In un’intervista apparsa oggi sul quotidiano “Il Giornale”,
Sabina Rossa (senatrice e figlia del sindacalista
Guido Rossa ucciso dalle Br il 24 gennaio del ’79) si è concessa alcune riflessioni realistiche ed equilibrate sull’attualità legata agli “anni di piombo” che vanno dal comportamento del Presidente francese
Sarkozy sull'estradizione richiesta dall'Italia per
Marina Petrella alla possibilità di concedere la libertà condizionata ad uno degli assassini del padre
Vincenzo Guagliardo.
Una posizione di grande lungimiranza ed un grande esempio di tutela dello Stato di diritto. Un chiare esempio di quale sia la strada da intraprendere se si vuole davvero chiudere con quel passato. Anche se, su alcune posizioni, mi sento di dover "correggere" la senatrice...
Ma procediamo con ordine.
La decisione di Sarkozy di non concedere l’estradizione della Petrella per motivi umanitari ha irritato la senatrice del PD perché il Presidente francese «ha mostrato una sfiducia assoluta nelle nostre istituzioni e nel nostro sistema giudiziario. È grave. […] Davvero qualcuno crede che in Italia le sue condizioni di salute si sarebbero aggravate?».
In linea di massima il ragionamento di Sabina Rossa è corretto. Ma, per dirla tutta, la motivazione addotta dal primo cittadino francese è apparsa ai più come una scusa, una toppa cucita in fretta per acquietare le pressioni che da più parti del Paese transalpino giungevano al Presidente.
A me sembra che la credibilità del nostro sistema Paese (con particolare riferimento alla macchina della giustizia) sia stata messa più volte alla prova ma che si siano sempre adottati più pesi e più misure. Negli anni ’90 sono state molte le richieste che i nostri Governi hanno sporto verso gli
Stati Uniti per ottenere l’estradizione di
Silvia Baraldini. La risposta degli americani è sempre stata “picche” perché pensavano che la Baraldini, con i benefici di legge previsti dal nostro ordinamento, avrebbe fatto poco, quanto niente, carcere. E, quindi, un’accusa molto grave nei confronti del nostro Paese: quella di rischiare di rimettere in circolazione pericolosi terroristi che potrebbero arrecare nuovi danni alla collettività. Nessuno, mi sembra, abbia denunciato che il nostro alleato insinuasse che nel nostro Paese la giustizia fosse “governata” da Pulcinella…
Nel caso dell’Achille Lauro, l’Italia decise di processare il terrorista palestinese perché la nave si trovava sul nostro territorio e
Craxi non concesse agli americani di poter “prelevare” il leader dell’FPLP
George Habbash che gli americani non vedevano come mediatore della vicenda ma come colluso con l’autore del reato.
I maligni ricordano che la realtà delle cose è fatta di compromessi, di scambi...
In relazione al fatto che le ragioni delle vittime degli anni di piombo siano offuscate dalle verità degli ex terroristi Sabina Rossa contesta «“una spettacolarizzazione mediatica che è più interessata agli ex terroristi, perché fanno notizia...[…] Anche la politica spesso ha scelto la scorciatoia della spettacolarizzazione. È comodo, è più facile, crea meno problemi a tutti »
Infatti qui il problema non è tanto quello di stabilire se vi debba essere un “misuratore qualitativo di ragione” negli organi di comunicazione, ma rivedere nel complesso il ruolo dell’organo stesso. Ovvero: informazione o vendite (e quindi audience che vuol dire mercato che porta la pubblicità)?
Nella maggior parte dei casi io non credo che Alberto Franceschini o Valerio Morucci (per fare due nomi a caso) abbiano bussato alle redazioni dei giornali o delle trasmissioni televisive chiedendo di essere intervistati. Credo che sia avvenuto il contrario. E non mi sembra che vi siano stati casi in cui l’ospite abbia offeso la memoria di qualche sua vittima (o della propria organizzazione).
Piuttosto, e ha fatto bene la Rossa a sottolinearlo, in alcuni casi tali situazioni si sono rivelate una grande opportunità per la politica di semplificare la complessità dei problemi che ci portiamo dietro da trent’anni. E da qui al corto-circuito mediatico, il passo è breve.
