Viviamo in un momento “topico”, non c’è dubbio. E confuso. Molto confuso.
Da alcuni mesi le associazioni delle vittime del terrorismo e delle stragi sono impegnate in una battente campagna contro le Istituzioni e l’opinione pubblica con lo scopo di ridurre la portata delle parole (siano esse interviste televisive, libri, dibattiti o semplici presentazioni di libri) degli ex militanti delle formazioni di lotta armata che, secondo i familiari delle vittime, troverebbero troppo eco su organi di stampa e televisioni. E che questa censura (perché di questo si sta parlando) sarebbe un modo per rispettare la memoria delle vittime che hanno pagato con la vita le scellerate scelte omicide di quei militanti violenti.
Anche l’uscita di film tutto sommato di second’ordine che raccontano gli anni della lotta armata vissuti dalla parte dei militanti, sono diventati l’ennesima strumentalizzazione politica e giornalistica che, come sempre, non risolve nessun problema ma contribuisce all’inasprimento degli animi e del clima già molto teso data la gravità e la vicinanza temporale di quegli eventi.
Ed un clima più aspro porta, inevitabilmente, a comportamenti e provvedimenti “eccezionali” che impediscono ad uomini liberi che hanno pagato i loro debiti nei confronti della giustizia, come Valerio Morucci o Renato Curcio, di svolgere le proprie attività di scrittore o di sociologo al pari di altri cittadini. E, naturalmente, anche loro, spesso, sollevano legittime richieste di vedere rispettati i propri diritti di cittadini.
In un contesto già di per sé complicato costruito su equilibri deboli, ci mancava che anche “gli ospiti” delle patrie galere (per utilizzare un eufemismo…) sentissero la necessità di dire la loro e di “battere cassa”. E così oggi, leggiamo sul più importante quotidiano italiano diretto da Paolo Mieli, che anche Rita Algranati l’ultima brigatisti arrestata (coinvolta nell’agguato di via Fani ma da questa vicenda assolta perché scagionata dagli ex compagni che hanno raccontato in sede giudiziaria lo svolgersi dell’azione) ha qualcosa da denunciare. (>>leggi<<) E lo fa, non a caso, subito dopo l’estradizione negata dal presidente francese Sarkozy nei confronti dell’ex brigatista Marina Petrella motivata, è opportuno ricordare alla Algranati, da motivazioni umanitarie legate alle condizioni di salute in cui versa la sua ex compagna di militanza costretta ad alimentarsi attraverso un sondino.
Nonostante abbia sottolineato di provare un certo “fastidio per il protagonismo di molti ex brigatisti" la Algranati, in sostanza, giudica inammissibile dover espiare in carcere la pena cui è stata condannata per appartenenza alle Brigate Rosse. Adesso, infatti, lei è un’altra persona rispetto a quella che 25 anni prima aveva abbandonato spontaneamente le Br non condividendone più la linea. Se il carcere, si chiede l’ex brigatista, ha una finalità rieducativa ed essendosi lei “rieducata” da sola costruendosi una nuova vita, che senso ha la sua reclusione? Solo per permettere a qualcuno di sentirsi oggi risarcito, di essere ripagato dalla sua sofferenza?
Fermo restando che la Algranati sapesse perfettamente che la possibilità di essere arrestata (pur se a mezzo di un “atto illegale” a suo dire) non era pari a zero, se davvero avesse voluto fare una scelta di nuova vita avrebbe avuto il dovere civile e morale di chiudere il suo conto con la giustizia al tempo giusto, non fuggendo all’estero ma tornando in Italia e dimostrando al Paese di aver chiuso quell’esperienza e di volerla superare. E ancora oggi avrebbe una grande opportunità per poter dimostrare ciò: ad esempio raccontando qualcosa in più sul ruolo del suo compagno Alessio Casimirri (unico brigatista del commando di via Fani a non aver scontato neanche un minuto di carcere) e della loro fuga in Nicaragua che, a quanto si dice, ha goduto di non poche agevolazioni…
Una foto d'epoca di Alessio Casimirri
Se le sue considerazioni sulla detenzione sono apparse del tutto gratuite, le riflessioni successive sull’esperienza della lotta armata, sulla sua conclusione e sul suo superamento sono quanto mai pertinenti. Sono stati i pentiti a consentire allo Stato di avere la meglio sulle organizzazioni di lotta armata, secondo una logica di convenienza e di premialità che ha permesso a persone che si erano macchiate di crimini efferati e destinate a condanne di diversi ergastoli, di scontare pochissimo carcere e di potersi ricostruire una vita in poco tempo. Questi discutibili successi avrebbero dovuto portare uno Stato diverso da quello nostro ad avviare un percorso di chiusura politica di quegli anni, per cercare di comprendere che la violenza politica è diversa dalla violenza comune perché nasce da motivazioni che vanno comprese a fondo per poter essere chiuse definitivamente e superate. Ed in questo percorso errato, secondo la Algranati, molti ex militanti portano una responsabilità personale perché si sono allineati alla “verità giudiziaria” limitandosi a riconoscere la propria sconfitta.
Una chiusura politica di quell’esperienza equivarrebbe a troncare nettamente ogni legame di continuità tra le Br degli anni ’70 e coloro che ancora oggi pensano di poter raccogliere in eredità un progetto fuori da qualunque realtà. E non sono né il carcere a vita, né la repressione e neppure l’accanimento giudiziario a fermare questi giovani ma, casomai «la comprensione - conclude la Algranati - che s'è trattato di un fenomeno politico fallito e improponibile. Di questo bisognerebbe discutere, ma non mi pare interessi nessuno».
Al termine dell’intervista, Giovanni Bianconi ha chiesto a Rita Algranati perché nel frattempo non dice qualcosa sul caso Moro. «Di quella vicenda penso si sappia tutto quel che c'è da sapere […] Anche dal punto di vista umano, la morte è una tragedia per tutti, e tutte le morti sono una tragedia. I dettagli non aggiungono nulla». Ah, si? E perché non prova a convincere di questo il Gen. Mario Fabbri o il Dr. Carlo Parolisi, i funzionari del SISDe che erano riusciti ad avvicinare Alessio Casimirri e che, proprio quando avevano iniziato a tessere una possibilità di dialogo si videro sabotare i propri sforzi a causa di un “dipendente infedele” (come lo definì lo stesso Fabbri di fronte al giudice Ionta) che operò una fuga di notizie e produsse un articolo su “L’Unità”che spaventò Casimirri proprio quando era nato, tra i tre, un rapporto di reciproca fiducia?
In un’intervista apparsa oggi sul quotidiano “Il Giornale”, Sabina Rossa (senatrice e figlia del sindacalista Guido Rossa ucciso dalle Br il 24 gennaio del ’79) si è concessa alcune riflessioni realistiche ed equilibrate sull’attualità legata agli “anni di piombo” che vanno dal comportamento del Presidente francese Sarkozy sull'estradizione richiesta dall'Italia per Marina Petrella alla possibilità di concedere la libertà condizionata ad uno degli assassini del padre Vincenzo Guagliardo. Una posizione di grande lungimiranza ed un grande esempio di tutela dello Stato di diritto. Un chiare esempio di quale sia la strada da intraprendere se si vuole davvero chiudere con quel passato. Anche se, su alcune posizioni, mi sento di dover "correggere" la senatrice...
