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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Sentir tornare agli "onori" della cronaca l'indirizzo via Gradoli 96 (a Roma nella zona della Cassia) fa un certo effetto. Ancor di più se il motivo per cui tale indirizzo ritorna sulle pagine di cronaca dei quotidiani è legato ad una vicenda che ha forti risvolti politici. >leggi articolo ANSA<

Come molti lettori sapranno, nei giorni scorsi è venuta alla luce una vicenda privata che ha per protagonista il giornalista Piero Marrazzo (presidente della Regione Lazio) che era stata utilizzata da quattro carabinieri come strumento di ricatto nei confronti dello stesso Marrazzo. I quattro militari sono stati arrestati e Marrazzo, dopo che è stato reso disponibile il video che lo ritraeva in un incontro intimo con un transessuale proprio al primo piano dello stabile che nel '78 ospitava un importante covo delle BR, si è dimesso.

Tralascio le considerazioni di carattere personale legate a questa "strana" vicenda. Mi piace però osservare che il palazzo in questione viene definito "l'alveare" dai suoi abitanti in quanto ospita molti appartamenti di trans quasi tutte brasiliane. Due di loro (Daniela e Sonia) hanno raccontato ai cronisti che di "politici e attori ne abbiamo visti e conosciuti tanti. Di vip qui ne vediamo tanti: professionisti, attori e politici sia di destra che di sinistra".


Via Gradoli 96 - L'appartamento al secondo piano con le luci illuminate
ospitava il covo brigatista scoperto il 18 aprile 1978, in pieno sequestro Moro

Quella strada e quelle palazzine, che furono oggetto di un'approfondita inchiesta del giornalista Gianpaolo Pelizzaro che scoprì il legame tra molti appartamenti e società di copertura del SISDE, sembrano oggi essere ancora una sorta di "zona franca" nella quale politici e vip si rifugiano (probabilmente al riparo, grazie a delle coperture, da occhi indiscreti) per i loro momenti privati.

Beh, sarebbe interessante se chi ha gli strumenti riuscisse a verificare i vari passaggi di proprietà dei singoli appartamenti e del quando e perchè quello stabile è diventato un piccolo "centro benessere" per personaggi facoltosi. Per essere destinato a certi ambienti, non si capirebbe come mai si siano scelti appartamenti di circa 40 mq nei quali arrivavano a vivere anche 10 trans. Credo che non sarebbe stato difficile trovare disponibilità in zone in grado di garantire tutt'altra accoglienza.

Ai tempi del sequestro Moro, molti testimoni raccontarono di persone sospette che entravano e uscivano in continuazione dallo stabile, altri che sembravano prestare servizio di guardia. Alcuni testimoni riconobbero addirittura dei brigatisti (>vedi articolo sul Blog<)

A qualcuno tra i residenti di più vecchia data andrebbe di raccontare qualcosa?
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Ho letto con molta attenzione il racconto che Francesco Fonti ha fatto al giornalista Riccardo Bocca. Nelle parole di Fonti riemergono molti nomi di un passato DC ancora vicino. Forse, però, all’ascolto di uno di quei nomi la maggior parte dei lettori si sarà detto “Cazora chi?”.
Penso sia opportuno raccontare il seguito, ciò che Fonti non poteva neanche immaginare.

Dunque. Questa volta a parlare è un pentito della 'ndrangheta, che non sarà probabilmente persona degna di stima ma sicuramente custode di segreti a noi del tutto sconosciuti fino a poco tempo fa. Sia nel caso delle navi, sia nel caso Moro sembra parlare con grande conoscenza e cognizione di causa. Io non posso essere certo sulla sua attendibilità ma visto che lo è stato, e con grande dovizia di particolari che poi hanno trovato riscontro, per quanto raccontato riguardo le navi dei veleni non posso negare che una certa tendenza a prenderlo sul serio forse non sia del tutto sconsiderata.

Attraverso i suoi racconti – a pochi forse interesserà, ma dal punto di vista politico ha grande rilevanza – Fonti riesce perfino a riabilitare la figura di Benigno Zaccagnini che dopo la morte di Aldo Moro si immolò a caprio espiatorio per tutta la D.C., visto che in qualità di Segretario del partito fu considerato il massimo responsabile per le sue mancanze e per la sua debolezza. Zaccagnini rimane comunque il primo e l'ultimo ad essere morto a seguito del rimorso che si portava dentro e che lo ha accompagnato gli ultimi anni della sua vita. Altri più longevi di lui, ancora vivi e vegeti; complice una stampa cialtrona, si lasciano andare quotidianamente ad interviste o dichiarazioni senza provare la benchè minima vergogna.

Per l'ennesima volta sento raccontare di mio padre, questa volta in modo quasi mirabolante, come chi voleva davvero salvare la vita di Moro era Benito Cazora. Peccato solo che a dirlo sia un pentito e non degli atti giudiziari…

Già, perchè come gli appassionati sanno, mio padre Benito non solo raccontava durante il rapimento Moro quanto facesse minuto per minuto, ma pur essendo stato ascoltato nel corso degli anni successivi da diversi magistrati essi hanno sempre ritenuto che non andasse preso in grande considerazione tanto da non essere mai citato come testimone in nessuno dei processi Moro. In seguito ci sono state diverse Commissioni Parlamentari, ma anche lì nulla. In fin dei conti perchè andare a svegliare il can che dorme? E' stato più semplice attendere la sua morte avvenuta nel 1999 a 65 anni.

É giunta l'ora però di raccontare una volta per tutte cosa è accaduto da quel lontano 1978 sino alla sua morte.

Benito Cazora era un politico in grande ascesa ma dopo essersi indebitamente occupato della salvezza di Aldo Moro ha dapprima ricevuto minacce di morte, seguite da continui pedinamenti ed appostamenti da parte delle Brigate Rosse. Ma a tutto non diede particolare peso in quanto “aveva fatto il callo” quando, in qualità di assessore al Comune di Roma, gli fu rubata l'auto e poi fatta rinvenire incendiata. E per ribadire la minaccia, nell’auto fu fatta rinvenire una lettera anonima che recitava “la prossima volta con te dentro”.

Cosa accomuna due fatti così diversi e lontani nel tempo? Che in entrambe le occasioni fu costretto a girare armato poiché nessuno pensò bene di fornirgli una scorta e naturalmente mio padre mai la chiese.

Torniamo alla politica e a quell'uomo in forte ascesa che nel 1979 è convinto di essere riconfermato alla Camera con molti più voti della volta precedente: ed invece si ritrova primo dei non eletti (al termine dei conteggi post-elettorali). Ma al momento della ratifica in Parlamento finisce addirittura al secondo posto (sempre tra i non eletti).
Fino a qui tutto apparentemente normale, si può sbagliare valutazione, l'elettorato può giocare brutti scherzi soprattutto quando ci sono da assegnare le preferenze. Ma per me che sono maligno qualcosa non quadra, il numero di lista di mio padre era il 17 e nei seggi succede di tutto: ci si accorda, questo a te l'altro a me. Se quel 17 lo leggiamo al momento dello spoglio come il numero 1 e il numero 7 tutto sarà diverso ed i voti di Cazora andranno rispettivamente ad Andreotti ed al suo braccio destro Evangelisti.

