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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Si è parlato molto del libro che il giornalista francese Emmanuel Amara ha scritto sul caso Moro e che è stato pubblicato in Francia lo scorso anno.
Tutti hanno riportato la notizia più importante. O almeno quella che si è sempre ritenuta essere la più importante.
Pieczenik avrebbe ammesso di essere l'ispiratore del falso comunicato n. 7 che annunciava la morte di Moro e di aver deciso che sarebbe stato meglio per tutti se Moro non fosse uscito vivo dalla prigione delle BR.
Affermazioni sconcertanti, non c'è che dire e che da sole varrebbero il prezzo del libro che sta per uscire in Italia.
Ma la notizia più sconcertante che il consulente Steve Pieczenik offre al popolo italiano, secondo me, è un'altra e di tutt'altro spessore per chi è interessato ad approfondire la storia dell'Italia degli anni '70.

Scopriamo cosa ci rivela lo psichiatra americano, consulente personale del Ministro Cossiga nelle prime settimane del rapimento di Aldo Moro:

"Poco dopo il mio arrivo in Italia che mi resi conto del caos che vi regnava, specialmente dopo che Aldo Moro era stato sequestrato. Non passava giorno senza che ci fossero delle manifestazioni. C’erano scioperi continui. E, cosa ancora più grave, si era da poco verificato un chiaro tentativo di colpo di stato organizzato da alcuni esponenti dei servizi segreti e della loggia massonica Propaganda due, la cosiddetta P2"



Scusi, Pieczenik, potrebbe ripetere con calma (magari ci faccia lo spelling) questa sua affermazione? E a lei, Emerito Presidente Cossiga, la notizia è sfuggita? In tal caso, le dispiacerebbe fornire al Paese intero, cortese smentita?
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Proprio oggi, emerge dall'ANSA, un particolare legato all'ormai famosa vicenda della seduta spiritica del 2 aprile '78 dalla quale emerse il nome di Gradoli come possibile luogo di prigionia di Aldo Moro e che diede vita, il successivo 6 aprile, ad una massiccia operazione di polizia nell'omino paese del viterbese tralasciando, invece, la possibilità che vi fosse una via Gradoli nel comune di Roma.
Il Presidente Giovanni Pellegrino nell'audizione del 23 giungo '98 in cui la Commissione Stragi ascoltò il Prof. Alberto Clò (padrone di casa il 2 aprile '78) ricorda perfettamente la spettacolarità dell'episodio:

PRESIDENTE
. Ma il 6 aprile però avrà saputo che si è fatta l'irruzione a Gradoli paese.
CLO’.
Assolutamente no.
PRESIDENTE.
Ne è stata data notizia su tutte le televisioni, ne ho ancora negli occhi le immagini.
CLO’.
Lo seppi quando scoprirono il covo.
PRESIDENTE.
No, mi riferisco al fatto che il 6 aprile la televisione trasmise le immagini dell'irruzione militare nel paese di Gradoli: serbo un ricordo molto preciso, ricordo ancora le tute mimetiche e questo paesetto con le sue casette dove si vedevano gli uomini che entravano con il mitra e facevano una perquisizione; un intero paese fu perquisito. Se qualche collega ritiene che il mio ricordo sia sbagliato, lo dica.

Nessun commissario smentì il Presidente. L'unico dubbio sul suo ricordo è che possa riferirsi al film "Il caso Moro" di Giuseppe Ferrara nel quale, effettivamente, si osserva quanto descritto dal Presidente Pellegrino oppure che Pellegrino abbia potuto vedere, in un momento successivo, immagini di repertorio.

Ora, a distanza di 30 anni, emerge una nuova "verità". Carlo Infanti ha realizzato un fil documentario nel quale ha intervistato gli amministratori locali del paesino Gradoli, in carica nel '78. Il vice sindaco Franco Lorenzoni ha ricordato come "l'unica cosa che si vide furono due posti di blocco nei due bivi di ingresso nel paese. Ma dentro Gradoli non vi fu nessuna ispezione, nè perquisizione. Niente. Le uniche cose che abbiamo saputo, in seguito, è che perquisizioni furono fatte in alcune grotte nelle vicinanze del paese e in casali abbandonati nella campagna, noi non sapevamo niente. Quello che poi è stato fatto successivamente vedere, anche in alcuni film di perquisizioni all'interno del paese sono cose tutte completamente false: non esistono"



Una veduta del paese di Gradoli (VT)

E' davvero incredibile che a tanto tempo di distanza vi siano ancora dubbi su fatti apparentemente scontati come la perquisizione del 6 aprile. Se si trattò di una montatura, ritengo saremmo di fronte ad una cosa molto grave.