Ma procediamo con ordine.
La decisione di Sarkozy di non concedere l’estradizione della Petrella per motivi umanitari ha irritato la senatrice del PD perché il Presidente francese «ha mostrato una sfiducia assoluta nelle nostre istituzioni e nel nostro sistema giudiziario. È grave. […] Davvero qualcuno crede che in Italia le sue condizioni di salute si sarebbero aggravate?».
In linea di massima il ragionamento di Sabina Rossa è corretto. Ma, per dirla tutta, la motivazione addotta dal primo cittadino francese è apparsa ai più come una scusa, una toppa cucita in fretta per acquietare le pressioni che da più parti del Paese transalpino giungevano al Presidente. A me sembra che la credibilità del nostro sistema Paese (con particolare riferimento alla macchina della giustizia) sia stata messa più volte alla prova ma che si siano sempre adottati più pesi e più misure. Negli anni ’90 sono state molte le richieste che i nostri Governi hanno sporto verso gli Stati Uniti per ottenere l’estradizione di Silvia Baraldini. La risposta degli americani è sempre stata “picche” perché pensavano che la Baraldini, con i benefici di legge previsti dal nostro ordinamento, avrebbe fatto poco, quanto niente, carcere. E, quindi, un’accusa molto grave nei confronti del nostro Paese: quella di rischiare di rimettere in circolazione pericolosi terroristi che potrebbero arrecare nuovi danni alla collettività. Nessuno, mi sembra, abbia denunciato che il nostro alleato insinuasse che nel nostro Paese la giustizia fosse “governata” da Pulcinella… Nel caso dell’Achille Lauro, l’Italia decise di processare il terrorista palestinese perché la nave si trovava sul nostro territorio e Craxi non concesse agli americani di poter “prelevare” il leader dell’FPLP George Habbash che gli americani non vedevano come mediatore della vicenda ma come colluso con l’autore del reato. I maligni ricordano che la realtà delle cose è fatta di compromessi, di scambi...
In relazione al fatto che le ragioni delle vittime degli anni di piombo siano offuscate dalle verità degli ex terroristi Sabina Rossa contesta «“una spettacolarizzazione mediatica che è più interessata agli ex terroristi, perché fanno notizia...[…] Anche la politica spesso ha scelto la scorciatoia della spettacolarizzazione. È comodo, è più facile, crea meno problemi a tutti » Infatti qui il problema non è tanto quello di stabilire se vi debba essere un “misuratore qualitativo di ragione” negli organi di comunicazione, ma rivedere nel complesso il ruolo dell’organo stesso. Ovvero: informazione o vendite (e quindi audience che vuol dire mercato che porta la pubblicità)? Nella maggior parte dei casi io non credo che Alberto Franceschini o Valerio Morucci (per fare due nomi a caso) abbiano bussato alle redazioni dei giornali o delle trasmissioni televisive chiedendo di essere intervistati. Credo che sia avvenuto il contrario. E non mi sembra che vi siano stati casi in cui l’ospite abbia offeso la memoria di qualche sua vittima (o della propria organizzazione). Piuttosto, e ha fatto bene la Rossa a sottolinearlo, in alcuni casi tali situazioni si sono rivelate una grande opportunità per la politica di semplificare la complessità dei problemi che ci portiamo dietro da trent’anni. E da qui al corto-circuito mediatico, il passo è breve.
Sabina Rossa commette, secondo me, un errore quando parla di «ribaltamento della macchina informativa» come passo «necessario per illuminare gli angoli più bui della memoria». In che senso? Mi aspettavo che criticasse chi produce informazione perché presta attenzione prima agli aspetti di marketing e poi a quelli del “dovere civile”. Ed invece il ribaltamento riguarda, forse, l’ottica con la quale gli ex brigatisti dovrebbero esternare. «Gli ex terroristi non hanno ancora detto tutto. Non dicono la verità. Mantengono volutamente zone d’ombra. […] Perché proteggono ancora qualcuno ». A questo punto le considerazioni sarebbero davvero tante e se non sono bastati convegni, libri, storici e sociologi a fornire una risposta definitiva alla vicenda, non si illude di poterlo fare il sottoscritto con le proprie capacità limitate sia in termini intellettivi che di spazio. Per semplificare (perché sempre su un Blog siamo e non possiamo scambiare un post per il capitolo di un libro) direi di procedere per domande. E le vorrei porre alla Senatrice Rossa, e a tutti i politici che hanno la volontà di affrontare criticamente la storia politica di quella che chiamiamo, forse con un eccesso di buonismo verso noi stessi, la Prima Repubblica.
Siamo sicuri che conoscere militanti che hanno avuto ruoli marginali in azioni irrilevanti per la storia del nostro Paese sia finalizzato alla giustizia e non invece ad una velata ombra di giustizia sommaria che aleggia dietro ciascuno di noi?
Siamo sicuri che non ci siano in circolazione militanti che hanno avuto ruoli importanti nelle rispettive organizzazioni e che oggi non sono persone di second’ordine della nostra società?
Siamo sicuri che conoscere i nomi di ex brigatisti sia l’unica via d’uscita o, piuttosto, sia come recitare un Padre Nostro, tre Ave Maria e chi s’è visto s’è visto?
E quindi, la domanda finale che mi pongo io, è quella che da tanti anni storici e ricercatori non legati da un fine politico dovrebbero sollevare per scuotere le coscienze di tutti i cittadini:
siamo davvero sicuri che attraverso la scelta di non parlare gli ex brigatisti tutelino gli ex compagni rimasti illesi dalle inchieste giudiziarie e non invece il ruolo di persone ambigue che avrebbero dovuto combatterli e che invece ne hanno fatto strumento personale di guerra non ortodossa?
Ma come uscire da tutto ciò? La soluzione sudafricana, invocata da molti, "verità in cambio di impunità" potrebbe essere uno strumento efficace? Sabina Rossa non ha «ancora un’opinione definitiva». Ma di una cosa è certa: «la giustizia è un bene collettivo. Lo dico anche alle vittime come me: non può essere desiderio di vendetta privata» e anche se la maggior parte degli ex brigatisti sono fuori dal carcere « se si sono fatti vent’anni di sangue, per me è una pena congrua. Sono contraria al fine pena mai». Condividere o meno queste ultime affermazioni non può che essere una scelta personale, ma rappresenta sicuramente la prova della volontà di andarla a cercare, almeno, la verità. Che poi la si possa trovare con il sistema sudafricano, sono scettico. Per un motivo elementare. Può funzionare solo ad una condizione: che chi ha perso, chi è stato sconfitto dall’avanzare di una scelta democratica si sia fatto da parte e, perseguito dalla parte che ha avuto la meglio, abbia di fronte a sé l’alternativa dell’esilio o della galera a vita. In queste condizioni, quando il taglio con il passato è stato netto, allora è possibile rinunciare ad un legittimo desiderio di “vendetta” in cambio della chiarezza sul proprio passato. E questo serve anche per evitare che tale passato ritorni.
Ma chi parlerebbe di qualcuno che ha “guadato il fiume”, anche se non dovesse subire nessuna conseguenza giudiziaria? Ed in queste condizioni come accertarsi che si sia detta proprio tutta la verità?