“Ce lo siamo tolto dalle scatole” avranno pensato coloro i quali non avevano di certo gradito quell'invasione di campo nel caso Moro, ma così non fu perchè Benito Cazora era testardo, tenace, appassionato.
Nel 1981 ricomincia da capo e si ripresenta al Comune e, puntualmente, verrà rieletto. Ma lì Cazora può anche restare, non da fastidio a nessuno. Quello che però torna da infastidire fu la sua rielezione nel 1983 alla Camera, del tutto inattesa per la classe politica.
Ricordiamo che dal dopoguerra in poi in ogni legislatura i ricorsi per le verifiche dei voti di preferenza sono stati una consuetudine, mai presa seriamente in considerazione dalla Giunta delle Elezioni che è l'organo preposto per le verifiche. Perchè ciò avveniva? Per accordi trasversali che volevano lasciar così le cose e non creare malumori di nessun tipo.

Nel 1983 accadde qualcosa di nuovo, di inedito, che in pochissimi ricorderanno.
Sulla base di ricorsi di alcuni esclusi, si comincia il riconteggio delle schede per il collegio del Lazio. Senza entrare in particolari di carattere tecnico la Giunta decide per la decadenza di Cazora dopo 2 anni dal suo insediamento, durante il quale era stato anche relatore di più leggi votate dal Parlamento. Da allora ad oggi non si è più verificato nulla di simile e così Cazora resterà nella storia d’Italia come l'unico parlamentare rimosso dalla sua carica.
Con tre piccole postille di cui valutare l'importanza e che sanno tanto di “accanimento”:
1. non era stato ritenuto ineleggibile come altri (rimasti) dalla magistratura,
2. il riconteggio delle schede fu solo parziale per cui non sapremo mai se i suoi voti fossero veramente minori rispetto ai ricorrenti
3. la Giunta ha agito andando oltre i tempi previsti dalla legge.

Nel corso del suo mandato parlamentare Benito Cazora fu relatore di un provvedimento che prevedeva il risanamento dei conti RAI allora in deficit per oltre 100 miliardi di lire, ma la sua spontaneità lo portò a commettere un imperdonabile errore: di fronte al consiglio di amministrazione RAI si “permise” di far presente che lo Stato non può ogni anno risanare i loro conti con cifre così alte e si spinse a suggerisce una più oculata gestione del bilancio. Questo mandò su tutte le furie Biagio Agnes, allora direttore generale che minacciò di fargliela pagare dicendo tutto a De Mita. Promessa che Agnes puntualmente mantenne.
 


Ciricaco De Mita e Biagio Agnes

Terminata suo malgrado l'esperienza parlamentare tornò al suo lavoro di dirigente d'azienda ma anche lì qualcosa non funzionò e dopo qualche tempo Agnes lasciòa la RAI per diventare Presidente dell' azienda presso cui mio padre lavorava…
Subito dopo, all'improvviso, sempre mio padre venne recluso nella sua stanza si vide revocato ogni incarico arrivando al paradosso di essere pagato per non far nulla! Dopo alcuni mesi di tortura psicologica fu costretto ad accettare il prepensionamento.

Da allora non narro quante volte mi sia imbattuto in singolari situazioni che tuttora proseguono. A 47 anni mi ritrovo senza lavoro e senza un soldo poiché forse mio padre è stato l'unico politico “ingenuo” che non ha lasciato nulla alla famiglia, neanche una sistemazione per i figli. Sfido chiunque a trovare figli di parlamentari nelle stesse condizioni. Una volta un lavoro l'avevo ma il cognome non era quello giusto e così fui licenziato, vinsi la causa ma non servì a nulla perché non fui riassunto.

Questo lungo racconto ha lo scopo di portare ad una riflessione. Tutto questo strano accanimento che dal 1978 in poi ha scientificamente portato alla morte politica di Cazora ed è poi passato senza ritegno anche alla mia persona, può avere un nesso con quanto fatto per il caso Moro?

Non è singolare che un pentito dell' 'ndrangheta (la mafia più vicina ai Servizi) racconti che Cazora fu l'unico a volere la salvezza di Moro? Altri come Signorile hanno tentato qualche iniziativa con fonti più dirette (vedi Pace e Piperno), ma solo Cazora ha dovuto lottare da solo contro tutti fino all'ultimo contro decisioni già prese sfidando “i potenti”. Due giorni prima della morte di Moro ne preannunciò l’uccisione se non si interverrà. Ed aveva ragione.

Francesco Cossiga

Ma il saggio e maggior conoscitore italiano dello stato, Francesco Cossiga, lo invitò a non far nulla perchè egli aveva notizie opposte “fra 2 giorni Moro sarà liberato”. Chi mai toglierà il dubbio che quanto avvenuto e continua ad avvenire non sia un gesto di ritorsione? L'uccisione politica costa meno di quella fisica e non se accorge nessuno. Perchè ad oltre 30 anni da quel fatto ancora si continua con il figlio? A che punto arrivò mio padre per provocare tale reazione?
Perchè non fu mai sentito? Forse qualcuno temeva qualcosa?
Perchè nessuno capisce che forse cercare un nesso tra il 1978 ed oggi aiuterebbe a capire e forse a scoprire molte verità?
Perchè questo comportamento si protrae a me anche dopo 10 anni dalla morte di mio padre? Chi ancora oggi ha il potere e la voglia di far del male?

Ad altri l'ardua sentenza.

Una piccola postilla per raccontare un episodio di costume che la dice tutta su questo Paese. Ieri è morta la Sig.ra Angiolillo per i più ovviamente un cognome sconosciuto. A Roma la Sig.ra era considerata la regina dei salotti d'Italia e Bruno Vespa che col suo Porta a Porta è considerato la terza Camera diceva di considerare il salotto Angiolillo la prima Camera. Li si decidevano le sorti del nostro Paese, quasi fosse una loggia massonica di cui Gianni Letta era il Gran Maestro. Ebbene oggi la Camera ha tenuto un minuto di silenzio per la morte della Sig.ra come la commemorazione di un caduto di guerra. Che strano conclave il nostro Parlamento davvero capace di ogni malefatta, da destra a sinistra.
Che speranze possiamo nutrire noi poveri mortali quando ci troviamo di fronte a soggetti capaci di ogni più impensabile atto?
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Il 22 settembre scorso sul sito dell’Espresso comparivano le dichiarazioni filmate del pentito Francesco Fonti riprese dal giornalista Riccardo Bocca.
>Guarda la video-intervista

Devo dire che una notizia del genere in un altro Paese avrebbe creato il pandemonio, spinto giornali e storici a porre ulteriori domande, indignato i rappresentanti delle Istituzioni che avrebbero potuto intravedere nelle parole di un ex mafioso attacchi diretti e pesanti verso il loro operato volto, a sentire Fonti, ad impedire la liberazione e l’incolumità di uno dei politici più importanti dell’epoca.
E invece nulla, a parte un piccolo richiamo su Repubblica e qualche blog che ha riportato la notizia senza però commentarla con il giusto senso critico.

Premettendo che lungi da me qualsiasi giudizio sull’attendibilità delle parole del pentito, provo a fare alcune riflessioni che potranno essere utili a quanti desiderano capire di più.

Cominciamo dal contesto. Sebbene nelle parole riportate nell’articolo Fonti appaia persona lucida e in possesso di una buona dialettica, ad ascoltare l’intervista (>Guarda il video<) si coglie una non sempre precisa capacità di articolazione del pensiero e, a tratti, una leggera confusione sull’aspetto più importante del tutto ossia il covo brigatista e/o la prigione di Moro.
L’articolo è opera del giornalista, ovviamente, ed il riadattamento di un colloquio in forma scritta è spesso necessario perché un’intervista riportata letteralmente, potrebbe risultare difficilmente fruibile in forma scritta.