Sui giornali del 7 aprile '78, in effetti, non uscì alcuna notizia riguardo l'operazione di rastrellamento. E neanche l'ANSA riportò nulla di simile.
Allora mi chiedo, se più che depistaggio si trattò di un insabbiamento (perché è evidente che, dopo la seduta spiritica, si evitò di tornare in via Gradoli...). L'asse Prodi-Cavina-Zanda Loi che percorse la notizia, evidentemente fu tenuto riservato fino al 18 aprile, quando la scoperta della base di via Gradoli fece emergere anche l'informazione raccolta dal Prof. Prodi. In quel momento, forse, si rese necessario far credere che all'informazione si diede seguito, ma ci si recò nel paesino e non nella via romana.

Se confermato, si tratterebbe di un episodio certamente grave. Non cambierebbe la sostanza delle cose, ma sicuramente la forma. Il depistaggio risulterebbe evidente e non motivato dal fatto che le indicazioni provenienti dalla "seduta spiritica" parlavano di "Gradoli - Bolsena - casa isolata con cantina".
Fu un fatto voluto.

Perché? Per tutelare i brigatisti? Per tutelare le proprietà immobiliari risalenti ai servizi? Oppure per tutelare una trattativa delicata che con una perquisizione in via Gradoli avrebbe potuto interrompersi prematuramente?
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Di Manlio  23/04/2008, in Interviste (4366 letture)
Giuliano Boraso lo abbiamo già ascoltato circa un anno fa in relazione al progetto brigaterosse.org che porta avanti assieme all’amico Tommaso Fera. Nicola Biondo ho avuto il piacere di conoscerlo in occasione della nuova edizione di Vuoto a perdere e le sue riflessioni mi sono state molto utili nel far emergere la controversa vicenda relativa al ruolo di informatore di Ronald Stark.
Sono entrambi profondi conoscitori dei fenomeni eversivi, entrambi hanno pubblicato un libro di peso: Mucchio Selvaggio (Boraso, Castelvecchi 2006), l’unica storia completa di Prima Linea non narrata dal punto di vista dei protagonisti e per questo obiettiva e documentata e Una primavera rosso sangue (Biondo, Edizioni Memoria 1998), un tentativo riuscito di rimettere a posto tutti i documenti emersi sino al momento sul caso Moro per evidenziare come non sia possibile riorganizzare la conoscenza della vicenda per giungere ad una sola chiave interpretativa.
Giuliano e Nicola sono i protagonisti dell’operazione più importante del trentennale del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, una ricorrenza diventata evento di marketing per autori, registi e giornalisti impegnati più a “guardare il dito e non la luna”.
Se non ci fossero stati loro, le loro competenze ed il loro lavoro umile e silenzioso, oggi non avremmo l’importante testimonianza di Steve Pieczenik e staremmo ancora a credere che ad uccidere Aldo Moro siano state la linea della fermezza e la sola volontà dei brigatisti.
Un documento del genere avrebbe provocato un terremoto di interrogazioni parlamentari, richieste di riapertura di indagini, fine di carriere politiche. Se non fosse che in Italia quella storia è in ostaggio di una “cricca di giornalisti e storici che si contano sulle dita di una mano e che determinano l’agenda del dibattito”.
E’ triste, ma è così. Non si può ancora parlare dei comportamenti dello Stato, delle decisioni, delle omissioni, delle trame che, parallelamente al progetto brigatista, hanno fatto si che qualcuno potesse perseguire interessi politici ed economici facendone cadere la responsabilità esclusivamente sulle Brigate Rosse.
Ed è disarmante la risposta che mi ha recentemente fornito un assoluto protagonista (da parte dello Stato) di quelle vicende, solo pochi giorni fa, quando alla mia domanda: “Ma perchè non parli, ormai una serie di cose le abbiamo capite” ha gelidamente risposto “No, non si è capito proprio nulla. Sono passati troppo pochi anni per parlarne...”


