napolitano ha recentemente invitato al Quirinale come vittime del terrorismo) siano vittime di Stato, che siano morte per uno stesso motivo e che chi ha deciso la morte del primo sia stato, di fatto, il mandante dell'omicidio del secondo. Una provocazione, la mia. Ma riflettiamo sull'importanza di una verità diversa e sconvolgente rispetto a quella, più comoda e rassicurante, che conosciamo. Ragioneremmo ancora così? Avremmo ancora degli idioti che a distanza di 37 anni imbrattano delle lapidi? O dei giovani (e vecchi nostalgici) che progettano attentati contro giuslavoristi? Dovremmo ancora invocare il pericolo terrorismo dietro ogni piccolo atto che oltre il teppismo è difficile catalogare? Di certo vivremmo meglio. E allora non fermiamoci. Andiamo avanti e cerchiamole (e chiediamole) quelle verità di Stato che tutti sappiamo ma che nessuno ha le prove per smascherare. E parliamone, parliamone, e parliamone ancora. Tutto sta a scoprirla la verità, non a scegliersela.
Il 20 maggio 1999 ebbi una giornata molto travagliata e fui “fuori servizio” per 24 ore. La mattina seguente la radiosveglia, sintonizzata sul GR1 delle 7.00, mi riportò nel mondo con la notizia dell’uccisione di Massimo D’Antona, per mano delle BR. Dopo aver escluso un viaggio nella DeLorean di Marty McFly e Doc Brown e il fatto che si potesse trattare di materiale di archivio, dire che rimasi esterrefatto è voler minimizzare lo stato d’animo che mi accompagnò per tutta la giornata. Fino all’arresto della Lioce (la morte del suo compagno Galesi e dell’agente Petri) e con un altro omicidio di mezzo, quello del consulente Marco Biagi (collega di D’Antona), si è stati tutti assaliti dallo stesso interrogativo: “Chi sono questi e chi c’è dietro?”. Solo la Commissione Stragi aveva colto nel segno scovando un fil rouge con l’ultima fase di attività brigatista prima della “ritirata strategica”. Il cosiddetto filone fiorentino. Poi gli altri arresti (Mezzasalma, Morandi, Saraceni, Banelli, Broccatelli, ecc.), i processi e le condanne, il pentimento della Banelli. Poi una nuova ondata di arresti nel febbraio del 2007 (ben 15 tra cui i cinquantenni Davanzo,Latino e Ghiradi ma anche giovani ventenni come Mazzamauro e Salotto) con i quali sarebbero state sventate possibili nuove azioni militari. Le recenti polemiche dovute alle mancate estradizioni di Marina Petrella e Cesare Battisti da parte del Governo francese e quello brasiliano hanno contribuito ad arroventare il clima sociale già fin troppo acceso. Gli ultimi fatti delle proteste studentesche di Roma (l’Onda) contro il decreto Gelmini e i conseguenti scontri con gli studenti di destra di Blocco Studentesco, ed il disordine seguito al tentativo di forzare i blocchi della polizia a Torino in occasione del G8 University Summit hanno definitivamente allontanato ogni possibilità di dialogo perché, in un clima da strategia della tensione, cercare di comprendere anni passati o conflitti presenti comporta l’essere etichettati come “pericolosi sovversivi”. E, sempre di questi giorni, l’imbrattamento della lapide dedicata alla memoria del Commissario Luigi Calabresi con la scritta “Calabresi assassino” probabilmente per opera di chi nel 1972 non era ancora nato o aveva da poco tolto il pannolino. Arresti e disordini di piazza possono essere il segno che il rischio di un ritorno del terrorismo, ma più precisamente della lotta armata, sia ancora elevato nel nostro Paese? Ecco alcune recenti dichiarazioni in merito: Roberto Maroni «C'è chi parla del terrorismo e della violenza degli anni '70 come di una stagione chiusa, ma ci sono segnali inquietanti da indagini nelle scorse settimane, che indicano che non possiamo stare così tranquilli, segnali che ci fanno considerare che l'attenzione nei confronti di questo fenomeno non può essere abbassata. Abbiamo altri appuntamenti significativi come il G8 dell'Aquila e ci attrezziamo per affrontarli, ma temo che episodi di violenza come quello di oggi a Torino potranno ripetersi». (19 maggio ANSA) Massimo D’Alema «O il ministro degli Interni ha degli elementi, e quindi deve informare il Parlamento, oppure dovrebbe usare una maggiore cautela» (19 maggio ADNKronos) Valter Veltroni «C'è un clima d'odio che rischia di degenerare, nella società italiana si sta facendo di nuovo strada una certa deriva giustificazionista della violenza. Sono cose che non possono essere tollerate. «Non consideriamo mai concluso una volta per sempre il rischio del terrorismo, non dobbiamo sottovalutare che quando emerge