Da molto tempo il dibattito sulla chiusura politica degli anni ’70 sembra essersi concentrato sul decidere chi, tra ex militanti di lotta armata e familiari delle vittime del terrorismo, abbia più diritto a parlare. E, soprattutto, con quali modalità. Negli ultimi giorni, il rifiuto dell’estradizione dell’ex brigatista Marina Petrella e la concessione di libertà vigilata concessa dal Tribunale di Sorveglianza all’ex militante dei NAR Francesca Mambro, hanno riacceso le polemiche e, diciamolo pure, gli slanci demagogici di coloro che, fino al giorno prima, si erano dimenticati che in Italia, 30 anni fa, si sono verificati eventi storici e politici tragici e le cui conseguenze ancora ci portiamo appresso perché nessuno ha mai considerato sul serio l’ipotesi di dover chiudere quel pezzo di storia che ancor oggi divide buona parte del nostro Paese.
E’ opportuno ricordare come ai primi del mese di agosto Giovanni Berardi, figlio del maresciallo ucciso dalle BR, chiese l’intervento del Ministro della Cultura Sandro Bondi per impedire che un film che raccontava la nascita delle BR e che vedeva, tra i protagonisti gli ex brigatisti Franceschini, Ognibene e Paroli, non fosse divulgato al grande pubblico in quanto offendeva la memoria delle vittime. Berardi chiedeva anche come fosse possibile che un film del genere fosse stato realizzato con finanziamenti pubblici. Il risultato di questo “blitz” è stato triplice: da un lato esporre ad una grande pubblicità il film, da un altro agitare lo spauracchio della censura ed in ultimo, ma più grave, arrivare a preconfigurare un clima da censura preventiva ove qualcuno possa decidere quali film siano “moralmente” degni dei contributi pubblici!
In un’intervista su Il Corriere della Sera del 17 ottobre 2008, un’altra familiare delle vittime delle BR, Sabina Rossa ha esternato il suo pensiero lanciando una sfida democratica e civile. Superare il dolore senza per questo dover offendere nessun familiare: sia ridata la libertà all’assassino di mio padre perché 28 anni di carcere sono una pena congrua ed il ravvedimento del condannato è certo.
E cosa succede in questa seconda puntata della stessa telenovela? Colpo di scena. Questa volta in pochi hanno applaudito ed in molti hanno fatto finta di niente. Eh si, perché stavolta la vittima oltre ad essere vittima è anche Senatrice e pur parlando a titolo personale è pur sempre una del “Palazzo”. E le sue dichiarazioni rimbombano nelle stanze del potere come un ceffone in faccia alla “mercificazione” del dolore che tanto è piaciuta ai media e alla classe politica in occasione del recente trentennale dell’uccisione di Aldo Moro. Ma nei confronti di una Senatrice, occorre agire con intelligenza. Pur non potendo utilizzare la prima pagina di un giornale o un servizio di apertura al TG di prima serata, la risposta è giunta immediata, strisciante e politicamente dura. Molto dura.
La RAI aveva prima invitato Sabina Rossa alla trasmissione Domenica In che dopo molte resistenze, aveva accettato di parlare della sua posizione. Ma la stessa RAI ha poi fatto dietrofront giustificando la sua decisione in base alla circolare che vieta la presenza dei politici nei programmi di intrattenimento. Ma come? E la partecipazione del Ministro Renato Brunetta nella puntata del 5 ottobre 2008? La Commissione di Vigilanza della Rai aveva approvato nel lontano 2003, un documento sulle garanzie del pluralismo nel servizio pubblico ne quale si suggeriva:
“La presenza di esponenti politici nei programmi d’intrattenimento va normalmente evitata e deve - comunque - trovare motivazione nella particolare competenza e responsabilità degli invitati su argomenti trattati nel programma stesso, configurando una finestra informativa”.
Se ne dovrebbe dedurre, pertanto, che Sabina Rossa non mostri “particolare competenza” della materia in questione (in effetti ha solo perso un padre e fatto un’inchiesta che ha portato ad un libro di successo…) e non sia contraddistinta da un senso di responsabilità (come se le sue parole avessero esaltato l’impresa di Guagliardo e che la sua liberazione fosse giustificata da motivazioni politiche…) Tutto questo è semplicemente ridicolo!
Ma non è finita qui. La presa di posizione pubblica l’ha portata avanti il penalista ed ex Presidente della Camera Luciano Violante che ha sentenziato: «È una presa di posizione molto rispettabile, però lo Stato può decidere in modo autonomo. Credo sia un pò pesante far decidere la scarcerazione di un condannato per omicidio dai parenti della vittima, si aggraverebbe troppo il peso su di loro» Ma come? Prima si invoca il ravvedimento e la volontà di aver preso coscienza del proprio errore espiando il proprio pentimento di fronte ai destinatari del dolore provocato chiedendo perdono, poi quando la comprensione si compie questo potrebbe rappresentare un peso troppo grande per le (piccole? deboli?) coscienze dei parenti della vittima?
Mi chiedo cosa ci riesca a capire il cittadino che non segue le vicende. Probabilmente ne avrà tratto un tale senso di confusione che lo avrà portato diritto al disinteresse ed alla semplificazione. E la strumentalizzazione è compiuta!
Patrizio J. Macci del quale potete leggere un "particolare" racconto su via Montalcini (leggi) mi segnala che sempre ieri su Repubblica, sulla fortunata rubrica “L’Amaca” il giornalista Michele Serra prova ad “uscire dal coro”: il principio che muove le parole di Sabina Rossa è civile e ragionevole perché si fonda dietro il valore riabilitativo della pena. La dimensione privata del dolore deve essere distinta da quella pubblica della Giustizia. La scelta di Sabina è fuori dalle demagogie.
Ma, caro Serra, purtroppo anche quando la “ragione ha ragione” essa può essere strumentalizzata. E ne abbiamo appena scoperto il meccanismo.
L' AMACA (Repubblica — 17 ottobre 2008) Beh, ogni tanto capita ancora di imbattersi in uno straccio di motivo per sentirsi orgogliosamente di sinistra. Per esempio le parole e i pensieri di Sabina Rossa, parlamentare del Pd, figlia dell' operaio comunista Guido Rossa ucciso dai brigatisti nel ' 79. Chiede che uno degli assassini del padre venga scarcerato dopo 28 anni di carcere. Lo chiede perché 28 anni sono tanti, e soprattutto perché crede fermamente in un principio molto civile oltre che molto ragionevole: il valore riabilitativo della pena. In più, Sabina Rossa mantiene a debita distanza la delicatissima, privatissima materia del perdono, così spesso oggetto di indecenti traffici mediatici, di chiacchiere mielose, di dibattiti tanto inconsistenti quanto invadenti. La giustizia è ambito pubblico, le emozioni e il dolore ambito privato. La compostezza di Sabina è ammirevole, ma non cade dalle stelle. Proviene da una cultura civile e da una concezione della legge che nel suo caso ha radici familiari. Si riconoscono una misura, un senso di responsabilità, un' assenza di demagogia che sono le migliori virtù democratiche. Tanto è vero che, da qualunque parte le si voglia prendere, le sue parole non possono essere strumentalizzate né dalle vittime né dai carnefici, né dai forcaioli né dai garantisti. Semplicemente: la ragione ogni tanto ha ragione. E riesce a chiudere il cerchio. MICHELE SERRA
Sembra si sia innescata una spirale. Ed il dibattito sugli ex militanti di lotta armata, le vittime, le associazioni e la nostra società, si allarga a nuovi interventi. Sabato sera nella puntata di TG2 Dossier Storie è andato in onda un servizio che, partendo dalla solita mancata estradizione dell’ex brigatista Marina Petrella ha affrontato il più generale tema del poco spazio fornito invece alle famiglie delle vittime. Il giorno dopo, su Repubblica, Silvana Mazzocchi ha realizzato il classico gol in contropiede intervistando niente di meno che Patrizio Peci il quale, tanto per gradire, sta per mandare in libreria una riedizione del suo famoso “Io, l’infame” che nel 1983 fu il suo primo atto di dolore per il grande pubblico. Luca Telese riprende sul suo sito l'argomento e su Il Sole 24ore un articolo di Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter assassinato nel maggio dell’80 da una banda di imbecilli capeggiata da Marco Barbone (altro pentito che ha scontato pochissimo carcere), analizza i differenti punti di vista sul rapporto tra terrorismo e cinema.