1. Ci può raccontare la genesi di questo importante lavoro editoriale?

Boraso: Tutto ha inizio negli ultimi giorni del 2006, quando sul forum del sito che curo insieme a Tommaso Fera, www.brigaterosse.org, un utente che si firma Pino pubblica un messaggio nel quale spiega di aver letto l’edizione francese del libro di Emmanuel Amara (uscito in Francia da un paio di mesi), concludendo il suo post con la domanda: «Che cosa si aspetta a parlarne in Italia?».
A quel punto cominciamo a informarci sul libro. Lavorando per uno studio editoriale, Oblique Studio, sono interessato alla faccenda anche da un punto di vista professionale. Compriamo una copia del libro su www.amazon.fr, lo leggiamo e, dato l’effettivo interesse dei contenuti dell’intervista di Pieczenik, verifichiamo se qualche editore è interessato a pubblicare il libro di Amara. Contatto Nicola Biondo che, oltre a essere un amico, è uno dei più affidabili e competenti esperti del caso Moro. Nei mesi successivi, siamo intorno alla primavera de 2007, l’Unità e il settimanale Left dedicano un paio di articoli al libro che però non ha ancora trovato una sua casa editrice italiana. Sembra incredibile, ma non riusciamo a incontrare l’interesse degli editori italiani. Fino a quando un giorno Nicola mi chiama, dicendomi che la casa editrice Cooper vuole pubblicare il libro. Siamo a dicembre, è passato esattamente un anno dal messaggio di Pino. Tre mesi di lavorazione e Abbiamo ucciso Aldo Moro è in libreria in coincidenza con il trentesimo anniversario del sequestro di Aldo Moro.


2. Quali difficoltà avete incontrato per adattare l’edizione francese al contesto italiano?

Boraso: Innanzitutto difficoltà legate ai tempi di lavorazione, molto stretti. Se pensiamo che i diritti del libro sono stati comprati a fine dicembre, poco prima delle vacanze natalizie, e che tra dicembre e gennaio il libro è stato tradotto da Alice Volpi, curato da Nicola con la realizzazione di un apparato di note fondamentale per il pubblico italiano, editato e impaginato, ci rendiamo conto che essere riusciti a farlo uscire nella prima metà di marzo è stato un bel colpo.
Non dimentichiamo poi che Amara ha scritto un libro per un lettore francese, sicuramente meno competente in materia rispetto al lettore italiano. Il lavoro di Nicola in tal senso è stato di fondamentale importanza: l’apparato di note ha permesso di integrare le informazioni trasmesse da Amara con una serie di acquisizioni documentali e storiografiche successive all’uscita del libro in Francia e indispensabili per il pubblico di lettori italiano.
C’è poi stato un lavoro di verifica della trascrizione delle interviste contenute nel libro, che si basa per gran parte su una serie di testimonianze orali raccolte dall’autore. Amara ci ha fatto avere le registrazioni audio delle interviste. E noi ci siamo preoccupati di verificarne e garantirne la fedeltà, anche in considerazione del fatto che si tratta di un libro tradotto.


3. Pellegrino, nell’introduzione, parla di “lettura nuova e per più profili sconvolgente” dei fatti noti…

Boraso: “Nuova” e “sconvolgente”: Pellegrino non poteva scegliere aggettivi più appropriati. Peccato che sia uno dei pochi a essersene accorto. Sconvolgenti non sono solo le rivelazioni di Pieczenik. Sconvolgente è il fatto che su quel libro non si sia aperto un dibattito, che sia passato praticamente inosservato sui mezzi di comunicazione di massa, salvo rare eccezioni. Sconvolgente è il fatto che in questo paese il dibattito storiografico sul caso Moro e sugli anni di piombo in generale sia monopolio esclusivo di una cricca di giornalisti e storici che si contano sulle dita di una mano e che determinano l’agenda del dibattito, stabilendo ciò che può esserne oggetto e ciò che invece deve esserne escluso.
Per le più svariate ragioni che non sempre hanno a che fare con il valore storico e documentale del contributo in questione.


4. Cosa ritiene abbia portato di nuovo questa intervista nella discussione sul lato oscuro dello Stato nella vicenda Moro?