Il 21 marzo Fonti si recò a Roma ed incontrò un agente del SISMI che lui conosceva come Pino ma che gli confida di non essere in possesso di nulla. Pino, però, gli offre la possibilità di incontrare direttamente il segretario della DC Benigno Zaccagni. Cosa che avvenne il giorno seguente al Cafè de Paris nella centralissima via Veneto allorchè il politico, imbarazzato per la situazione, chiese a Fonti un aiuto per risolvere la situazione rassicurandolo che la DC avrebbe saputo sdebitarsi.

Il 25 marzo Fonti incontrò un esponente della Banda della Magliana che, secondo il referente romano di cosa nostra Pippo Calò, saprebbe molte cose. Calò, inoltre, informò Fonti che anche cosa nostra era entrata in azione. Il “Cinese” (soprannome del malavitoso della Magliana) dice a Fonti che non è un mistero dove si nascondono Moretti e gli altri. In una strada sulla Cassia nota come via Gradoli. Secondo il “Cinese” però i brigatisti non li vuole trovare nessuno.

Successivamente Fonti viene portato in un negozio il cui proprietario, uno ‘ndranghetista di nome Morabito, gli conferma che di sicuro in via Gradoli qualcosa c’è. Se non la prigione di Moro, almeno un covo delle BR.

Dopo la terza conferma, Fonti ricontatta l’agente Pino facendo finta di non aver scoperto nulla e di necessitare di altro aiuto tanto da spingere Pino ad un nuovo incontro con un carabiniere addetto all’Ambasciata di Beirut sotto il comando del Colonnello Giovannone. Balestra, questo il nome del carabiniere, confessa di non riuscire a fare dei passi avanti a causa delle continue informazioni depistanti che riceve. Ma si dichiara convinto che in via Gradoli 96 ci sarebbe un covo importante delle BR, al momento abbandonato ma attorno al quale i brigatisti bazzichino ancora. Era la fine di marzo. E qui Fonti iniziò a nutrire dei dubbi sulla utilità della sua trasferta in quanto ebbe la netta impressione che dietro la facciata di costernazione dei partiti si nascondeva un qualcosa di inconfessabile.

A questo punto Fonti si imbatte nell’Onorevole Benito Cazora che reputava tra i pochi ad interessarsi veramente ad individuare qualche covo brigatista o la prigione di Moro, tanto da indurlo ad avere incontri con chiunque potesse dargli una mano.
Alla presenza di altri due ‘ndranghetisti, Fonti incontra Cazora in un ristorante. L’Onorevole è angosciato, racconta degli incontri con Varone che lo avevano lasciato un po’ perplesso per la spacconaggine del malavitoso. Lo stesso Fonti non dava alcun peso, all’interno della ‘ndrangheta, a Varone. Fonti informa Cazora che si sta muovendo e i due si lasciano con l’Onorevole che gli augura di avere più fortuna di lui.

Poco dopo il 4 aprile e la lettera di Moro a Zaccagnini, l’agente Pino ricontatta Fonti perché stavolta a chiedere del malavitoso è niente di meno che il numero uno del SISMI Giuseppe Santovito. L’incontro avvenne a Forte Braschi (nell’ufficio di Santovito) e il direttore de SISMI chiese a Fonti se aveva notizie riguardo un appartamento al numero 96 di via Gradoli. Alla conferma di Fonti, Santovito è lapidario: “E’ giunto il momento di liberare il Presidente Moro”
Il 9 o il 10 aprile, Fonti soddisfatto tornò a San Luca da Romeo che dopo aver ascoltato il suo racconto lo gela perché da Roma i politici hanno cambiato idea e quindi loro avrebbero dovuto tirarsi da parte. Fonti è amareggiato, ma non se la sente di buttar via due settimane di lavoro proficuo. E quindi prende una decisione eclatante: disobbedisce al suo boss e telefona alcentralino della Questura di Roma per dire di andare a via Gradoli 96, dove gli agenti avrebbero trovato i carcerieri di Moro.
Siamo al 10 aprile, dunque, molto prima della scoperta del covo e dopo sia alle perquisizioni degli agenti che alla informativa della seduta spiritica.

Ne 1990, Fonti stringe una cordiale amicizia fondata sul rispetto con il capo brigatista Moretti all’interno del carcere di Opera e i due si trovano a frequentare insieme un coso di informatica. Un giorno una guardia consegna a Moretti una busta, che lui apre, ne estrae il contenuto che era un assegno circolare. Senza nascondersi lo gira e lo riconsegna alla guardia guardando Fonti e commentando “Questo, Ciccio, è la busta paga che arriva puntualmente dal Ministero dell’Interno”. Fonti pensò ad una burla, ma qualche tempo dopo un brigadiere gli confidò che quei soldi erano fatti passare per il compenso di un insegnante di informatica e dati a Moretti per garantirne il silenzio.


Vogliamo porci delle domande? Abbiamo solo l'imbarazzo della scelta...

Perché Cazora non ha mai accennato all’incontro con Fonti?
Perché Fonti definisce Cazora l’unico che vuole realmente salvare Moro?
Esistono ancora le tracce degli assegni di Moretti negli archivi amministrativi dello Stato?
Santovito (P2) si disse pronto ad intervenire. Poi venne uno stop. La P2 è lo Stato, non è un organo deviato. Quindi lo Stato prima vuole salvare Moro e poi ritorna sulla sua decisione. Se la P2 era un organismo effettivo dello Stato, a questo punto verrebbe meno la logica secondo la quale la P2 avrebbe svolto un’attività sotterranea, all’ombra dello Stato e al fianco dei brigatisti come mandante e co-esecutore del sequestro.
Fonti, telefonando alla Questura di Roma, avrebbe commesso una disobbedienza agli ordini di una gravità inaudita per un mafioso. E’ credibile?
Perché Fonti ha atteso ben 4 anni (dal 2005) per aggiungere questi particolari sulla vicenda Moro? Si è mosso autonomamente o fa parte di una manovra più ampia?

Agganciandomi a quest’ultima questione, raccolgo e giro a tutti voi la riflessione che un amico molto più addentro di me a queste vicende mi ha posto. Visto che è stato attendibile sulle navi raccontando nello specifico i suoi rapporti col SISMI e conservando come prova i numeri di codice delle macchine, non è inquietante e davvero molto probabile che abbia contattato i servizi anche per tornare sulla vicenda Moro? Giochiamo a carte scoperte per una volta: è proprio così fantasioso ammettere che dietro a tutti i misteri ci sono i Servizi Segreti?

Io credo che sia arrivato il momento, una volta per tutte, che ci confessino il ruolo che hanno giocato, se erano indipendenti o come oggi (vedi caso Pollari Abu Omar) dovevano agire esclusivamente eseguendo ordini altrui…

In questa logica potrebbe trovarsi anche la spiegazione de voler dapprima salvare Moro, poi non più.
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Diciamocelo chiaramente.
La “questione Battisti” è diventata un vero e proprio assillo per il nostro Governo. E non perché garantendo la galera ad un ex terrorista si compirebbe un atto dovuto ai familiari delle vittime degli “anni di piombo”. Ce ne sarebbero di forme alternative di risarcimento sia morale che materiale per chi ha perso un proprio caro senza essersene ancora dato una ragione. E senza essersi dato una ragione neanche per il colpevole abbandono che ha subito da quelle Istituzioni che, spesso, il proprio caro era impegnato a difendere.