Proviamo a mettere insieme il mosaico…
Benedetta Tobagi, nell’inserto culturale della domenica del Sole 24ore rilancia il tema del rischio che le storie del passato possano alimentare, raccontate oggi, un alone di romanticismo soprattutto se il ruolo di un ex come Sergio Segio viene interpretato da un “figo” come Riccardo Scamarcio. A risponderle è il produttore del film, Andrea Occhipinti, che sottolinea come in realtà sia la storia a contare e non le scelte artistiche che, trattandosi di prodotto commerciale, devono essere compiute secondo principi legati più all’economia che alla morale. In merito all’istituzione proposta dal Ministro Sandro Bondi di una commissione che valuti le opere per decidere se possano aspirare ad usufruire dei finanziamenti pubblici è il Direttore Generale per il Cinema del Ministero dei Beni Culturali Gaetano Blandi a rassicurare tutti noi. Nessuna censura preventiva, solo una scelta etica: aderire alle parole del Presidente della Repubblica Napolitano pronunciate in occasione della prima giornata nazionale delle Vittime del Terrorismo. Il Ministero ha semplicemente chiesto alle associazioni cosa ne pensassero dei diversi film (non dal punto di vista artistico), a parlarne con autori e produttori che per conto loro si sarebbero impegnati a non dare spazio agli ex terroristi in occasione delle presentazioni pubbliche dei loro lavori. Le solite cose all’italiana, mi verrebbe da pensare. Una questione di facciata, cambiarsi l’impermeabile senza curarsi delle mutande sporche…
Dall’intervista di Silvana Mazzocchi «Ormai sono un´altra persona, che vive e fa cose diverse, che ha una famiglia, un figlio». Il diritto alla normalità Peci lo dà per scontato. In base alla sua collaborazione e al suo ravvedimento. A giudicare dalle proteste pervenute (cioè zero) sembra che da tutti questo suo diritto gli sia da tutti riconosciuto.
«Sono quello che sono. Ma chi mi ha accettato ha riconosciuto la mia buona fede, sempre, dalla lotta armata alla dissociazione. Tutte scelte trasparenti, compiute senza condizionamenti». Strano questo suo richiamo alla trasparenza ed all’autonomia… La sua buona fede se la sarebbe portata dietro in tutte le proprie scelte. E’ proprio questo che deve avergli fatto ricevere un trattamento di favore, evidentemente.
«Se ho accettato di scrivere una parte nuova del mio libro è stato solo per dimostrare che si può cambiare veramente vita e diventare un altro. Che si possono avere degli affetti e perfino qualche bene materiale. Volevo dimostrare che è possibile farcela». Ricapitoliamo. Se a lui, di questi tempi, è offerta la chance di ripubblicare un libro, fare una lunga intervista su uno dei principali quotidiani nazionali deve essere proprio per questo. Dimostrare che è possibile rifarsi una vita. Ma le famiglie delle vittime, di questo, cosa ne pensano? Certo avere affetti e beni “materiali” per uno che non è passato dai permessi, dal lavoro esterno, dalla semi-libertà e poi dalle richieste al Tribunale di Sorveglianza, è molto più semplice. Se poi ha avuto un piccolo aiutino da parte dello Stato è ancora più semplice…
«Non si può perdonare quello che non ha senso. E forse è per questo che i parenti delle vittime non riescono a spiegare mai, a chi non lo ha conosciuto, il senso del lutto. Non puoi perdonare la perdita irrevocabile, soprattutto quando sai che non c´era motivo, soltanto odio e ferocia animalesca in chi ha premuto il grilletto». Non è molto chiaro se Peci parli più da terrorista o da familiare di una vittima. In ogni caso confesso che mi piacerebbe conoscere il parere delle associazioni su questo particolare aspetto, sempre ammesso sia possibile criticare il punto di vista del Pentito.
Dall’articolo di Luca Telese Come prima cosa è bene ribadire come non sia stato Peci a sconfiggere le Br. Stando ai numeri l'80, l'81 e l'82 sono stati anni tragici dal punto di vista dei lutti e dell'efferatezza degli attacchi. Moretti è restato libero per oltre un anno dopo l'arresto (il primo? il secondo?) del febbraio dell'80 di Peci e Micaletto. Le Br Senzaniane si distinsero per una ferocia che le Br ‘operaiste’ dell'inizio e persino quelle ‘militariste’ Morettiane non avevano ancora dimostrato. Quindi il fatto che Peci sia stato premiato per aver consentito la sconfitta dell'Organizzazione è un falso mito, che però torna comodo per giustificare premi e protezione di cui ha goduto... Più in generale, i pentiti non sono stati la causa della sconfitta della lotta armata, ma l’effetto. Le organizzazioni hanno iniziato a sfaldarsi perché è mancata loro quella sensazione di avere le masse al proprio seguito, di coltivare consenso. Una sconfitta interna dovuta alla distanza che separava la società civile dalle analisi e dalla scelta di concentrare tutto sullo scontro frontale, militare, contro il ‘nemico’.
Telese ci ricorda come Peci abbia passato in carcere meno tempo rispetto a quello trascorso alle scuole elementari, la qual cosa oltre che stupire dovrebbe far inorridire molte persone. E che tutt'ora vive in una condizione di semi-clandestinità protetto da ufficiali dei quali è possibile solo citare il nome in codice! Ma scusate, di chi dovrebbe preoccuparsi oggi Patrizio Peci? Nel 1987 le Br dichiarano esaurita la loro esperienza, dalla fine del secolo scorso tutti i militanti delle Brigate Rosse sono liberi o semi-liberi e hanno intrapreso nuove vite. Le nuove leve del brigatismo sono tanto isolate dalla realtà quanto inconsistenti che difficilmente uno come Peci avrebbe potuto rappresentare per loro un obiettivo.