Boraso: Pieczenik descrive i 55 giorni del sequestro Moro dall’interno del comitato di crisi istituito dal Governo italiano. Racconta, con una lucidità e un pragmatismo tutto americano, come il Governo italiano abbia deliberatamente scelto di sacrificare la vita di Moro per un calcolo politico, per quella che il consulente americano chiama “ragion di Stato”. In sostanza, Pieczenik conferma dalla sua viva voce tutto quello che già sapevamo, ma che nessuno aveva mai avuto il coraggio di mettere nero su bianco o di svelare davanti a una telecamera.
Cosa produce tutto questo nel “dibattito storiografico” in corso? Niente. Zero. Al massimo un’alzata di spalle. Un sorrisetto ironico. Un buffetto. Questo paese è precipitato in un abisso di cinismo e di indifferenza, mali che fino a pochi anni fa erano confinati solo in certi ambienti e che ora sembrano essere invece trasversali e distribuiti ovunque. In occasione dell’anniversario del 16 marzo, Rai Tre ha trasmesso una puntata del programma “Enigma” interamente dedicata al caso Moro durante la quale l’episodio della seduta spiritica dei professori bolognesi è stata definito “verosimile” e all’analista statunitense Edward Luttwak veniva permesso di dire ogni fesseria senza il benché minimo contraddittorio.
Non so quale contributo il libro di Amara abbia portato. Di certo ha confermato che stiamo vivendo un momento storico nauseante.


5. Dal punto di vista delle fonti, quanto può essere ritenuto importante questo documento-intervista?

Biondo: Il lavoro di Amara si basa su una serie di interviste in video: a uomini politici, ad ex brigatisti, a studiosi. È una buona occasione, sia per un lettore esperto che per uno meno aduso a questi argomenti, di farsi un’idea. Non c’è alcun dubbio che l’intervista a Steve Pieczenik è di grande importanza e sostanzia il titolo del libro. Ma in fondo “ad aver ucciso Aldo Moro” hanno concorso in tanti e il libro di Amara riesce, attraverso le voci dei protagonisti, a raccontare questa tragedia italiana. Forse proprio perché si trovavano di fronte a un giornalista straniero, gli intervistati si sono sentiti “più liberi” di scavare nei propri ricordi. Il racconto di Pieczenik entra a pieno titolo nella ricostruzione generale sul caso Moro, ma sopratutto sulle modalità con le quali lo Stato italiano ha combattuto il terrorismo italiano. Che l’inviato americano affermi davanti a una telecamera che Moro doveva morire con le sue rivelazioni è senza dubbio una testimonianza che non può essere licenziata con un’alzata di spalle.