No. La “questione Battisti” ha radici principalmente (per non dire quasi esclusivamente) politiche. Una sorta di traguardo, di vittoria da sbandierare all’Europa per dimostrare quanto il nostro Governo sia forte e giusto.

Io una soluzione ce l’avrei. Una soluzione che potrebbe accontentare tutti ma, soprattutto, tiene conto di due aspetti che non possiamo far finta di dimenticare: la verità e l’umanità.
Battisti torni in Italia e, di fronte ad un Tribunale, si dichiari colpevole o innocente.

Nell’ipotesi in cui si dichiarasse colpevole, venga immediatamente arrestato per scontare la sua pena e faccia i nomi di tutti coloro che hanno commesso reati assieme a lui. Ciascuno di essi, però, il giorno dopo l’arresto presenterà richiesta di grazia al Presidente della Repubblica che la firmerà all’istante. Con la liberazione dei colpevoli, però, siano attivate anche forme concrete di risarcimento per i familiari delle vittime che avranno finalmente saputo la verità e potranno iniziare, seppur tardivamente, un percorso di riconciliazione con il proprio dolore.
Qualcuno dirà: “Ma Battisti è stato già processato e condannato!”. E’ vero. Ma è stato condannato grazie a leggi speciali e non ha potuto difendersi. Non sarebbe giusto azzerare il processo e rifarlo a distanza di 30 anni con l’imputato?

Nell’ipotesi in cui si dichiarasse innocente, resti libero in Italia e si apra un nuovo processo. Se al termine di questo sarà condannato, dovrà scontare la propria pena in carcere senza possibilità di grazia (tenendo conto delle leggi di oggi e non delle leggi speciali dell’epoca…). Se, viceversa, avrà ragione lui e ne dovesse uscire innocente dovrà essere lo Stato a risarcirlo materialmente. Moralmente ci dovranno invece pensare tutti quei politici dai facili slogan che hanno minacciato il Brasile di interrompere i rapporti diplomatici o di boicottare le partite di calcio.

Ma vediamoli alcuni dei proclami più recenti (quelli dei mesi scorsi sono troppi per poterli citare).

Pedica (IDV)
«Siamo pronti a nuove e clamorose forme di protesta se tra dieci giorni non ci sarà l'estradizione del terrorista pluriomicida. […] sono pronto a rifare lo sciopero della fame insieme a tutte quelle persone che ancora credono in questo principio che va ben oltre i confini di una nazione».

Un ultimatum in vero stile anni ’70. Clamorose forme di protesta? Mah, non credo che il 20 settembre, dietro al Sen. Pedica ci sarà la fila. Alla mensa della Caritas, purtroppo, ancora si.

Volontè (UDC)
«Il Brasile si macchia ancora di un atto vile e codardo. Per l'ennesima volta beffa la giustizia, umilia la storia del popolo italiano, il ricordo delle vittime, il dolore delle loro famiglie e le richieste del Governo rese a nome di tutte le forze politiche. Invitiamo con decisione l'Esecutivo a sospendere le relazioni diplomatiche con Brasilia».

Il Brasile, caro Volontè, non “beffa” la Giustizia. Cerca di applicare le sue leggi, e lo fa nelle sedi opportune. Il Tribunale Federale Supremo, se lei è un democratico, è un’Istituzione di uno Stato libero e democratico che lei deve rispettare. Inoltre se, come dice, tiene davvero al ricordo delle vittime perché non propone delle iniziative che vadano in direzione di quello che le vittime davvero vogliono, e cioè la verità?

Storace (La Destra)
«Il rinvio della decisione sull'estradizione del terrorista Battisti è un atto di infamia a cui l'Italia deve reagire con durezza. È inaccettabile che per il sangue versato, un delinquente politico non debba pagare con la galera le sue colpe».

Ok, Storace. Reagiamo con durezza. Vuole proporre il bombardamento del Brasile o la sua esclusione dai prossimi mondiali di calcio? Magari la seconda ci tornerebbe più comoda, no?
Le vorrei ricordare, visto che è lei stesso a dire che “un delinquente politico deve pagare con la galera le sue colpe”, che potrebbe davvero darsi da fare per garantire lo stesso principio ad altri tre casi, di cui troppo spesso ci si dimentica.




 





    Alessio Casimirri                   Delfo Zorzi                           Roberto Fiore


Vogliamo ricordare Alessio Casimirri (che nella sola via Fani ha fatto più vittime di tutte quelle attribuite a Battisti)? Oppure Delfo Zorzi, adesso benestante imprenditore giapponese esponente dell’organizzazione neofascista Ordine Nuovo, imputato nel processo per la strage di Brescia e che nel 2002 ha detto a Repubblica che non intende tornare in Italia per farsi processare perché ritiene inaffidabili i giudici (e quindi il nostro sistema giuridico)?
Ma come dimenticarci di Roberto Fiore, fondatore di Forza Nuova che si è candidato alle elezioni europee e che nel 2008 era addirittura candidato alla Presidenza del Consiglio? Storace certmente ricorderà che Fiore è stato condannato per banda armata in primo grado a 5 anni e in secondo a 3 e mezzo. Che ha trascorso un lungo periodo di latitanza all’estero e che infine non è andato in carcere perché è arrivata la prescrizione. Che dichiara di essere stato “attivo in senso radicale” nella destra e che “c’era anche la spinta romantica di una gioventù alla ricerca di una verità”. In definitiva, secondo Fiore “non si può criminalizzare quel periodo”. E quindi adesso “è sceso in campo” per dirci come dovrà essere l’Italia del futuro (ovviamente senza ROM e islamici).

La cosa che più mi fa male è che di fronte a questi casi io non trovo le parole ma le associazioni delle vittime, che forse le parole ce le avrebbero eccome, non le pronunciano. E questa è un’autocondanna che si porteranno dietro per sempre. Dare la colpa del proprio dolore ad una pagliuzza non potendo dire dove sia la trave…
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Ha lavorato tre anni, Stefania Limiti, per confezionare un lavoro di inchiesta che getta una nuova luce su tre vicende chiave della nostra storia contemporanea.
La sua ricerca su l'Anello, infatti, ha portato a conoscenza del grande pubblico due grandi novità:
1) l'esistenza di un servizio segreto clandestino (!) che ha agito al di fuori delle regole democratiche rispondendo ad un numero limitato di potenti della politica
2) alcune vicende chiave degli anni '70 (Kappler, Moro e Cirillo) diventano adesso più "leggibili" perchè acquisiscono un senso logico che prima della conoscenza del "Noto Servizio" non era possibile immaginare.

Le carte che dimostrano l'esistenza del Noto Servizio, si sa, sono state scoperte da Aldo Giannuli nel corso della sua collaborazione con la Procura di Brescia in relazione alla strage di piazza della Loggia (28 maggio 1974).