Sabina Rossa commette, secondo me, un errore quando parla di «ribaltamento della macchina informativa» come passo «necessario per illuminare gli angoli più bui della memoria».
In che senso? Mi aspettavo che criticasse chi produce informazione perché presta attenzione prima agli aspetti di marketing e poi a quelli del “dovere civile”. Ed invece il ribaltamento riguarda, forse, l’ottica con la quale gli ex brigatisti dovrebbero esternare. «Gli ex terroristi non hanno ancora detto tutto. Non dicono la verità. Mantengono volutamente zone d’ombra. […] Perché proteggono ancora qualcuno ».
A questo punto le considerazioni sarebbero davvero tante e se non sono bastati convegni, libri, storici e sociologi a fornire una risposta definitiva alla vicenda, non si illude di poterlo fare il sottoscritto con le proprie capacità limitate sia in termini intellettivi che di spazio.
Per semplificare (perché sempre su un Blog siamo e non possiamo scambiare un post per il capitolo di un libro) direi di procedere per domande. E le vorrei porre alla Senatrice Rossa, e a tutti i politici che hanno la volontà di affrontare criticamente la storia politica di quella che chiamiamo, forse con un eccesso di buonismo verso noi stessi, la Prima Repubblica.
- Siamo sicuri che conoscere militanti che hanno avuto ruoli marginali in azioni irrilevanti per la storia del nostro Paese sia finalizzato alla giustizia e non invece ad una velata ombra di giustizia sommaria che aleggia dietro ciascuno di noi?
- Siamo sicuri che non ci siano in circolazione militanti che hanno avuto ruoli importanti nelle rispettive organizzazioni e che oggi non sono persone di second’ordine della nostra società?
- Siamo sicuri che conoscere i nomi di ex brigatisti sia l’unica via d’uscita o, piuttosto, sia come recitare un Padre Nostro, tre Ave Maria e chi s’è visto s’è visto?
E quindi, la domanda finale che mi pongo io, è quella che da tanti anni storici e ricercatori non legati da un fine politico dovrebbero sollevare per scuotere le coscienze di tutti i cittadini:
siamo davvero sicuri che attraverso la scelta di non parlare gli ex brigatisti tutelino gli ex compagni rimasti illesi dalle inchieste giudiziarie e non invece il ruolo di persone ambigue che avrebbero dovuto combatterli e che invece ne hanno fatto strumento personale di guerra non ortodossa?
Ma come uscire da tutto ciò? La
soluzione sudafricana, invocata da molti, "verità in cambio di impunità" potrebbe essere uno strumento efficace? Sabina Rossa non ha «ancora un’opinione definitiva». Ma di una cosa è certa: «la giustizia è un bene collettivo. Lo dico anche alle vittime come me: non può essere desiderio di vendetta privata» e anche se la maggior parte degli ex brigatisti sono fuori dal carcere « se si sono fatti vent’anni di sangue, per me è una pena congrua. Sono contraria al fine pena mai».
Condividere o meno queste ultime affermazioni non può che essere una scelta personale, ma rappresenta sicuramente la prova della volontà di andarla a cercare, almeno, la verità. Che poi la si possa trovare con il sistema sudafricano, sono scettico. Per un motivo elementare.
Può funzionare solo ad una condizione: che chi ha perso, chi è stato sconfitto dall’avanzare di una scelta democratica si sia fatto da parte e, perseguito dalla parte che ha avuto la meglio, abbia di fronte a sé l’alternativa dell’esilio o della galera a vita. In queste condizioni, quando il taglio con il passato è stato netto, allora è possibile rinunciare ad un legittimo desiderio di “vendetta” in cambio della chiarezza sul proprio passato. E questo serve anche per evitare che tale passato ritorni.
Ma chi parlerebbe di qualcuno che ha “guadato il fiume”, anche se non dovesse subire nessuna conseguenza giudiziaria?
Ed in queste condizioni come accertarsi che si sia detta proprio tutta la verità?