6. Qual è stata la prima impressione nella lettura delle dichiarazioni di Pieczenik?

Biondo: Non sono rimasto sorpreso. Le verità dell’esperto americano sono senza dubbio degne dell’Italia di Machiavelli o di Andreotti o dell’America di Henry Kissinger. La frase che più mi ha colpito è questa: “Moro era disperato e avrebbe sicuramente fatto delle rivelazioni piuttosto importanti ai suoi carcerieri su uomini politici come Andreotti. È in quell’istante preciso che io e Cossiga ci siamo detti che bisognava cominciare a tendere la trappola alle Brigate Rosse. Abbandonare Aldo Moro e fare in modo che muoia con le sue rivelazioni”. Quanto racconta Pieczenik lo avevamo sospettato in molti, altri lo temevano. Io credo che la sua testimonianza andava proposta ai lettori italiani. Mi ha colpito molto vedere nel documentario di Amara il Presidente Cossiga guardare nel televisore del suo studio il viso e la voce del “suo” consulente che raccontava tutto questo.
Peraltro non una delle affermazioni di Pieczenik contrasta con le acquisizioni processuali e documentali, anzi trova piena conferma in esse. Punto primo: altri consulenti del Ministero dell’Interno, nello stesso comitato di Pieczenik affermano che Moro avrebbe dovuto accettare di morire. E’ il caso del professore Vincenzo Cappelletti che in Commissione Stragi ha affermato: “Di fronte a queste inattesissime lettere di Moro, la gente fu colta da un enorme stupore. [...] Io ne ricevetti una profonda delusione morale [...] perché Moro doveva accettare di morire, anche se ovviamente aveva tante ragioni dalla sua parte in quanto era stato rapito; tuttavia, a mio avviso egli avrebbe dovuto accettare di morire. Se erano veri i valori in cui Moro credeva, egli avrebbe dovuto accettare di morire”.
Punto secondo: da tempo è noto che il comunicato del lago della Duchessa non proviene dalle Br. E soprattutto, non è un’operazione fatta a fin di bene, come qualcuno in modo disinvolto afferma. Quel comunicato era una minaccia nei confronti dei brigatisti ma anche nei confronti dell’ostaggio. Basta rileggerlo: l’ideatore di quel volantino fa riferimento ai membri della Baader Meinhof, un gruppo armato tedesco di estrema sinistra, i cui membri sono morti in carcere. Nel 1978 era opinione comune che fossero stati uccisi dalle forze di polizia come rappresaglia dopo che i loro compagni avevano ucciso, dopo averlo sequestrato, il capo della Confidustria tedesca Martin Schleyer. L’autore del volantino accosta la morte violenta dei componenti della Baader Meinhof a quella dei brigatisti che detengono Moro. Nel comunicato si afferma anche che “il corpo di Moro si trova nelle acque limacciose del lago della Duchessa (ecco perché si dichiarava impantanato)”. In una lettera al ministro Cossiga Moro scrive indirizzandosi ai suoi amici della DC “Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose.” Secondo Aldo Moro, il rischio di essere impantanati riguarda i dirigenti della Dc nel momento in cui non si impegnassero nella sua liberazione. Liberazione che, scrive Moro, sarebbe auspicabile “in nome della ragione di Stato, visto che, “io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato”. In questa lettera è Moro a indicare alla Dc le vie di una possibile soluzione al suo rapimento. Chi scrive il falso comunicato manda una risposta direttamente al presidente della Dc: è lui a essere “impantanato”, e non i dirigenti del suo partito. È una risposta chiara, definitiva e minacciosa. Infatti l’esperto americano dice che il suo obiettivo era “lasciare morire Moro con le sue rivelazioni”.
Terzo punto: è un fatto che gli scritti di Moro sono stati amputati dagli stessi brigatisti e poi da chi li ha trovati la prima volta. La versione del memoriale che viene ritrovata solo nel 1990 risulta in alcuni punti ancora incompleta. E anche su questo punto i fatti confermano quanto dice Pieczenik: le rivelazioni di Moro dovevano essere oscurate. Quarto e ultimo punto: vi furono trattative, dice Pieczenik, con l’obiettivo di intrappolare le Br e costringerle a uccidere l’ostaggio. Nel comunicato numero 4 del 10 aprile le Br scrivono: “Denunciamo come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime di far credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti.”
Servono altre conferme? Secondo me sì, l’americano dice anche molte altre cose ma sui punti fondamentali, la versione di Pieczenik si incastra perfettamente con i dati di fatto ormai acquisiti.