Noto poi che Telese è un ingenuo ottimista: sperare che Peci possa dire qualcosa che non siano le solite verità di comodo degli ex brigatisti è come, per un tacchino, credere di essere un semplice invitato a pranzo il giorno del ringraziamento… Ma come, Peci? Uno che nonostante tutte le protezioni e i benefici di legge di cui ha goduto, non ha detto una sola cosa di rilievo sul caso Moro? Semmai sono stati dopo gli altri ad “adeguarsi” all’incipit fornito dal pentito. Si, ufficialmente perché non vi ha partecipato e perché le poche cose di cui era al corrente le aveva sapute da Raffaele Fiore (brigatista della colonna torinese, uno dei quattro “aviatori” di via Fani). Salvo, poi, dichiarare di essere stato in possesso di manoscritti originali di Aldo Moro e descrivere alcuni dettagli dell’agguato di via Fani come se ce li avesse ancora sotto gli occhi.
A raccontare per la prima volta la storia del pentimento di Peci, è stato l’allora comandante delle guardie carcerarie dello Speciale di Cuneo, Maresciallo Angelo Incandela. In un’intervista del 1994 sul Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione del suo libro Agli ordini del Generale Dalla Chiesa, Incandela ricordò come lo spietato Peci fu aiutato nel suo pentimento da "alcune quaglie ripiene, due etti di prosciutto crudo, due paia di slip e calzini nuovi più un fumetto di Tex, di Topolino e un numero della Settimana enigmistica. Farà ridere, ma la strada alla sconfitta del terrorismo italiano è stata aperta anche da un peccato di gola". E tanto per non lasciare nulla al caso, sempre domenica 19 ottobre il quotidiano Il Giornale riprende, appesantendolo, il concetto: «Nessuno - avrebbe confermato Incandela - ha mai detto la verità su questa storia. Ma quale pentimento, quello non ha retto all'isolamento e dopo quattro giorni è crollato. Lo scriva, mi raccomando: non esiste un pentimento dell’anima, ma una tentazione della gola. È questa la verità vera».
Il Maresciallo, nell’intervista, si dice ispirato da quarant’anni dai valori dell’ordine e della disciplina, definendosi «umile servitore dello Stato». Devono averlo recentemente abbandonato questi valori a giudicare dall’arresto nel 2008, alla tenera età di 73 anni, con l’accusa di essersi “posto al centro di un’articolata rete di rapporti clientelari con funzionari pubblici e privati, anche di notevole livello, realizzando con essi un continuo scambio di “favori”, finalizzato a reciproca utilità” (fonte CuneoCronaca.it).
Mah, non per alimentare una interpretazione dietrologica dalla quale mi ritengo distante anni luce. Ma secondo me, sulla vicenda Peci, non ce l’hanno raccontata giusta. E, soprattutto, non ce l’hanno ancora raccontata tutta.
Giorgio Guidelli è un giovane giornalista del Resto del Carlino che ha già pubblicato tre libri sugli anni di piombo, il primo dei quali "Operazione Peci, storia di un sequestro mediatico" una vera e propria rilettura di uno dei capitoli più efferati dell’intera storia brigatista (il sequestro-assassinio di Roberto Peci, fratello del grande pentito Patrizio, ad opera delle Brigate rosse-Partito della Guerriglia). Il rapimento fu un tentativo di Giovanni Senzani, stratega e ideologo di punta dell’ultima stagione brigatista, di utilizzare e servirsi dei mass media per accreditare se stessi, attraverso il delitto. Per realizzare questo lavoro, Guidelli ha dovuto analizzare una montagna di carte processuali e questo gli ha consentito di diventare l'esperto più accreditato di quella vicenda tragica ed al tempo stesso non completamente chiarita. Ad esempio, basti citare che il giornalista non è riuscito a recuperare le versioni integrali dei 7 comunicati emessi dalle Br durante i 55 giorni del sequestro Peci essendo disponibili solo i loro estratti utilizzati nelle aule del Tribunale.
L'approfondimento della vicenda ha portato Guidelli ad un secondo lavoro "Terra di piombo" nel quale il giornalista ha ripercorso gli anni che hanno segnato le Marche dal 1976 al 1982 attraverso lotte, incontri clandestini, disordini passando da luoghi, personaggi e situazioni nella regione che fu culla delle Brigate rosse. Guidelli è anche il protagonista del ritrovamento della R4 nel cui bagagliaio fu rinvenuto il cadavere di Aldo Moro in via Caetani. Nel 2007 ha pubblicato un terzo libro "L'auto insabbiata" nel quale racconta la storia di quest'auto ancora trattenuta dal proprietario dell'epoca Filippo Bartoli.
Il fenomeno della lotta armata lo ha fino ad ora visto come un osservatore e studioso sempre più attento. In quest'intervista ho cercato di stimolare Giorgio a delle riflessioni soprattutto sulla vicenda Peci e sul perchè essa non possa ancora considerarsi un capitolo chiuso della nostra storia.
Mario Moretti e Patrizio Peci. Due capi brigatisti, entrambi marchigiani, che hanno determinato l’ascesa e la sconfitta delle BR. In che rapporti erano i due all’interno dell’Organizzazione?
Generazione di fenomeno. Brigatista. Diciamo che uno ha tirato la volata all'altro. Con analogie impressionanti: tutti e due della provincia di Ascoli, tutti e due studenti sui banchi dell'Iti Montani di Fermo, tutti e due leader, tutti e due con ruoli chiave: il primo di grande regista, il secondo di attore e al contempo distruttore in qualità di pentito. Una cosa è certa: quando Patrizio se la svignò dalle Marche, corse a Milano dai compagni guidati dal conterraneo Moretti e di lì, ispirato dalle gesta del capo di Porto San Giorgio, spiccò il volo per Torino, dove divenne uno dei maiores della colonna piemontese. Tra l'altro, facendo un passo indietro, e cioè negli anni del comitato marchigiano, specie nel '76, i contatti tra il comitato esecutivo e gli organi periferici, come quello marchigiano, dovevano essere frequenti. E quindi anche i rapporti tra Moretti e Peci. Per il resto non doveva esserci dialettica, se non altro per il fatto che Moretti era un teorico, mentre Peci una mano calda
La vicenda del pentimento di Peci è piuttosto controversa. C’è chi addirittura ha ipotizzato un “doppio arresto” e quindi la storia di un pentimento “costruito a tavolino”. Possiamo dire di sapere tutto, oggi, sul più illustre pentito delle BR?
No, non si sa ancora tutto. E quello che si sa, non si ha il coraggio di dirlo. La storiografia del brigatismo e degli anni di piombo accredita versioni di comodo, supportate da un giornalismo superficiale e da indagini di studiosi poco inclini a scavare nella verità. Poi, purtroppo, c'è la solita omertà di Stato. Nessuno, ultimamente, ha voluto rivelare o scrivere. Quando si parla dell'argomento, si incontra un'ostilità strana e a tratti inquietante. A livello nazionale e, soprattutto, marchigiano
Il Generale Bozzo in una recente intervista radiofonica rilasciata ad Alessandro Forlani per il GRParlamento della RAI, ha ricordato come Patrizio Peci fu individuato già nel ’77 perché amico della figlia di un parlamentare che era controllata dai carabinieri. Le foto degli incontri della ragazza giunsero a Milano e lì gli uomini del gruppo di Dalla Chiesa, al momento non attivo, riconobbero Patrizio Peci tra le persone immortalate. Poi però, secondo Bozzo, il contatto fu perso. Le sembra un comportamento verosimile per chi faceva dell’antiterrorismo un’attività di elevata professionalità?