una crisi sociale c'è il rischio della violenza» (19 maggio ADNKronos) Olga D’Antona «Non si può abbassare la guardia in questo Paese dove il terrorismo sembra entrare in immersione ma poi come un fenomeno carsico riemerge. Non si può solo seguire l’emergenza ma ci vuole un’azione di prevenzione» Paolo Ferrero «Grazie a Dio oggi mi pare il terrorismo in Italia non ci sia, e questo è assolutamente un bene. Non bisogna mettere insieme le contestazioni anche quelle dure che non condivido per nulla, e il terrorismo. Sono due cose diverse e penso che sia sano tenerle distinte» (20 maggio ANSA) Armando Spataro «Io penso che sia allarmismo, devo essere sincero ed onesto. E’ ovvio che non si può minimamente abbassare la guardia e anche questo tipo di antagonismo che teorizza la violenza vada tenuto sotto controllo. Ogni democrazia avanzata deve fare i conti, quasi fisiologicamente, con manifestazioni di violenza di questo tipo. Ma attenzione a lanciare allarmi che gli addetti ai lavori sanno tenere nella giusta dimensione ma che potrebbero essere non solo infondati ma favorire fughe verso la rinuncia dei propri diritti pur di sentirsi garantiti sul piano della sicurezza. E’ una vecchia storia». (19 maggio TG2 Punto di Vista) Ora io non sono un esperto e non sono nemmeno un addetto ai lavori. Ma il gioco cui stiamo assistendo, non mi piace per niente. Il fatto di sapere che un giorno siamo sotto la minaccia del ritorno degli anni di piombo e l’altro potrebbero esserci i presupposti per una riappacificazione con il passato mi sembra tanto il gioco delle tre carte dove, magari, per pura combinazione una volta ti può anche capitare di vincere ma alla fine è sempre lo Stato che sbanca. Ho detto Stato? Scusate, volevo dire il banco…
Lorenzo Conti, figlio dell’ex Sindaco di Firenze Lando Conti ucciso dalle BR nel 1986, in una lettera a Napolitano (nella quale ha espresso forti critiche nella gestione della II giornata per le vittime del terrorismo) ha riproposto un ritornello che da tanti anni si sente in Italia: chiudiamo gli anni di piombo facendo emergere la verità ma rinunciando a condannare i colpevoli dei crimini confessati. Se non fosse perché trattasi apertamente di un'ipotesi irrealizzabile, sarebbe un’affermazione da standing ovation. Perché il concetto "verità in cambio di impunità" è una pura illusione? Procediamo con ordine. Si porta sempre l’esempio del Sudafrica e del modo voluto da Nelson Mandela come strumento strategico per la riconciliazione nazionale dopo l'apartheid. In Sudafrica, però, ci si dimentica che la parola riconciliazione non fu affidata alla giustizia ma ad una Commissione (la Truth and Reconciliation Commission) che per le stesse parole del suo Presidente Desmond Tutu «fu istituita come meccanismo per gestire le ingiustizie del passato; perché altrimenti quelle stesse ingiustizie avrebbero continuato ad affliggere il nuovo governo e a minacciare le fragili strutture della nuova democrazia del Sudafrica» e come precisò ancor meglio lo stesso Mandela «nonaveva l’obiettivo della giustizia ma della verità: la verità dei fatti, la verità imbavagliata e incatenata nelle camere di tortura e nei luoghi occulti dove operavano gli aguzzini dell’apartheid» Altra peculiarità della soluzione sudafricana fu che per ottenere l'amnistia da condanne per la violazione dei diritti umani non era necessario il pentimento né il rimorso, né tantomeno il perdono che, a volte, veniva accordato dalle stesse vittime o dai loro parenti. Veniva richiesta invece l'ammissione dettagliata, completa e pubblica dei propri crimini. Era questa l’auto-punizione esemplare, un’esperienza traumatica che rappresentava, contemporaneamente, anche il superamento dei propri atti. Come sono andate le cose in Italia? La giustizia ha processato oltre 6.000 persone infliggendo valanghe di ergastoli ed anni di carcere, ha istituito le carceri speciali all’interno delle quali le violenze sono continuate, spesso, a parti invertite. Quando coloro che avevano impugnato le armi, hanno capito che l’esperienza era finita e che occorreva ammettere la propria sconfitta e lavorare insieme per la chiusura di quegli anni come frutto di un’esperienza collettiva, la politica ha completato il lavoro iniziato dai magistrati negando fino alla nausea l’esistenza di un conflitto sociale e sottolineando come tutti i crimini commessi fossero solo il frutto dell’opera di pochi delinquenti isolati dal resto della società. L’unica variante era sul tentativo di attribuire oltre confine la direzione e la guida di questi “manovali della rivoluzione” (naturalmente a carico di una delle due grandi potenze a seconda della parte dalla quale si stava). Per quanto riguarda la verità, ci sarebbe da scrivere un trattato enciclopedico ad iniziare dal porsi alcune domande fondamentali. 