Con i brigatisti non si poteva trattare. Forse si, ma solo sottobanco...
Il 22 settembre scorso sul sito dell’Espresso comparivano le dichiarazioni filmate del pentito Francesco Fonti riprese dal giornalista Riccardo Bocca. > Guarda la video-intervista
Devo dire che una notizia del genere in un altro Paese avrebbe creato il pandemonio, spinto giornali e storici a porre ulteriori domande, indignato i rappresentanti delle Istituzioni che avrebbero potuto intravedere nelle parole di un ex mafioso attacchi diretti e pesanti verso il loro operato volto, a sentire Fonti, ad impedire la liberazione e l’incolumità di uno dei politici più importanti dell’epoca. E invece nulla, a parte un piccolo richiamo su Repubblica e qualche blog che ha riportato la notizia senza però commentarla con il giusto senso critico.
Premettendo che lungi da me qualsiasi giudizio sull’attendibilità delle parole del pentito, provo a fare alcune riflessioni che potranno essere utili a quanti desiderano capire di più.
Cominciamo dal contesto. Sebbene nelle parole riportate nell’articolo Fonti appaia persona lucida e in possesso di una buona dialettica, ad ascoltare l’intervista (>Guarda il video<) si coglie una non sempre precisa capacità di articolazione del pensiero e, a tratti, una leggera confusione sull’aspetto più importante del tutto ossia il covo brigatista e/o la prigione di Moro. L’articolo è opera del giornalista, ovviamente, ed il riadattamento di un colloquio in forma scritta è spesso necessario perché un’intervista riportata letteralmente, potrebbe risultare difficilmente fruibile in forma scritta.
Il 21 marzo Fonti si recò a Roma ed incontrò un agente del SISMI che lui conosceva come Pino ma che gli confida di non essere in possesso di nulla. Pino, però, gli offre la possibilità di incontrare direttamente il segretario della DC Benigno Zaccagni. Cosa che avvenne il giorno seguente al Cafè de Paris nella centralissima via Veneto allorchè il politico, imbarazzato per la situazione, chiese a Fonti un aiuto per risolvere la situazione rassicurandolo che la DC avrebbe saputo sdebitarsi.
Il 25 marzo Fonti incontrò un esponente della Banda della Magliana che, secondo il referente romano di cosa nostra Pippo Calò, saprebbe molte cose. Calò, inoltre, informò Fonti che anche cosa nostra era entrata in azione. Il “Cinese” (soprannome del malavitoso della Magliana) dice a Fonti che non è un mistero dove si nascondono Moretti e gli altri. In una strada sulla Cassia nota come via Gradoli. Secondo il “Cinese” però i brigatisti non li vuole trovare nessuno.
Successivamente Fonti viene portato in un negozio il cui proprietario, uno ‘ndranghetista di nome Morabito, gli conferma che di sicuro in via Gradoli qualcosa c’è. Se non la prigione di Moro, almeno un covo delle BR.
Dopo la terza conferma, Fonti ricontatta l’agente Pino facendo finta di non aver scoperto nulla e di necessitare di altro aiuto tanto da spingere Pino ad un nuovo incontro con un carabiniere addetto all’Ambasciata di Beirut sotto il comando del Colonnello Giovannone. Balestra, questo il nome del carabiniere, confessa di non riuscire a fare dei passi avanti a causa delle continue informazioni depistanti che riceve. Ma si dichiara convinto che in via Gradoli 96 ci sarebbe un covo importante delle BR, al momento abbandonato ma attorno al quale i brigatisti bazzichino ancora. Era la fine di marzo. E qui Fonti iniziò a nutrire dei dubbi sulla utilità della sua trasferta in quanto ebbe la netta impressione che dietro la facciata di costernazione dei partiti si nascondeva un qualcosa di inconfessabile.
A questo punto Fonti si imbatte nell’Onorevole Benito Cazora che reputava tra i pochi ad interessarsi veramente ad individuare qualche covo brigatista o la prigione di Moro, tanto da indurlo ad avere incontri con chiunque potesse dargli una mano. Alla presenza di altri due ‘ndranghetisti, Fonti incontra Cazora in un ristorante. L’Onorevole è angosciato, racconta degli incontri con Varone che lo avevano lasciato un po’ perplesso per la spacconaggine del malavitoso. Lo stesso Fonti non dava alcun peso, all’interno della ‘ndrangheta, a Varone. Fonti informa Cazora che si sta muovendo e i due si lasciano con l’Onorevole che gli augura di avere più fortuna di lui.