Apprendo qui di questo episodio. Per la risposta, vedi quella precedente…
Patrizio Peci ha scontato pochissimo carcere e, dopo essere stato per un periodo all’estero, è stato premiato con una nuova identità avendo la possibilità, non indifferente, di potersi costruire una nuova vita. Attualmente possiede un’attività commerciale in Piemonte. E’ stato l’unico dei pentiti a ricevere così tante agevolazioni. Perché fu il primo, perché il suo contributo fu il più determinante, o per una sorta di premio-indennizzo per una collaborazione più complessa del “semplice” pentimento?
Credo proprio la terza ipotesi. E credo anche che ci sia molto di più. E che quel di più, chi sapeva, se lo sia portato nella tomba
Quale vendetta per le delazioni di Patrizio Peci, le Br di Giovanni Senzani rapiscono e processano il fratello Roberto. La vicenda rappresentò il tentativo di risposta mediatica con la quale le Br volevano fornire la loro risposta allo Stato (denunciando le presunte complicità dei nuclei anti-terrorismo di Dalla Chiesa con l’operazione arresto-pentimento) e ad eventuali altri potenziali delatori (fornendo una prova di cosa aspettava loro in caso di pentimento). Quale è la sua lettura del rapimento e dell’uccisione di Roberto Peci?
La versione ufficiale è quella di una vendetta trasversale. Mafiosa. Del tipo: tu parli, io uccido un tuo parente per rappresaglia e così sei avvisato. La versione delle Br è quella di aver punito il tradimento di Roberto, di annientare i cosiddetti agenti della controrivoluzione. Il fatto curioso è che la campagna Peci nasce con certe intenzioni e finisce con altre. Nasce cioè con l'intenzione di intimidire e non di uccidere. E invece si chiude con un'esecuzione. Filmata, addirittura. Perché? E perché, parallelamente, il sequestro Cirillo, ugualmente gestito dal Fronte delle carceri, si chiude invece con la salvezza dell'ostaggio? In fondo la vicenda dei Peci, forse molto più di quella Cirillo, poteva essere decisiva nella partita tra Stato e Br. Come è possibile, quindi, che Cirillo sia stato salvato e Roberto Peci no? Ruota qui attorno il mistero della campagna Peci. Una verità processuale è stata già scritta, ma il resto…
In via Gradoli furono repertati diversi documenti tecnici sulle attrezzature per la video registrazione. Del resto lo stesso Buzzati seppe da Moretti che in occasione del sequestro Moro era stato installato un impianto di videoregistrazione. In effetti, la forza mediatica del “processo Peci”, fu enorme e immaginiamo cosa sarebbe stato il sequestro Moro (in termini di spettacolo e quindi di propaganda per le Br) se fossero stati divulgati “filmati della prigionia e dell’interrogatorio”. Ritiene possibile che anche 3 anni prima le Br avessero puntato ad un’operazione mediatica ma che, a differenza di Peci, furono costrette a rinunciare alla pubblicazione del materiale video?
E' possibile. Eccome. Le analogie tra i due sequestri, anche se a distanza di tre anni, sono evidenti. Ed è possibile che alla testa di quelle operazioni si trovassero alcune stesse menti. Quello che cambiava era il rischio rapportato all'ostaggio. Forse i sequestratori ritennero che divulgare un filmato con Moro sarebbe stato troppo pericoloso per l'Organizzazione. O forse chi voleva divulgarlo, allora, si trovò in netta minoranza all'interno delle stesse Br. D'altra parte, tre anni più tardi, il film con Roberto Peci fu ritenuto un'assurdità nell'Organizzazione. E gli stessi brigatisti condannarono la spettacolarizzazione della morte
Cosa ne pensa della “denuncia” con la quale Senzani tentò di far scoprire le carte ai carabinieri indicandoli come responsabili di avere “comprato” l’infiltrazione di Patrizio Peci?
Senzani era uno stratega raffinato. Conosceva a menadito i meccanismi dello Stato e i suoi apparati…
Peci era certamente un capo brigatista sin dal ’79 e, con molta probabilità, lo era già dall’epoca del sequestro Moro tanto che non sono pochi coloro che hanno ipotizzato un ruolo attivo di Peci nella vicenda del rapimento del Presidente democristiano. Prova ne è che erano nella disponibilità di Peci (notizia ANSA) scritti autografi di Moro resi nel corso dei 55 giorni. Lei ritiene che Patrizio Peci possa aver avuto un ruolo attivo nel sequestro Moro?
Può essere. E questo potrebbe aver pesato, a mio avviso, nel suo successivo ruolo di 'delatore' speciale. So per certo che persino alcuni fiancheggiatori considerati pesci piccolissimi ebbero ruoli impensabili nell'operazione Fritz
Considerando che l’unico argomento del quale Peci non ha mai parlato, se non per sommarie informazioni, è proprio il sequestro Moro, lei ritiene che un suo eventuale coinvolgimento sia in qualche modo legato al pentimento ed alle delazioni?
Potrebbe essere. Lo dicevo anche prima
Da studiosi è difficile non notare alcune incredibili somiglianze tra il caso Moro ed il caso Roberto Peci. Entrambi i rapimenti durarono 55 giorni, entrambi i prigionieri furono sottoposti a “processo popolare”, i comunicati delle Br di Senzani durante il rapimento Peci furono 7 (e si sa che il 7 è un numero in relazione al caso Moro), entrambi i prigionieri furono assassinati con 11 colpi al petto. Solo il frutto di macabre coincidenze o messaggi trasversali ben precisi?
Se non messaggi trasversali, analogie riconducibili a regie più o meno simili. Su quelle bisognerebbe indagare di più
Si parla di un suo prossimo imminente lavoro che conterrà non poche novità su quelle vicende. Può darci qualche anticipazione?
Dopo anni di ricerche, una fonte ha iniziato a sgorgare. Speriamo che sia abbondante. E che nascano buoni frutti...
Licio Gelli, altro personaggio emblematico della nostra storia, si è fatto intervistare ieri da Marco Dolcetta de Il Tempo (leggi). Sembra che la notizia vera sia che la Sony sta producendo un film per raccontare la vita del Maestro Venerabile. Le sue parole sarebbero passate sostanzialmente inosservate se non fosse stato per un fugace riferimento alla possibilità che Moro sia stato tenuto prigioniero in altre prigioni oltre quella di via Montalcini:
«Della prigione di Moro, il covo di via Montalcini, sono convinto sia stata utilizzata solo in una fase. È ingenuo pensare che l'ostaggio sia stato tenuto lì tutti e 55 i giorni. Forse gli stessi interrogatori, quelli alla base del Memoriale, si erano tenuti altrove»
La notizia è stata ripresa in quanto, ovviamente, colpisce su un aspetto (quello dei misteri o presunti tali sul caso Moro) che è materia di indagine e "business" per molti.
Sulla credibilità del Maestro, almeno nelle sue uscite pubbliche, permettetemi di avanzare qualche riserva. Il personaggio ha sempre misurato le sue parole, ha sempre agito ad un livello diverso rispetto alla dimensione pubblica. Si può dubitare che quello che dice sia mosso dalla verità in senso assoluto e non ad un mero calcolo di interessi?
