Da molto tempo il dibattito sulla chiusura politica degli anni ’70 sembra essersi concentrato sul decidere chi, tra ex militanti di lotta armata e familiari delle vittime del terrorismo, abbia più diritto a parlare. E, soprattutto, con quali modalità.
Negli ultimi giorni, il rifiuto dell’estradizione dell’ex brigatista
Marina Petrella e la concessione di libertà vigilata concessa dal Tribunale di Sorveglianza all’ex militante dei NAR
Francesca Mambro, hanno riacceso le polemiche e, diciamolo pure, gli slanci demagogici di coloro che, fino al giorno prima, si erano dimenticati che in Italia, 30 anni fa, si sono verificati eventi storici e politici tragici e le cui conseguenze ancora ci portiamo appresso perché nessuno ha mai considerato sul serio l’ipotesi di dover chiudere quel pezzo di storia che ancor oggi divide buona parte del nostro Paese.
E’ opportuno ricordare come ai primi del mese di agosto
Giovanni Berardi, figlio del maresciallo ucciso dalle BR, chiese l’intervento del Ministro della Cultura
Sandro Bondi per impedire che un film che raccontava la nascita delle BR e che vedeva, tra i protagonisti gli ex brigatisti
Franceschini,
Ognibene e
Paroli, non fosse divulgato al grande pubblico in quanto offendeva la memoria delle vittime. Berardi chiedeva anche come fosse possibile che un film del genere fosse stato realizzato con
finanziamenti pubblici.
Il risultato di questo “blitz” è stato triplice: da un lato esporre ad una grande pubblicità il film, da un altro agitare lo spauracchio della censura ed in ultimo, ma più grave, arrivare a preconfigurare un clima da censura preventiva ove qualcuno possa decidere quali film siano “moralmente” degni dei contributi pubblici!
In un’intervista su Il Corriere della Sera del 17 ottobre 2008, un’altra familiare delle vittime delle BR,
Sabina Rossa ha esternato il suo pensiero lanciando una sfida democratica e civile.
Superare il dolore senza per questo dover offendere nessun familiare: sia ridata la libertà all’assassino di mio padre perché 28 anni di carcere sono una pena congrua ed il ravvedimento del condannato è certo.
E cosa succede in questa seconda puntata della stessa telenovela?
Colpo di scena. Questa volta in pochi hanno applaudito ed in molti hanno fatto finta di niente. Eh si, perché stavolta la vittima oltre ad essere vittima è anche Senatrice e pur parlando a titolo personale è pur sempre una del “Palazzo”. E le sue dichiarazioni rimbombano nelle stanze del potere come un ceffone in faccia alla “mercificazione” del dolore che tanto è piaciuta ai media e alla classe politica in occasione del recente trentennale dell’uccisione di Aldo Moro.
Ma nei confronti di una Senatrice, occorre agire con intelligenza. Pur non potendo utilizzare la prima pagina di un giornale o un servizio di apertura al TG di prima serata, la risposta è giunta immediata, strisciante e politicamente dura. Molto dura.
La
RAI aveva prima invitato Sabina Rossa alla trasmissione
Domenica In che dopo molte resistenze, aveva accettato di parlare della sua posizione. Ma la stessa RAI ha poi fatto dietrofront giustificando la sua decisione in base alla circolare che vieta la presenza dei politici nei programmi di intrattenimento.
Ma come? E la partecipazione del Ministro
Renato Brunetta nella puntata del 5 ottobre 2008?
La Commissione di Vigilanza della Rai aveva approvato nel lontano 2003, un documento sulle garanzie del pluralismo nel servizio pubblico ne quale si suggeriva:
“La presenza di esponenti politici nei programmi d’intrattenimento va normalmente evitata e deve - comunque - trovare motivazione nella particolare competenza e responsabilità degli invitati su argomenti trattati nel programma stesso, configurando una finestra informativa”.
Se ne dovrebbe dedurre, pertanto, che Sabina Rossa non mostri “particolare competenza” della materia in questione (in effetti ha solo perso un padre e fatto un’inchiesta che ha portato ad un libro di successo…) e non sia contraddistinta da un senso di responsabilità (come se le sue parole avessero esaltato l’impresa di Guagliardo e che la sua liberazione fosse giustificata da motivazioni politiche…)
Tutto questo è semplicemente ridicolo!
Ma non è finita qui. La presa di posizione pubblica l’ha portata avanti il penalista ed ex Presidente della Camera
Luciano Violante che ha sentenziato: «È una presa di posizione molto rispettabile, però lo Stato può decidere in modo autonomo. Credo sia un pò pesante far decidere la scarcerazione di un condannato per omicidio dai parenti della vittima, si aggraverebbe troppo il peso su di loro»
Ma come? Prima si invoca il ravvedimento e la volontà di aver preso coscienza del proprio errore espiando il proprio pentimento di fronte ai destinatari del dolore provocato chiedendo perdono, poi quando la comprensione si compie questo potrebbe rappresentare un peso troppo grande per le (piccole? deboli?) coscienze dei parenti della vittima?
Mi chiedo cosa ci riesca a capire il cittadino che non segue le vicende. Probabilmente ne avrà tratto un tale senso di confusione che lo avrà portato diritto al disinteresse ed alla semplificazione. E la strumentalizzazione è compiuta!
Patrizio J. Macci del quale potete leggere un "particolare" racconto su via Montalcini (leggi) mi segnala che sempre ieri su Repubblica, sulla fortunata rubrica “
L’Amaca” il giornalista
Michele Serra prova ad “uscire dal coro”: il principio che muove le parole di Sabina Rossa è civile e ragionevole perché si fonda dietro il valore riabilitativo della pena. La dimensione privata del dolore deve essere distinta da quella pubblica della Giustizia. La scelta di Sabina è fuori dalle demagogie.
Ma, caro Serra, purtroppo anche quando la “ragione ha ragione” essa può essere strumentalizzata. E ne abbiamo appena scoperto il meccanismo.
L' AMACA (Repubblica — 17 ottobre 2008)
Beh, ogni tanto capita ancora di imbattersi in uno straccio di motivo per sentirsi orgogliosamente di sinistra. Per esempio le parole e i pensieri di Sabina Rossa, parlamentare del Pd, figlia dell' operaio comunista Guido Rossa ucciso dai brigatisti nel ' 79. Chiede che uno degli assassini del padre venga scarcerato dopo 28 anni di carcere. Lo chiede perché 28 anni sono tanti, e soprattutto perché crede fermamente in un principio molto civile oltre che molto ragionevole: il valore riabilitativo della pena. In più, Sabina Rossa mantiene a debita distanza la delicatissima, privatissima materia del perdono, così spesso oggetto di indecenti traffici mediatici, di chiacchiere mielose, di dibattiti tanto inconsistenti quanto invadenti. La giustizia è ambito pubblico, le emozioni e il dolore ambito privato. La compostezza di Sabina è ammirevole, ma non cade dalle stelle. Proviene da una cultura civile e da una concezione della legge che nel suo caso ha radici familiari. Si riconoscono una misura, un senso di responsabilità, un' assenza di demagogia che sono le migliori virtù democratiche. Tanto è vero che, da qualunque parte le si voglia prendere, le sue parole non possono essere strumentalizzate né dalle vittime né dai carnefici, né dai forcaioli né dai garantisti. Semplicemente: la ragione ogni tanto ha ragione. E riesce a chiudere il cerchio.
MICHELE SERRA