Poco dopo il 4 aprile e la lettera di Moro a Zaccagnini, l’agente Pino ricontatta Fonti perché stavolta a chiedere del malavitoso è niente di meno che il numero uno del SISMI Giuseppe Santovito. L’incontro avvenne a Forte Braschi (nell’ufficio di Santovito) e il direttore de SISMI chiese a Fonti se aveva notizie riguardo un appartamento al numero 96 di via Gradoli. Alla conferma di Fonti, Santovito è lapidario: “E’ giunto il momento di liberare il Presidente Moro” Il 9 o il 10 aprile, Fonti soddisfatto tornò a San Luca da Romeo che dopo aver ascoltato il suo racconto lo gela perché da Roma i politici hanno cambiato idea e quindi loro avrebbero dovuto tirarsi da parte. Fonti è amareggiato, ma non se la sente di buttar via due settimane di lavoro proficuo. E quindi prende una decisione eclatante: disobbedisce al suo boss e telefona alcentralino della Questura di Roma per dire di andare a via Gradoli 96, dove gli agenti avrebbero trovato i carcerieri di Moro. Siamo al 10 aprile, dunque, molto prima della scoperta del covo e dopo sia alle perquisizioni degli agenti che alla informativa della seduta spiritica.
Ne 1990, Fonti stringe una cordiale amicizia fondata sul rispetto con il capo brigatista Moretti all’interno del carcere di Opera e i due si trovano a frequentare insieme un coso di informatica. Un giorno una guardia consegna a Moretti una busta, che lui apre, ne estrae il contenuto che era un assegno circolare. Senza nascondersi lo gira e lo riconsegna alla guardia guardando Fonti e commentando “Questo, Ciccio, è la busta paga che arriva puntualmente dal Ministero dell’Interno”. Fonti pensò ad una burla, ma qualche tempo dopo un brigadiere gli confidò che quei soldi erano fatti passare per il compenso di un insegnante di informatica e dati a Moretti per garantirne il silenzio.
Vogliamo porci delle domande? Abbiamo solo l'imbarazzo della scelta...
Perché Cazora non ha mai accennato all’incontro con Fonti? Perché Fonti definisce Cazora l’unico che vuole realmente salvare Moro? Esistono ancora le tracce degli assegni di Moretti negli archivi amministrativi dello Stato? Santovito (P2) si disse pronto ad intervenire. Poi venne uno stop. La P2 è lo Stato, non è un organo deviato. Quindi lo Stato prima vuole salvare Moro e poi ritorna sulla sua decisione. Se la P2 era un organismo effettivo dello Stato, a questo punto verrebbe meno la logica secondo la quale la P2 avrebbe svolto un’attività sotterranea, all’ombra dello Stato e al fianco dei brigatisti come mandante e co-esecutore del sequestro. Fonti, telefonando alla Questura di Roma, avrebbe commesso una disobbedienza agli ordini di una gravità inaudita per un mafioso. E’ credibile? Perché Fonti ha atteso ben 4 anni (dal 2005) per aggiungere questi particolari sulla vicenda Moro? Si è mosso autonomamente o fa parte di una manovra più ampia?
Agganciandomi a quest’ultima questione, raccolgo e giro a tutti voi la riflessione che un amico molto più addentro di me a queste vicende mi ha posto. Visto che è stato attendibile sulle navi raccontando nello specifico i suoi rapporti col SISMI e conservando come prova i numeri di codice delle macchine, non è inquietante e davvero molto probabile che abbia contattato i servizi anche per tornare sulla vicenda Moro? Giochiamo a carte scoperte per una volta: è proprio così fantasioso ammettere che dietro a tutti i misteri ci sono i Servizi Segreti?
Io credo che sia arrivato il momento, una volta per tutte, che ci confessino il ruolo che hanno giocato, se erano indipendenti o come oggi (vedi caso Pollari Abu Omar) dovevano agire esclusivamente eseguendo ordini altrui…
In questa logica potrebbe trovarsi anche la spiegazione de voler dapprima salvare Moro, poi non più.
|
|
|