7. Cosa, secondo lei, Pieczenik avrebbe potuto aggiungere al suo racconto?

Biondo: Sicuramente molte altre cose. Pieczenik racconta che per raggiungere il suo obiettivo venne deciso di far venir fuori un falso volantino brigatista. Ciò avvenne il 18 aprile del 1978 con il comunicato numero 7 che indicava in uno sperduto lago dell’Abruzzo il luogo dove si trovava il corpo del Presidente della DC. Fu una trappola, dice Pieczenik, che aggiunge che a quel punto le Br non potevano fare altro che ucciderlo. Ecco, io credo che la versione di Pieczenik non spiega molte cose. Come poteva immaginare che le Br solo in virtù di quel comunicato avrebbero ucciso Moro e blindato le sue rivelazioni? Io sono dell’idea che la scoperta del covo di via Gradoli, ad esempio, è un’altra delle “trappole”. Lo stato ha agito con l’obiettivo fissato da Pieczenik: far morire Moro e le sue rivelazioni. Per fare questo ha intrappolato le Br con una serie di escamotage, tipo quello del falso comunicato numero 7. E probabilmente con altre operazioni di accerchiamento. Con buona pace di autorevoli commentatori i fatti dimostrano che l’allagamento che porta alla scoperta del covo di via Gradoli fu di natura dolosa. Le foto scattate dalla polizia all’interno del covo non dimostrano nulla se non l’insipienza di chi vorrebbe utilizzarle per dimostrare il contrario. La testimonianza della prima persona che entra nel covo, il vigile del fuoco Leonardi, dimostra che quell’allagamento fu doloso. Nel libro di Amara, cito in nota il verbale del suo interrogatorio al processo Moro in cui si legge:
“PRESIDENTE Questa doccia come era tenuta?
LEONARDI Su un manico di scopa.
PRESIDENTE Il rubinetto era aperto o guasto?
LEONARDI Era aperto. Noi lo abbiamo chiuso. Siamo stati chiamati dall’appartamento di sotto perché quest’acqua filtrava nel muro.
PRESIDENTE Questo per noi ha una certa importanza. Lei ha trovato, quando è entrato, il rubinetto della doccia aperto. Questa doccia era trattenuta da un manico di scopa e l’acqua filtrava dal rubinetto della doccia attraverso una fessura del muro?
LEONARDI Sì.
PRESIDENTE Lo scarico della vasca era aperto?
LEONARDI Sì.
PRESIDENTE Ora le farò vedere le foto, sono i rilievi della polizia. La mia domanda è semplice: se la doccia fosse rimasta in posizione normale, avrebbe scaricato nella vasca? Non era otturato lo scarico?
LEONARDI No, l’acqua defluiva.
PRESIDENTE La particolarità era che invece di defluire nello scarico defluiva sul muro?
LEONARDI Esatto.
PRESIDENTE Nella vasca da bagno, di solito, la doccia è agganciata. Questo gancio c’era?
LEONARDI La doccia, praticamente, era agganciata su un manico di scopa messo di traverso dentro la vasca.
PRESIDENTE Era possibile appenderla al muro, al posto suo?
LEONARDI Certo.
PRESIDENTE Queste sono le foto scattate dopo l’intervento della polizia. Questa è la vasca da bagno. Ci dica la posizione della doccia quando lei è entrato.
LEONARDI La scopa stava di traverso e la doccia vi stava appoggiata sopra e dava verso il muro.
PRESIDENTE Il buco sul muro era evidente?
LEONARDI Si vedeva uno spacchetto […].
PRESIDENTE Fu lei a rimettere la doccia al suo posto e a chiudere il rubinetto?
LEONARDI Sì.

Leonardi peraltro trova una casa sottosopra: armi e munizioni buttate su un letto, documenti in bianco e volantini Br sparsi per l’appartamento, due bombe a mano per terra. Se non ci fosse stato tutto questo, il covo Br non l’avremmo mai scoperto come tale e Mario Moretti, forse, sarebbe ritornato lì e avrebbe trovato l’amministratore del condominio che gli comunicava l’allagamento del bagno. E invece quel disordine era funzionale a bruciare quel covo che peraltro, come è noto, era stato segnalato almeno un paio di volte alle forze dell’ordine, per tacere della famosa seduta spiritica che porta la polizia nel paesino di Gradoli e non in una via della città dove era stato compiuto il rapimento. Nello stesso giorno in cui viene “scoperto” il covo, fa la sua comparsa il volantino ideato da Pieczenik: le Br sono di fatto accerchiate. Non per niente Patrizio Peci, tra gli altri, affermerà che le Br avevano accelerato la decisione di uccidere Moro perché temevano di essere scoperte.
I fatti sono chiari: qualcuno il 18 aprile 1978 si spaccia per brigatista e contemporaneamente l’appartamento dove abita Moretti viene fatto scoprire. Sarebbe interessante se Moretti ci dicesse se le condizioni in cui ha lasciato il suo appartamento la mattina del 18 aprile sono le stesse che vede non appena entra il vigile Leonardi, così da poter capire chi ha messo in piedi quella sceneggiata. Ma a lui non importa nulla: ormai è un uomo libero, con una nuova vita e soprattutto è rimasto vivo.


8. Conferme, sulle dichiarazioni di Pieczenik, non ce ne sono state, ma neanche smentite categoriche. Come mai le dichiarazioni sono apparse sui quotidiani senza scalfire alcunché? O si è trattato di “calma apparente”?