Ma la scelta di Stefania, giornalista professionale e tenace, è stata di non utilizzare quel materiale per evitare di sconfinare il proprio ruolo di giornalista. Ha deciso di svolgere un lavoro d'inchiesta, attingendo alle fonti pubbliche (libri, articoli, interviste) e contatti personali per  confezionare un lavoro rigoroso ma che non ha la pretesa di "dimostrare" ed "emettere sentenze". Il suo, piuttosto, è un libro denuncia, un libro che ha avuto il coraggio di inoltrarsi nella pericolosa palude delle "doppiezze" dello Stato senza farsi spaventare da pur importanti fantasmi.

Un lavoro che ha trovato anche il successo del pubblico. Non a caso. Perchè è scritto bene, non è retorico o dietrologico, lascia molte porte aperte e fa riflettere molto. Fa riflettere sul fatto che alle nostre spalle tramava un potentato di politici senza scrupoli che, pur di ottenere i propri scopi, non ha esitato nell'avvalersi di personaggi quanto meno ambigui che hanno sempre vissuto nell'ombra.

Per approfondire:
Tutto sul libro - dal sito di ChiareLettere

Presentazione del libro a Roma il 16 giugno 2009
Con Stefania Limiti: Massimo Brutti, Giancarlo De Cataldo, Giuseppe De Liitis. Modera: Sandro Provvisionato.

Intervista a TV RED

Intervista a Radio Missione Francescana


Si parla spesso di “servizi deviati” ma, nel caso dell’Anello, tutto poteva essere tranne che una struttura deviata. Cosa è stato realmente e quale era il suo ruolo?

Effettivamente, l’esistenza dell’Anello, o Noto Servizio, non ha nulla a che fare con i più noti casi di deviazione dei servizi segreti: era una struttura di ‘intelligence’ clandestina, al servizio del potere politico o, meglio, di un pezzo del potere politico dal quale prendeva ordini. Il suo ruolo era proprio quello di assicurare l’esistenza di questo potere, una missione che è perfettamente riuscita.


Perché lo Stato avrebbe dovuto dotarsi di una struttura così “atipica”? Non ce n’erano già in abbondanza da Gladio ai servizi ufficiali?

Una struttura ‘atipica’ era una garanzia di segretezza: tanto che siamo qui a parlarne a distanza di molti anni, dunque l’anonimato dei suoi membri è stato ben mantenuto. Chi poteva chiedere conto a uomini invisibili del proprio operato? Il nome di Adalberto Titta, un signore di 120 chili, ex repubblichino, di provata fede fascista, il factotum dell’Anello, non compariva in nessun elenco ufficiale, chi poteva andare a bussare alla sua porta? I servizi segreti ufficiali sarebbero stati ‘bruciati’ da tante operazioni sporche ed anche una struttura segreta come Gladio aveva una sua ufficialità, visto che è nata sulla base di accordi atlantici, anche se è stata anch’essa coinvolta in compiti operativi diversi da quelli originari - basti pensare al centro ‘Scorpione’ messo in piedi in Sicilia all’inizio degli anni 80.


Otimsky, ufficiale ebreo di origine polacca del quale si conosce solamente il nome in codice, era stato il primo "responsabile" della struttura. Durante la guerra di liberazione, Otimsky incrocia il generale Anders che diventò cittadino onorario di Ancona e Bologna per il suo impegno nella lotta per la cacciata del nazi-fascismo. Il suo collega Guidelli de "Il Resto del carlino" ha notato come Anders insignì Mino Pecorelli (partigiano a soli 16 anni) di un'alta decorazione al valore militare. Puo' essere questa conoscenza la prova che Pecorelli conoscesse l'Anello sin dalla sua fondazione, visto che in alcuni suoi articoli ha fatto riferimento al "Noto servizio"?

Certo, può essere che il generale Anders sia stato il trade-union tra questi personaggi ma questa è una matassa che spero verrà sbrogliata definitivamente in sede storica. Sappiamo bene, tuttavia, ed è quel che conta, che Mino Pecorelli conosceva bene il Noto Servizio e la sua capacità di fare affari tramite il petrolio.

Veniamo al caso Moro. Secondo Pierluigi Ravasio (l’ex gladiatore che ha tirato in ballo il colonnello Guglielmi) l’Anello seppe di via Fani mezz’ora prima tramite “Franco”, nome di copertura di un suo elemento infiltrato nelle BR. Secondo lei la struttura era comunque a conoscenza del progetto brigatista pur non sapendone di preciso le modalità operative?

Ravasio naturalmente non parla dell’Anello e quando si riferisce a ‘Franco’ non lo identifica con un membro di questa struttura: da alcune testimonianze, che riporto nel mio libro, emerge che questa ipotesi non è così lontana dal vero. Del resto, era ampiamente nota e mai spiegata la presenza in via Fani del colonnello Guglielmi che faceva parte di un comitato occulto del Sismi frequentato anche dalla compagnia dell’Anello.


L’Anello si rivolge a Cutolo per ricevere aiuto nella ricerca della prigione di Moro. Attraverso i suoi contatti con la Banda della Magliana, si arriva a via Gradoli proprio nei giorni in cui tale nome emerge nella famosa seduta spiritica di Zappolino. Ma i politici di riferimento dell’Anello, fermano le operazioni perché non sono più interessati alla salvezza di Moro. Quindi la prigione viene individuata ma l’Anello viene stoppato. E da questo punto in poi cosa succede, secondo lei?

Dopo anni di studi da parte di autorevoli storici ed osservatori, il caso Moro è ancora una galassia piena di buchi neri. Io ho solo raccolto materiale per tentare di capire cosa c’entrasse l’Anello con il caso Moro. Se, come appare con forte evidenza, Moro era in via Gradoli e gli uomini dell’Anello erano stati informati di questo, allora è chiaro che lo Stato, almeno i referenti politici del Noto Servizio, hanno evitato una felice soluzione della vicenda e da quel momento sono iniziate oscure trattative che hanno condotto alla inevitabile morte di Moro.


Secondo lei esiste una relazione tra l’informativa su via Gradoli fornita dall’Anello e l’informazione nata a seguito della seduta spiritica successivamente riferita da Romano Prodi a Umberto Cavina il 4 aprile? Sottolineando come, proprio la notte tra il 4 ed il 5 aprile (da quanto riportato nel suo libro) esiste una seria possibilità che Moro sia stato spostato da via Gradoli…

Non ho una risposta certa alla sua domanda, posso solo mettere insieme i fatti i quali ci dicono che l’Anello aveva saputo dove era tenuto prigioniero Aldo Moro, cioè via Gradoli, e che questo nome venne fatto girare con modalità anche curiose, come quelle della seduta spiritica: ma l’ipotesi di via Gradoli fu subito scartata dagli inquirenti. Tanta fretta non è stata sicuramente saggia.


Nel suo libro sono riportati una serie di riferimenti d’epoca tratti dagli articoli di Mino Pecorelli, nei quali si deduceva chiaramente come egli fosse a conoscenza delle informazioni su via Gradoli in possesso dell’Anello. E’ probabile che se sapeva Pecorelli, potessero sapere anche altri personaggi delle “strutture ufficiali”. Nessuno agì perché non fu in grado o perché la coltre che custodiva il segreto, era in grado di non far sfuggire nulla?

Nessuno può credere che la coltre era così fitta e, comunque, mi pare che ormai dopo tanti studi e riflessioni sul caso, penso in particolare all’ultimo lavoro di Peppino De Lutiis, Il Golpe di Via Fani, o al libro di Sandro Provvisionato e Ferdinando Imposimato, Doveva morire, sia consolidata l’idea che fuori dalla sua prigione potenti forze non volevano che Moro tornasse al suo impegno attivo.