1) Chi dovrebbe dire la prima verità? 2) Si dovrebbe parlare dei propri crimini o sarebbe preferibile si potesse chiamare in causa anche terze persone? 3) Nel caso dovrebbe trattarsi esclusivamente di gente viva (in modo che siano possibili delle repliche)? Problemi non da poco. Proviamo a discuterne. Il primo punto. Che ne dite se a parlare per primo sia chi, fino ad ora, ha detto di meno o ha sempre negato tutto? Non sarebbe un cattivo punto di partenza. Dalla parte degli ex terroristi in molti hanno scelto la strada della dissociazione o del pentimento e, Peci a parte ma per i motivi che tutti conosciamo, nessuno ha avuto in premio l’impunità. Mai sono stati tirati in ballo personaggi esterni alle organizzazioni, persone della società che pur non avendo aderito alle scelte militari potrebbero averne condizionato o favorito alcune azioni. Cosa potrebbe emergere da queste ammissioni? Mah, padroni di casa, suggeritori culturali, prestanome. Sinceramente non credo aiuterebbe più di tanto la riconciliazione sapere se il direttore di una testata giornalistica abbia ospitato incontri tra brigatisti e altri personaggi più o meno ai margini della lotta armata. Anzi, la loro impunità servirebbe quasi certamente ad accentuare le divisioni politiche odierne fondate sul rassicurante alibi delle guerre del passato. C’è qualcun altro che non ha mai parlato? A pensarci bene, direi proprio di si. Le recenti acquisizioni di documenti e l’inchiesta che Stefania Limiti ha ben rappresentato nel suo “L’Anello della Repubblica” dimostrano che in Italia sono sempre esistite delle strutture illegali e clandestine alle dipendenze di pochi personaggi politici (adesso si capisce anche perché per 40 anni al governo ci siano state sempre le stesse persone) che hanno avuto ruoli importanti in vicende chiave della nostra democrazia. E se nel caso Cirillo l’aver mediato segretamente con Giovanni Senzani e la Nuova Camorra di Raffaele Cutolo e l’aver sborsato oltre un miliardo di lire ha portato alla liberazione del politico democristiano, nei casi di Moro e Kappler le cose sono andate diversamente. Intendiamoci. E’ lecito che uno Stato si doti di strutture segrete, se queste devono utilizzare la segretezza per garantire, attraverso dei sacrifici, il bene di tutti. Ma se queste sono alle dipendenze d una ristretta cerchia politica e non possono essere al servizio della magistratura perché inesistenti, ed aggiungiamoci anche che si dovrebbero occupare di affari sporchi come incidenti e omicidi, allora io le chiamerei sovversive. Io credo che lo Stato non ci abbia detto ancora nulla. E anche se i problemi siano potuti provenire da singoli disegni criminosi operati da strutture dell’intelligence o di forze armate convenzionali e non, dubito che i vertici della politica non ne siano venuti a conoscenza e, di conseguenza, non abbiano autorizzato certe strategie. Magari correggendole e assicurando protezioni. Caro Conti, come si sentirebbero le famiglie delle vittime di piazza della Loggia o di piazza Fontana se qualche funzionario di Stato accogliesse il suo invito e dicesse una verità imbarazzante? Sareste pronti a sobbarcarvi anche questo peso? E a che servirebbe? Ad accendere ancora di più il conflitto? No, caro Conti. Non ce la possiamo permettere la verità in questo Paese. Non farebbe comodo a nessuno. E’ il “punto di equilibrio di Nash” della nostra storia recente, che permette a tutti di ricavare il massimo dall’assurda situazione nella quale ci ritroviamo. Spesso sento la gente chiedersi se i terroristi hanno vinto. Credo abbiano vinto tutti, credo sia stata trovata la strada per far pagare il meno possibile a tutti quando alla fine il più forte ha prevalso. Anche se non credo alla verità come gesto di auto-accusa, le posso assicurare che sono invece fiducioso che qualcuno sarà capace di sbrogliare alcune importanti matasse. Non un punto di arrivo, ma un bel punto partenza. Tanto per cominciare. Che ne dice di riaggiornarci al prossimo weekend? Sono con degli amici intorno ad un tavolo ed un simpatico spiritello mi ha appena rivelato il nome di una piazza, un anno ed una data di fine maggio. Non so voi, ma io mi segno l’appuntamento, senò rischio di prendere altri impegni.