Biondo: Sinceramente non lo so. Per esperienza personale, posso dire che le dinamiche dei mass media mi risultano spesso oscure. Credo che il racconto di Pieczenik abbia creato qualche imbarazzo. Insomma, un cittadino americano, consulente del dipartimento di Stato, che dirige la prima unità di analisi antiterrorismo voluta da Henry Kissinger, che viene chiamato ad affrontare la crisi del sequestro, che ha sempre rifiutato di tornare in Italia a raccontare la sua versione dei fatti e che poi, a distanza di 30 anni dice queste cose, immagino abbia fatto imbestialire tanta gente. Ma non i diretti protagonisti, chiariamo bene. I presidenti Cossiga e Andreotti, i brigatisti implicati nel sequestro, sono uomini di mondo, conoscono le regole del gioco: “Mai rispondere ad una dichiarazione che fin dall’inizio li mette in difficoltà”. Ho avuto modo di confrontarmi pubblicamente con l’ex-sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (con delega ai servizi segreti) Franco Mazzola. Lui giura di non aver mai sentito dire nei giorni del sequestro che c’era l’idea di tirare fuori un falso comunicato e che nell’unica volta in cui ha visto Pieczenik questi non ha mai detto una cosa simile. Mazzola afferma questo anche sulla base di un appunto di una riunione avvenuta l’11 aprile 1978. Mazzola non è un ingenuo e sa benissimo che una decisione simile, come quella di un falso comunicato di quel tipo, non si mette a verbale e che meno persone ne sono a conoscenza meglio è.
Io credo di aver fatto solo il mio dovere, con l’aiuto fondamentale di Giuliano Boraso: proporre questo libro a un editore italiano, Cooper, che a sua volta, con grande intelligenza e professionalità, ha fatto il suo dovere e cioè pubblicarlo dopo le necessarie verifiche. Il resto, tutto il resto, non mi interessa.
Non credo che il Presidente Cossiga abbia mandato a morte il suo amico Aldo Moro a cui era umanamente legatissimo. Ma è indubbio che conosce i retroscena dell’operazione del lago della Duchessa. Io credo che sia rimasto stritolato dalle indicazioni di Pieczenik che altri hanno avallato e a cui lui non ha saputo opporsi. Spesso l’uomo di Stato Francesco Cossiga ha smesso i suoi panni per difendere con estrema forza, a torto o ragione, le sue posizioni e i suoi convincimenti avvicinandosi così alle passioni dei semplici cittadini. Sarebbe davvero importante se lo facesse anche stavolta, se riuscisse a lasciare nel suo testamento politico la verità su chi, insieme a Steve Pieczenik, ha deciso freddamente che “Moro doveva morire con le sue rivelazioni”. Solo lui, credo, ha la forza di poterlo fare.
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Il Sussidiario.net, intervista a Francesco Cossiga (02/05/2008)

La peculiarità del Sessantotto italiano, come notano diversi osservatori del fenomeno, è quella di essere durata un decennio. E il tramonto di quel decennio coincide con l’alba tragica degli anni bui della lotta armata. I violenti scontri del ’77, prima, e poi l’evento culmine degli “anni di piombo”: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.
Uno dei protagonisti indiscussi di quegli anni è Francesco Cossiga; o, meglio, “Kossiga”, con doppia esse in stile gotico (a richiamare le SS naziste). Così, infatti, figurava sui muri il nome dell’allora ministro degli Interni, dopo la repressione dei fatti di Bologna del 1977, quando negli scontri tra polizia e manifestanti perse la vita il militante di Lotta Continua Pierfrancesco Lorusso (gli scontri, vale la pena ricordarlo, furono generati dal tentativo, da parte di Autonomia Operaia, di interrompere un convegno organizzato dagli studenti Comunione e Liberazione; in seguito alla repressione, gli stessi “ciellini” furono fatti oggetto di una serie di minacce e attentati). L’anno successivo, poi, i 55 giorni del caso Moro; Francesco Cossiga era ancora ministro, e, dopo l’uccisione di Moro, rassegnò le dimissioni.
Allo stesso Cossiga ilsussidiario.net ha chiesto di riportare per un istante lo sguardo su quegli anni.

Presidente Cossiga, guardiamo al passaggio dal Sessantotto alla lotta armata: quali sono gli elementi di continuità e quali invece gli elementi di rottura? Il ’68, cioè, si evolve naturalmente in violenza (perché ideale già violento all’origine) o c’è stata in mezzo una frattura?