Poco tempo dopo l’omicidio Moro, l’Anello intervenne con successo nella mediazione con le BR di Senzani che avevano rapito Ciro Cirillo, mediazione che riuscì e con una contropartita tutt’altro che irrisoria per lo Stato. Nel caso Cirillo il tutto fu fatto agendo su livelli nascosti e le trattative e i contatti intercorsi sarebbero restati segreti. Ma è un dato di fatto che la politica, attraverso i servizi, mediò e riuscì a liberare Cirillo il quale ha recentemente dichiarato che « Moro poteva essere salvato pagando un riscatto in denaro ». Moro, si è detto, rappresentava lo Stato e non semplici interessi di provincia. Fatte salve le ovvie differenze dimensionali con il caso Moro una trattativa segreta si era in grado di farla? O no?

Uno Stato è sempre in grado, se vuole, di condurre una trattativa, segreta o meno. Il caso Cirillo lo dimostra.


Poco dopo la liberazione di Cirillo per la cronaca, il numero uno dell’Anello Adalberto Titta, morì. Può essere che qualche altro personaggio si sia mosso autonomamente per superare lo stop ricevuto ufficialmente dall’Anello e magari sia morto poco dopo per tutelare la struttura e le sue attività?

I sospetti sulla morte di Titta sono riportati nel libro. Per il resto siamo nel campo delle ipotesi.

Quale è stato il momento più difficile di quest’indagine?

Ci sono stati tanti momenti difficili, a dire il vero, soprattutto ogni volta che pensavo che non potevo farcela a mettere insieme tanto materiale. Però, le persone che ho incontrato, anche se non hanno voluto rendere pubblico il loro nome, nella sostanza mi hanno sempre incoraggiata ad andare avanti perché, tra mezzi silenzi e qualche ammissione, mi hanno confermato che quella che stavo percorrendo era la via giusta.


Quali reazioni si aspettava dalla pubblicazione della sua inchiesta e quali aspettative, secondo lei, sono andate maggiormente deluse?

Non mi aspettavo sconcerto, né attivismo da parte della classe politica. Posso dire però che molte persone hanno seguito le presentazioni del libro, con inatteso interesse, con partecipazioni e questo mi pare che sia un segnale importante positivo.


Quale pensa che dovrebbe essere, adesso, il passo successivo? E da chi dovrebbe essere compiuto?

Ognuno dovrebbe seguire la sua responsabilità: ad esempio, il Comitato parlamentare per i servizi segreti, il Copasir, ha chiesto alla procura di Brescia di poter visionare le carte dell’inchiesta sull’Anello. Ecco, intanto spero che qualcosa accada e non finisca tutto in una bolla di sapone, visto che Franco Frattini, quando era presidente di questo organismo, fece una analoga richiesta alla Procura ma tutto svanì nel nulla.


I primi documenti sul “Noto Servizio” sono venuti alla luce grazie ad un consulente della Procura di Brescia, lo storico Aldo Giannuli, che ha anche portato avanti delle indagini e ha fatto delle relazioni per il processo della strage di “piazza della Loggia”. Poi il suo collega Paolo Cucchiarelli ha svolto una sua inchiesta che ha dato luogo agli articoli su “Diario” nel 2003. Per realizzare il suo libro, ha collaborato con Giannuli e Cucchiarelli? Ha utilizzato il loro materiale o si è avvalsa prevalentemente di documenti pubblici?

Lo storico Aldo Giannuli ha avuto l’intelligenza di scoprire le carte: da lì è partito tutto ma la mia inchiesta giornalistica è nata solo quando un signore che aveva fatto parte dell’Anello ha cercato Paolo Cucchiarelli, autore degli unici due articoli esistenti sul Noto Servizio. Paolo mi ha ‘ceduto’ il lavoro, come racconto nel libro. Volevo coinvolgere il professor Giannuli con un’ intervista ad hoc ma, purtroppo, ho dovuto rinunciare all’idea perché ho saputo da una fonte editoriale che stava scrivendo sull’Anello – tanto che, per correttezza, non ho utilizzato la sua relazione alla Procura di Brescia, come chiunque può ben riscontrare, e ciò proprio per rispettare il lavoro dello storico e contare solo sulla mia ‘fatica’ da giornalista. Tra l’altro, un editore ha rifiutato il mio progetto proprio perché contava di poter pubblicare quello di Giannuli, motivo per il quale sono ancora più riconoscente nei confronti di Lorenzo Fazio che ha creduto nel mio lavoro.
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Di Manlio  22/08/2009, in Pensieri liberi (2185 letture)
Ultimi giorni di relax per il popolo vacanziero, in una situazione da "limbo" in cui non sei fisicamente al lavoro ma neppure più con la mente in vacanza (discorso a parte per quelli che, come me, sfruttano le vacanze per sbrigare il lavoro arretrato con maggiore calma e all'ombra delle montagne...).

In questa strana atmosfera, negli ultimi giorni, ho riletto alcuni passi della nuova edizione di "Io l'infame", il racconto biografico della vita dell'ex brigatista Patrizio Peci primo pentito della storia delle BR, sulla cui vicenda, non mi stancherò mai di ripeterlo, non è mai stata fatta piena luce.

Nel libro, Peci racconta del tumore che l'ha colpito qualche anno fa e della sua lotta che l'ha portato alla vittoria contro questo terribile male. E di questo ne sono molto contento.
Sia per l'aspetto umano, perchè quel tipo di malattie portano ad una sofferenza atroce ed alla consapevolezza di trovarsi su una strada sulla quale, dietro ogni curva, può nascondersi un muro di cemento armato sul quale sarà inevitabile disintegrare la propria auto.

Ma anche perchè spero che Peci sopravviva molto a lungo, a sufficienza per raccontarci, quando i tempi saranno maturi e nessuno dovrà avere più nulla da temere, la vera storia di quei due mesi che vanno dal 15 dicembre 1979 (data della riunione della direzione Strategica alla quale partecipò) al 19 febbraio 1980 (data ufficiale del suo arresto).

Ormai nessuno più vuole che la gente finisca in carcere, nessuno si scandalizzerebbe più sapendo che uomini dei servizi (o delle istituzioni che combattevano le organizzazioni di  lotta armata) hanno sfruttato una ghiotta occasione per penetrare i segreti delle Brigate Rosse, conoscerne a fondo i meccanismi per poterli combattere e debellare. E' solo questione di scelte.

Quello che mi preoccupa in questi giorni è che molti (quasi tutti) dei personaggi che sono a conoscenza di quei fatti, non ci sono più (Dalla Chiesa, Pignero, Bonaventura) o non hanno alcuna intenzione di parlare (come il gen. Bozzo che ha fornito una versione dell'arresto di Peci del febbraio '80 radicalmente diversa rispetto a come lo stesso Peci la racconta nel suo libro...).






 


Dalla Chiesa                      Bonaventura               Bozzo                            

E allora mi auguro davvero che la vittoria di Peci sul suo male interno, possa farlo riflettere e dargli l'illuminazione necessaria per essere in pace con la propria coscienza. Almeno per dare un contributo di speranza a tanti familiari di vittime di quegli anni che intravedrebbero un barlume di verità, un piccolo spiraglio per capire meglio tanti episodi poco chiari. Dette a 30 anni di distanza, queste cose, ormai non arrecherebbero più conseguenze a nessuno ma solleverebbero molte coscienze da un dolore aggiuntivo dato dalla sfiducia di poter colmare le troppe lacune che tante ricostruzioni hanno.