Nella stessa intervista Gelli sostiene che la P2 non ha avuto alcun ruolo nella morte di Moro. Infatti:
«Non era la P2 a inquinare il Viminale: il comitato tecnico operativo presieduto da Cossiga era fatto di professionisti qualificatissimi e per questo si era ritrovato composto in buona parte di persone che erano nella loggia. Senza neppure - ne sono certo - sapere l'uno dell'altro, fatta salva qualche piccola eccezione. Spesso risultavano anche in contrasto tra loro [...]»
e del resto:
«Nessuno era tenuto a farmi rapporto. Certo mentirei se sostenessi che non chiedevo quali fossero le novità sul caso. Ma nessuno sapeva nulla di rilevante. Posso garantire che anche le persone più in alto brancolavano nel buio»
Quindi la "verità" di Gelli sarebbe. La P2 era un organo autonomo dal Governo, le persone agivano a titolo personale ed in assoluta indipendenza. Non era la P2 a depistare ma le istituzioni a brancolare nel buio.
Però, dalle informazioni in suo possesso, Gelli può ugualmente ritenere che Moro non sia stato in una sola prigione per tutti i 55 giorni.
Può darsi, intendiamoci. Anzi, è altamente probabile. Ma non perché lo abbia detto Gelli ma perché ci sono degli indizi che potrebbero avvalorare questa ipotesi. Cosa cambierebbe è tutto da scoprire, magari nulla o magari tutto. Ma questo è un altro discorso.
Il fatto è che se si considera attendibile questa affermazione di Gelli, si deve considerare attendibile anche il resto del suo ragionamento. Non si può andare a convenienza. E il resto del ragionamento smentisce clamorosamente coloro che ipotizzano un ruolo fondamentale della P2 in tutta la vicenda Moro, compreso il suo sequestro. Delle due l'una. O Gelli è attendibile, o no.
Se non è attendibile, limitiamoci a prendere le sue parole come opinioni. Non come un documento storico...
Come trasformare una tragedia come quella degli anni ’70 in Italia in una farsa o, scadendo ancora più in basso, in una telenovela da sfigata emittente di provincia?
Un serio tentativo in tal senso lo stanno portando avanti due personaggi davvero singolari: Patrizio Peci, noto pentito delle Br che in una democrazia normale si sarebbe dovuto portare sul groppone alcuni ergastoli ma che in un’intervista su Repubblica ribadisce l’autenticità del suo percorso e del suo dolore come vittima del suo stesso male (ci auguriamo che in questo suo tentativo non rivendichi a breve la presidenza di qualche associazione dei familiari delle vittime del terrorismo…) ed Angelo Incandela ex Maresciallo, capo delle guardie del carcere speciale di Cuneo che sopravvalutando le sue qualità si è definito “agli ordini del generale Dalla Chiesa” anche se del mitico nucleo di Dalla Chiesa magari avrà solamente visto una foto di gruppo prima che, nel 2008, venisse arrestato per scambio di favori con funzionari di alto livello sia pubblici che privati.
Insomma, personcine trasparenti e per bene, che hanno tutto il diritto di venirci a raccontare la propria morale.
Una prima intervista di Silvana Mazzocchi su Repubblica ha portato l’Incandela a non dover essere da meno dell’ex brigatista per precisare che i motivi che portarono Peci al pentimento furono molto più dipendenti dal richiamo della “gola” che “dell’anima”. E Peci, ovviamente, non ha ritenuto di dover stare zitto e sulle pagine de “Il Giornale” ha accusato Incandela di essere ancora a caccia di onori e gloria, di soffrire di delirio di onnipotenza, di essere un “boia” senza scrupoli, di non avere alcun merito del suo pentimento. E’ stato solo il postino di una sua richiesta spontanea! (leggi)
La risposta di Incandela, manco a dirlo, non si è fatta attendere. (leggi) Ma come? Se sono stato io a suggerirti che persone molto in alto ti avrebbero potuto aiutare? Ma come? Dimentichi le liste della spesa che un meticoloso appuntato compilava per soddisfare i tuoi desideri? Io un semplice latore di messaggi tuoi verso Dalla Chiesa? Ma come, se all’inizio con il Generale non volevi neanche parlarci? Il mio carcere? Non c’entra nulla con il mio servizio precedente.
E poi, forse ingenuamente forse per calcolo preciso, Incandela si lascia scappare un monito: “Ci sono anche delle bobine - consegnate ai servizi segreti, con i colloqui registrati a tua insaputa - che confermano la mia versione dei fatti.” Eccolo la il bandolo della matassa. Attento Peci, le prove sono ancora li! Bene. Sarebbe interessante acquisire il contenuto di quei nastri, non vi pare? Chissà che non abbia ragione Giorgio Guidelli giornalista de Il resto del Carlino che nell’intervista rilasciata al Blog (leggi) ha coraggiosamente ipotizzato che sulla reale storia del pentimento di Peci “ci sia molto di più. E che quel di più, chi sapeva, se lo sia portato nella tomba”. Se dalla tomba non è più possibile parlare, la voce incisa su un nastro può ancora far male…
Adesso manca la contro risposta di Peci: “Ah, si? E tua sorella?”
Possiamo dire tutti in coro: e chissenefrega!!!! A noi interessa la verità ed è per questo che quei nastri non verranno mai fuori.
Un attento lettore, Federico Bacci, mi segnala un'intervista all'Emerito Francesco Cossiga che potete ascoltare in audio qui sotto
Dire che c'è da restare allibiti è poco? A me sembra si tratti di un copione già visto e sperimentato non solo in Italia e non solo 30 anni fa. E forse uno dei motivi per cui molte cose del passato non possono ancora essere svelate è proprio che questi meccanismi sono ancora in atto e perfettamente efficienti...
Leggi l'articolo su Quotidiano Nazionale del 23 ottobre 2008
Per la cronaca: Cossiga si è affrettato anche a smentire. Ecco un lancio ANSA delle 17.21 di oggi:
SCUOLA:COSSIGA,DA MOVIMENTO NIENTE TERRORISMO MA RITIRARE DL ROMA, 24 OTT - «Non dico che da questo confuso 'movimento' possa rinascere il terrorismo, ma qualche misura l'adotterei». Lo afferma il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga in una lettera aperta al direttore del 'Sole 24 ore'. «La maggioranza - sostiene il senatore a vita - dovrebbe ritirare il decreto Gelmini. Non entro nel merito del provvedimento, ma nel vararlo non sono state tenute in considerazione le reazioni ad esso, che il Pdl non è in grado di contrastare. Terrei in caserma carabinieri e polizia: se qualche deputato o senatore della maggioranza sarà bastonato o si darà fuoco a qualche cassonetto, non sarà un gran male, anzi. Forse Walter Veltroni, disimpegnandosi per un momento dalla campagna pro-Obama, penserebbe un pò alla situazione di casa nostra. Da parte sua, il Pd dovrebbe gestire con forte cipiglio e guidare verso sbocchi costruttivi il 'movimento'; ma per potere fare questo, deve essere credibile. E per essere credibile dovrebbe dare alla manifestazione al Circo Massimo un profilo meno legalitario: qualche automobile bruciata, qualche vetrina sfondata. E qualche carabiniere o poliziotto strattonato, certo servirebbero. E se la situazione precipitasse, ci sarebbe sempre la possibilità che il pacifico 'movimentò prendesse a calci Veltroni o Franceschini o Zanda, e forse allora i democratici aggiusterebbero il tiro. Certo, a Veltroni, a Franceschini e a Zanda, vorrei chiedere un favore: ho ottant'anni, mi facciano risentire giovane, inducano qualche loro adepto a urlare sabato prossimo, o lo facciano loro stessi: »Cossiga boia« e »Cossiga assassino«: gliene sarei infinitamente grato».