Nel bel libro inchiesta di Stefania Limiti “L’Anello della Repubblica” (Chiarelettere) si fa riferimento alla richiesta da parte de L’Anello alla Nuova Camorra di Raffaele Cutolo (latitante durante il caso Moro) di fornire informazioni per individuare il luogo di prigionia dove le BR tenevano il Presidente DC Aldo Moro. Nell’inchiesta della Limiti emerge chiaramente che, attraverso Cutolo, L’Anello individuò la prigione di Moro in via Gradoli e che pur essendo in grado di liberare il Presidente DC, la struttura fu fermata da “importanti politici nazionali”. Tra le tante circostanze che sembrerebbero collocare la scoperta della prigione di Moro in via Gradoli, la Limiti porta la testimonianza della signora Franci una delle inquiline del 96/B (palazzina accanto a quella dove fu scoperto il covo brigatista il 18 aprile ’78) che notò dei gruppi di 7-8 persone che stazionavano davanti all’ingresso del cancello di accesso alle due palazzine del civico 96 ed avevano tutta l’aria di fare da pali (per maggiori dettagli rimando alle pagine 198-199 del testo). Il tutto poi si interruppe quando la notte tra il 4 ed il 5 aprile la signora sentì un gran traffico di persone che salivano e scendevano dalla scala A andando verso i garage trasportando cose pesanti. Il tutto durò circa tre ore e la signora, impaurita, restò pietrificata nel suo letto non avendo il coraggio di affacciarsi per vedere cosa stesse accadendo. Ci sono altre due testimonianze raccolte dal Reparto Operativo dei Carabinieri che parlano di queste persone viste nei pressi dell’ingresso dello stabile in questione e che sembravano controllare il traffico in transito verso il palazzo, l’ingresso di via Gradoli o la scala in ferro che scendeva verso i garage. La signora Sanciu ha riconosciuto tra i personaggi impegnati in queste attività i tre brigatisti Teodoro Spadaccini, Antonio Marini e Giovanni Lugnini arrestati nell’ambito della scoperta della tipografia di via Foa e riconosciuti in quanto il quotidiano “Il Tempo” ne aveva pubblicato le fotografie. La Sanciu ha anche precisato che essi stazionarono in via Gradoli dalla fine di marzo sino all’11-12 aprile. Elias Chamoun, invece, non solo riconobbe sia Spadaccini che Lugnini ma si disse certo di aver visto più volte il primo a bordo di un’Alfa Romeo scura che transitava più volte da via Gradoli. Disse anche di aver visto più volte Lugnini in via Gradoli e riteneva che abitasse in quella strada proprio al civico 96 da almeno un anno, tanto che era solito legare un motorino “Ciao” ad un’anta del cancello d’ingresso. Agli inizi del mese di aprile l’amministratore ebbe a lamentarsi con il Lugnini di questa sua abitudine (Chamoun assistette alla scena da poco lontano) e a seguito di ciò non ebbe più modo di notare né la moto né la persona. Due testimonianze chiave che si aggiungono a quelle ritrovate dalla Limiti e che ci raccontano di una strana attività di sorveglianza di cui godeva quel caseggiato al civico 96 di via Gradoli. E’ un’attività insolita per le BR questa sorveglianza esterna. Stavano li per solo per proteggere una base strategica o perché accanto a quella base c’era un tesoro più importante da preservare? Un’osservazione, a scanso di equivoci. Ovvio che a quel gruppetto non potesse essere affidata un’attività di difesa militare in caso di blitz e quindi il loro compito non doveva essere quello di protezione fisica ma di tutela logistico-informativa di un sito e, soprattutto, delle persone cui a questi luoghi avevano accesso. Una specie di " service h24" che poteva garantire la comunicazione ed il contatto continuo tra parti interne e/o esterne che, in quel periodo, avevano grande necessità di interagire…
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