Per cui "lunga vita all'infame", perchè se morisse anche lui potremmo dire addio all'ultima possibilità che abbiamo di scrivere la parola fine sulla storia di Patrizio Peci. Perchè le rivelazioni postume, ahime, non hanno il privilegio della smentita.
E ne sa qualcosa Germano Maccari (che proprio di questi giorni 9 anni fa morì in una patria galera): neanche 10 giorni dopo la sua scomparsa, Lanfranco Pace rilasciò un'intervista a "Sette" in cui affermava che lo stesso Maccari gli confessò di essere stato il solo a sparare contro Moro, dopo che Moretti fu colto dal panico e Gallinari da una crisi di pianto. 
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In questi giorni mi è capitato di parlare spesso con altri appassionati di storia degli anni ’70.

Persone che sacrificano il proprio tempo libero e le proprie famiglie per cercare di capire meglio cosa ha attraversato l’Italia nei cosiddetti “anni di piombo”.

E al centro di quegli anni, come tutto a se richiamare, il caso Moro.
Ciascuno la vede a modo suo.
Ciascuno interpreta gli stessi elementi in mille sfumature diverse.
Ciascuno ha l’abilità di riuscire a convincerti che i suoi elementi “reggono” nella propria ricostruzione.

Nelle interminabili discussioni, si salta di palo in frasca, si parte da via Fani per giungere alle aree limitrofe a Roma, per tornare a via Fani e finire al materialismo storico applicato alla classe operaia delle grandi fabbriche degli anni ’70.
Mi sembra di essere una rana, che salto dopo salto, percorre le sponde del lago come un improbabile canguro reatino.

Ma mi sembra anche di essere in una grande caccia al tesoro in cui qualcuno, da un livello superiore, dirige gli indizi e si diverte ad osservare come si allontanano dalla meta i partecipanti, utilizzando la nota legge di Truman “Se non li puoi convincere, confondili”. Ma solo perché il gioco prevede un unico vincitore che, come premio, avrà il privilegio di accedere a tale esclusivo livello.

E per rappresentare questa sensazione non mi è venuto di meglio che il trovarmi in un campo di gigli che impregnano l’aria con un profumo che non è un profumo, intensi come un olezzo che non è una puzza ma che ti resta dentro per un tempo indefinito.
Eleganti, dal fusto eretto, dalle importanti proprietà medicali e che, nell’iconografia religiosa rappresentano la purezza.

Ricordiamoci, però, quanto Shakespeare sottolineò sui gigli: “Quando marciscono i gigli mandano un puzzo più ingrato che quello della malerba”.

A buon intenditor…
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Nelle scorse settimane mi hanno molto colpito una serie di esternazioni del "solito" picconatore Emerito Sen. Francesco Cossiga sull'eventuale ruolo di potenze straniere negli attacchi sferrati al nostro Premier con l'obiettivo di minarne la credibilità morale agli occhi di un popolo (a suo dire) innamorato del proprio leader e per questo inattaccabile dal punto di vista politico.
Alludo, ovviamente, alle vicende legate a Villa Certosa, alle feste organizzate ed alle finalità delle stesse. >Leggi l'articolo di Marco Cazora<


Subito dopo l'ex Presidente della repubblica, anche il Ministro Bossi ha sollevato il problema, oltretutto rincarando la dose ed arrivando ad accusare i servizi di intelligence di aver, in passato, messo delle bombe.
A me è sembrato strano che nessun magistrato abbia inteso convocare il senatur per verificare, data la gravità della sua affermazione, quali fossero in merito le informazioni in suo possesso. Ma tant'è, siamo in Italia...

Riporto le due dichiarazioni in questione e rimando ad uno speciale di approfondimento per il resto dei lanci di agenzia.

COSSIGA, SERVIZI VERIFICHINO SE C'E' STATA OPERAZIONE CONTRO L'ITALIA -29 giugno Adnkronos
I Servizi segreti verifichino se da parte dell'intelligence di "Paesi 'alleati ed amici'", vi e' stata "un'operazione di 'intossicazione' e di 'disinformazione' dell'opinione pubblica italiana e internazionali ed anche a livello di altri Governi esteri, nei confronti del nostro Paese e del suo Governo, al fine di screditare all'interno e/o all'estero la sua politica estera e militare o di influire su di essa''. Lo chiede il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, in un'interpellanza ai ministri dell'Interno, dell'Economia e della Giustizia, in riferimento all'inchiesta condotta dalla Procura di Bari che fa riferimento anche a vicende private del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

BOSSI: I SERVIZI SEGRETI PRIMA USAVANO LE BOMBE, ORA USANO LE DONNE - L'INTERVENTO DI COSSIGA - 04 luglio Adnkronos
Il leader della Lega Umberto Bossi ribadisce di non credere "a una sola parola" sulla vicenda delle feste private a Villa Certosa con le giovani donne organizzate dal presidente del Consiglio. "A volte penso a quello che è successo e mi sembra una roba tutta organizzata - ha detto Bossi parlando dal palco di una festa della Lega ad Arcore, a poche centinaia di metri dalla residenza di Silvio Berlusconi Villa San Martino - i Servizi sono quelli che organizzano tutte quelle porcate. Mi sembra quello che avveniva anni fa. Allora era peggio perchè usavano le bombe. Oggi, vabbè, usano le donne".
Per Bossi "il fine è sempre lo stesso: destabilizzare i governi".
"Berlusconi forse - ha proseguito Bossi - ha un solo difetto: che invece di farsi accompagnare dalla polizia normale si fa accompagnare dai Servizi segreti. Meglio farsi accompagnare dalla gente della Lega, come faccio io, e dalla polizia normale, dalla Digos. Farsi accompagnare dai Servizi, mah...".


In questi giorni mi è giunta un'interessante analisi di un osservatore acuto e competente come Marco Cazora, amico che da tanto tempo si occupa (per pura passione) di "osservare" le vicende italiane con la sensibilità di colui che ha approfondito molte vicende del passato. >Leggi l'articolo di Cazora<

La domanda che voglio porre ai lettori è molto semplice: Cossiga quando chiede di verificare l'ingerenza straniera nelle vicende italiane,  parla per esperienza diretta? Forse allude a tutto ciò che è avvenuto in Italia da Portella della Ginestra a Tangentopoli (vicenda, quest'ultima, che oltre al ricambio di una generazione di politici, lo costrinse alle dimissioni anticipate da Presidente della Repubblica)?

La spiegazione alternativa, invece, sarebbe che il nostro Emerito si stia facendo troppo condizionare dai successi editoriali della coppia Steve Pieczenik-Tom Clancy. Sembra che almeno uno dei due si intenda molto di questi argomenti...
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Di Manlio  12/07/2009, in Attualità (2689 letture)
Dopo 28 anni di silenzio, grazie al film di Luigi Maria Perotti “L’infame e suo fratello” (>leggi intervista a Perotti<) si torna a parlare del primo pentito delle BR, del fratello ucciso dopo 55 giorni di prigionia dalle BR di Senzani e, per la prima volta, entra in scena Roberta Peci, figlia di quel Roberto la cui tragedia fu ignorata dall’intera nazione.  A differenza di quello che si era verificato nello stesso periodo per l’assessore campano della DC, Ciro Cirillo. >Leggi la news<

Roberta chiede che al padre sia intitolata l’attuale via Boito, la strada nella quale Roberto fu rapito il 10 giugno del 1981.
E’ un tentativo di non rimuovere la memoria, più che di ristabilire la verità.
Poi Roberta, presente al sedicesimo Premio Libero Bizzarri DocFilmFest-Academy a San Benedetto del Tronto, si è lasciata andare ad altre dichiarazioni che in parte rappresentano dei messaggi ai soliti destinatari, in parte errori di valutazione storica dei fatti.