Stamattina ho dato un’occhiata alla Piccola Posta di DagoSpia tra i pochi siti (se non l’unico) che danno notizie “senza filtro” sulle vicende del nostro decennio dei ’70.
Pochi giorni fa aveva pubblicato un resoconto del dibattito tra Valerio Morucci e i lettori del blog di Claudio Sabelli Fioretti a seguito di un’intervista dell’ex brigatista (leggi) Leggo, allibito, la contro-risposta di un lettore alla domanda conclusiva di Sabelli Fioretti:
Lettera 9 (28/10/2008) Caro D'AGOSTINO, la dichiarazione di Morucci : la Chiesa e le Br (entrambi hanno usato la violenza a fin di bene)... rende finalmente chiaro perché molti di noi ritiene assurdo definire questi scarti del genere invertebrato "ex brigatisti". Questi lo sono ancora, anzi più convinti di prima della giustezza del loro operato. E' stata una follia la clemenza usata nei confronti dei non pentiti e non dissociati. Maggiore durezza doveva essere usata per costringerli a rivelare tutti gli aspetti organizzativi e i nomi di coloro che impartivano gli ordini. Sarebbe anche ora di far conoscere l' "ENTE" di appartenenza di Moretti e Morucci. Sconcertante, in tutto questo, Sabelli Fioretti, quando sul suo blog risponde ad Armando Gasparini, che invocava per morucci &c il sistema usato per la RAF: "stai dicendo che bisognava ammazzarlo in carcere?". La risposta giusta è : non una, ma tante via Fracchia (Genova). Vittorio Pietrosanti
Ho l’impressione che il problema di fondo sia che la maggior parte della gente si ritenga ancora in guerra, viva una condizione di “guerra permanente” nella quale, se non può difendersi dalle ingiustizie cosmiche, se non altro può attaccare chi era il suo vecchio nemico. Per la serie: se non lo hai un nemico vero, è meglio che te lo crei alla svelta, altrimenti contro chi scaglierai la prossima pietra?
Più che un’impressione è una certezza, ormai. Altrimenti come giustificare la squallida vicenda dei film che raccontano quegli anni e del giudizio morale sui loro contenuti? Come giustificare la battaglia personale di autori e produttori che pur di portare avanti i loro prodotti fanno delle proprie ragioni delle “contro-questioni personali”? E come decodificare il dibattito tra chi abbia più diritto di parlare e chi, invece, deve sparire nell’oblio della quotidianità perché “disturba” la memoria di qualcun altro? E “last but not least” perché mai solamente in occasione di elezioni e/o anniversari si tirano in ballo la seduta spiritica di Prodi o di chi sia di competenza l’eredità del pensiero di Aldo Moro?
Quello che mi preoccupa non è l’idiozia o la sommarietà di giudizi come “non una, ma tante via Fracchia” ma il fatto che la classe politica attuale, pur consapevole che questo atteggiamento non porterà il Paese a nulla di buono, resta arroccata sulle divisioni continuando a tirare fuori il peggio da quegli anni.
PS. Caro Pietrosanti, lei che vorrebbe conoscere “l’ENTE di appartenenza di Morucci e Moretti”, quando, tra breve, verrà fuori la verità su una delle vicende chiave della “strategia della tensione” e potrà capire meglio quale sia stato il ruolo delle istituzioni e degli apparati dello Stato, vorrei che la stessa domanda la ponga a chi ha gestito il potere in Italia. Naturalmente, dopo aver chiesto per essi la galera a vita, anche per quelli tutt’ora in circolazione…
Il giudizio sui personaggi che sono stati protagonisti degli anni ’70 sembra essere, in Italia, alquanto relativo e fortemente dipendente dal momento politico e dal personaggio.
Abbiamo già visto come in occasione delle parole di Patrizio Peci (leggi) che si è definito vittima oltre che carnefice, nessuna associazione di vittime del terrorismo abbia avuto il coraggio di alzare un dito. Fermo restando il principio secondo il quale i morti sono tutti uguali ed ogni morto di quegli accadimenti è un morto di troppo, io mi sarei aspettato quanto meno una puntualizzazione che sottolineasse che, forse, la morte di Roberto Peci dovrebbe essere considerata diversamente da quella di Rosario Berardi o di Fulvio Croce.
Se i familiari delle vittime hanno poco spazio sui media e rivendicano la possibilità di poter ribadire i propri punti di vista per tutelare la memoria di chi è stato ucciso mentre serviva lo Stato, brigatisti ed altri ex militanti di lotta armata sono spesso autori di libri, interviste ed ospiti di trasmissioni TV. Su questo non ci trovo nulla di male. Lo trovo, anzi, utile per il Paese e per chi vuole conoscere meglio la storia attraverso le testimonianze personali di chi ha vissuto quel periodo da protagonista. Semmai il problema è dei media e delle leggi di mercato alle quali editori e pubblicitari sono costretti a tenere in conto.
Ma che la storia di un protagonista in negativo di quegli anni come Licio Gelli diventasse prima un film prodotto dal colosso Sony Pictures e poi lo stesso Gelli voce narrante di una trasmissione “cucita” sul suo personaggio tanto da chiamarsi “Venerabile Italia” che racconterà ai telespettatori la storia d'Italia fino agli anni '80, questo davvero non era ancora capitato. A scanso di equivoci il mio giudizio sulla negatività del personaggio Gelli è derivante solo dall’aver collezionato alcune condanne definitive tra le quali
procacciamento di notizie contenenti segreti di Stato
tentativi di depistaggio delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna
Secondo il mio metro di valutazione, si potrebbe parlare sia di attività sovversiva che copertura dei responsabili di una strage.
Di questi tempi, evidentemente, deve essere roba da poco.
Qualcuno potrà dire: “Ma se Gelli al pari di altri protagonisti, ha scontato il proprio conto con la giustizia non può essere considerato un libero cittadino ed in qualità di ciò svolgere le proprie attività senza doverne dare conto alla pubblica opinione?” Verissimo. Salvo il particolare che Gelli, attualmente, si trova agli arresti domiciliari presso la sua residenza di Villa Wanda in provincia di Arezzo dove sta scontando 12 anni per bancarotta fraudolenta (il crac del Banco Ambrosiano).
In pratica è nella stessa situazione di Prospero Gallinari che sconta la sua pena ai domiciliari perché gravemente malato di cuore. Eppure se qualcuno avesse solo proposto l’idea di avvalersi di Gallinari come “voce narrante” di un documentario sulla sua esperienza di brigatista, immagino la valanga di proteste che si sarebbero abbattute. Ma, a pensarci bene, una spiegazione all’occhio di riguardo verso Licio Gelli c’è. Ed è stato proprio lui a fornircela qualche anno fa:
"Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d'autore. La giustizia, la tv, l'ordine pubblico. Ho scritto tutto trent'anni fa" (Intervista a Repubblica del 28/09/2003 leggi).
Si, certo. Deve essere proprio per questo grande contributo che ha fornito al nostro benessere se per lui la legge della morale viene applicata con un metro di giudizio differente.
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