«Roberto Peci non era militante delle Br - ha spiegato la figlia -. Non credeva nella violenza. È stato una vittima innocente delle Br», che ha pagato «un prezzo irragionevole, troppo alto. Era un'antennista di 25 anni, morto ammazzato come un cane».

Premetto che la mia prima necessità è il rispetto verso dolore di una ragazza che nasce senza padre e che cresce portandosi appresso un aggravio di dolore per non potersi dare una giustificazione al fatto di non aver mai potuto ricevere una carezza dal genitore.
Premesso questo, non mi sento di condividere il fatto che non essendo Roberto Peci un militante delle BR fosse un convinto non violento. L’aver assaltato la sede della Confapi di Ancona in quel contesto storico e con le tipiche modalità di una banda eversiva, voleva dire essere coscienti che da li in poi il grande salto era possibile. Ed infatti il fratello Patrizio quel salto lo fece. Che poi si possa essere convinto che quella non fosse la strada giusta, che avesse meditato di mettere su famiglia e di lavorare da antennista è un altro discorso.

Non citando mai il nome dello zio Patrizio, Roberta rincara la dose: «Se il fratello di mio padre non si fosse pentito, Roberto Peci sarebbe ancora vivo […] non mi aspetto niente, non mi ha mai cercato. Come avrebbe potuto, se ancora sostiene che se potesse tornare indietro non cambierebbe nulla!».

E’ bene ricordare come Patrizio Peci si sia rifatto una vita, ha un lavoro, viva sotto falsa identità ed è ancora protetto dai carabinieri. Lui e la sua famiglia, in questi 28 anni, si sono chiusi nel silenzio e tutti i privilegi di cui ha goduto appaiono motivati più dalla necessità di dare protezione ad un segreto che all’incolumità personale.
Nei confronti di un ex brigatista pentito, lo Stato non si è mai preoccupato più di tanto dopo aver raccolto le sue, in molti casi misere, rivelazioni. Dai più fatte solo per il desiderio di evitare un ergastolo che da reali motivazioni di coscienza. Anzi, molti di essi, sono stati lasciati morire in carcere, massacrati dai compagni irriducibili, affogati nell’acqua del cesso, impiccati o sgozzati. Episodi ugualmente tragici a quelli di Roberto Peci.

E allora sorge il sospetto, che dietro la storia dei fratelli Peci, ci sia qualcosa di ancora indicibile, autorizzato ad altissimi livelli, portato avanti senza scrupoli. Qualcosa che a distanza di 28 anni non può essere ancora rivelato apertamente.

Se la famiglia Peci non ha potuto sfogare la propria rabbia e vedere assicurati alla giustizia anche coloro che causarono, con le loro scelte crudeli forse giustificate dal voler combattere con ogni mezzo e ad ogni costo il fenomeno brigatista, una vicenda terrificante come quella che vide protagonista Roberto, altri forse ritengono che i tempi siano maturi e iniziano ad assaporare il gusto delle proprie rivelazioni.
E così, uno dei protagonisti di quella storia, decide di contattare un bravo e coraggioso giornalista, Giorgio Guidelli, raccontando quello che Giorgio ha raccontato a noi il 24 aprile scorso, leggendo le dichiarazioni testuali della sua fonte. >ascolta la serata sulla storia di Roberto Peci<
Una roba da brividi che, ovviamente, nessuno raccoglierà perché nessuno vuole scottarsi le mani (o anche di peggio).

E, infatti, 28 anni fa ai funerali di Roberto non vi fu nessuna rappresentanza istituzionale (ad eccezione di Boato e Pinto). Neanche come forma di ringraziamento e di vicinanza verso la famiglia di uno che aveva consentito a quello stesso Stato di colmare le lacune che avevano da sempre impedito un’efficace azione contro le BR.
Lo Stato fu latitante durante il sequestro, abbandonando i Peci al loro destino, perché decise che la verità non valeva la vita di un operaio, mentre la sconfitta poteva essere messa in conto per liberare un assessore napoletano. Sempre a patto del silenzio, però. Perché anche Ciro Cirillo ha recentemente detto che anche Moro sarebbe potuto essere liberato se si fosse stati disponibili a pagare un riscatto come nel suo caso. Ma ha anche precisato di non voler aggiungere altro perché, pur avendo ottant’anni, ci tiene a morire di morte naturale.

Insomma, cara Roberta Peci. Se fossi in te, penso che il modo migliore che avrei per ricordare ed onorare la memoria di mio padre sarebbe la ricerca della verità che, è vero, potrebbe rivelarsi molto amara, ma che restituirebbe giustizia a chi per quella morte non ha mai pagato il giusto prezzo.
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Di Manlio  27/06/2009, in Attualità (2252 letture)
A tre anni di distanza dalla sua realizzazione e dopo che il regista Giuseppe Ferrara ha fatto di tutto per portarlo al grande pubblico, RAI Tre ha deciso di mandare in onda "in prima TV" il bel film "Guido che sfidò le Brigate Rosse" che narra la storia del sindacalista di Genova e che ebbe il coraggio di denunciare un operaio che in fabbrica distribuiva volantini delle BR.

Sfortunatamente rimase isolato e probabilmente anche per questo divenne un facile bersaglio delle BR genovesi che il 24 gennaio del '79 lo uccisero sotto casa.

La figlia di Guido, Sabina Rossa, oggi parlamentare del PD, ha scritto un bel libro "Guido Rossa mio padre" in cui narra la storia del padre e dell'inchiesta che lei stessa ha portato avanti dopo tanti anni.



Sabina Rossa

Il film era stato voluto dalla CGIL per celebrare il centenario di attività, è stato finanziato dalla RAI e dall'ILVA ma non ha mai avuto la possibilità di essere proiettato nei cinema o in TV. Un vero e proprio boicottaggio che spinse Ferrara a scrivere al Presidente Napolitano per chiedergli se lo Stato stesse dalla parte delle vittime o delle BR.

Strano destino quello di quest'ultimo film di Ferrara. Pronto dal 2006, andrà per la prima volta in TV domani sera, domenica 28 giugno, alle 23.15. Si, alle 23.15, quandoil grande pubblico sarà già con il pensiero al lunedi lavorativo.
Articolo 21 in un suo articolo si augura che qualche milione di italiani decida di vedere il film. Ce lo auguriamo ma difficilmente anche questa volta il bel film di Ferrara sarà visto dal grande pubblico.

In conclusione una considerazione personale. Peccato che il produttore Carmine de Benedictiis non potrà vedere il suo prodotto, dopo tanto penare. Ci ha lasciato nell'aprile dello scorso anno. Ma forse da lassù riuscirà a godersi in silenzio lo spettacolo. Sempre che il segnale di RAI Tre sia visibile...
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