Certamente c’è stata una frattura, perché solo una minima parte dei teorici e dei protagonisti del Sessantotto si è data poi alla lotta armata. Ma c’è anche un elemento di continuità: da una parte la “violenza” faceva parte della cultura del Sessantotto, almeno la “violenza” teorica contro il potere, contro le convenzioni, contro l’“autoritarismo” che veniva esercitato in diversi ambiti: nella società, nello Stato, nella scuola, nella famiglia e anche, per le frange cattoliche, nella Chiesa.

Lei ha dovuto gestire in prima persona il problema della violenza di quegli anni: ritiene la sua una posizione privilegiata o di svantaggio per capire il fenomeno?

Mi sono certamente trovato in una posizione che definirei tragicamente privilegiata



Cosa riafferma di ciò che ha fatto politicamente per arginare il fenomeno terroristico di quegli anni? Cosa invece rinnega, o non rifarebbe se tornasse indietro?

Credo di essermi comportato in fedeltà allo Stato e alla morale, e farei anche oggi le scelte che ho fatto allora. Mi è rimasta però una domanda, riguardo ai provvedimenti adottati in quegli anni: la dura repressione dei movimenti dell’Autonomia, culminati nella “rioccupazione” di Bologna del 1977 e nel fallimento del “convegno contro la repressione”, considerato che si trattava di movimenti che certo usavano la violenza ma non nelle forme e con l’intensità del terrorismo di sinistra, non può aver spinto gli stessi militanti dell’Autonomia verso la lotta armata?

Avere la responsabilità che lei ha avuto nel periodo più buio della storia della Repubblica è un peso difficilmente immaginabile per chi non l’ha vissuto: che cosa l’ha sorretta in questo? E soprattutto che cosa l’ha sorretta dopo la tragica capitolazione del rapimento Moro?

Anzitutto mi ha sorretto la volontà di servire lo Stato in solidarietà con i “ragazzi” delle forze dell’ordine e nel rispetto dei caduti e del dolore delle famiglie e la volontà di operare perché tutto avesse fine: e ciò secondo una coscienza formata religiosamente dalla Fede e laicamente dal “patriottismo repubblicano”. La morte di Moro, poi, l’ho vissuta come una mia sconfitta, ed anche come la dolorosa conseguenza di una scelta tragica, ma necessaria.

Che cosa ci portiamo ancora addosso di quegli anni?

Il dolore per i caduti e le famiglie offese, insieme anche al dolore per i militanti della lotta armata, che hanno gettato via la loro giovinezza.
E, infine, la mancata risposta alla domanda: «Perché è successo?»
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Di Manlio  14/05/2008, in Attualità (6318 letture)

Venerdi 9 maggio, in concomitanza con il trentesimo anniversario dell’uccisione di Aldo Moro e della prima giornata nazionale a memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, il settimanale “Panorama” ha pubblicato un’intervista esclusiva a Luigi Cardullo, ex direttore del super carcere dell’Asinara.
Cardullo fa riferimento alle intercettazioni ambientali che il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva chiesto di effettuare per ascoltare i brigatisti detenuti nelle loro conversazioni all’interno degli spazi comuni.
Sebbene di queste intercettazioni ne sia venuta alla luce una sola (leggi il rapporto della DIGOS) che l’ex Direttore attribuisce ai brigatisti Naria e Fantazzini (?), Cardullo parla di un lungo periodo di ascolto durato dalla metà del ’78 alla fine del 1980, data in cui lasciò il carcere. Poco dopo cominciarono le sue grane giudiziarie finendo sotto inchiesta e condannato a 5 anni per corruzione e truffa, accuse dalle quali egli ha sempre proclamato la sua innocenza.

Le intercettazioni, chieste dal Generale Dalla Chiesa e dai capi dei servizi Grassini e Santovito, hanno dato la possibilità a Cardullo di venire a conoscenza di tre personaggi che erano in contatto con i vertici brigatisti ma che non sarebbero mai stati sfiorati da nessuna indagine. Questo, sottolinea Cardullo, nonostante delle informazioni raccolte furono informati sia Dalla Chiesa che i capi dei servizi.
       
Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giuseppe Santovito

Cardullo non si è preso la responsabilità di fare i nomi di questi personaggi ma ha fornito un identikit che solo avendo i paraocchi non è possibile collegare alle rispettive persone. Queste le descrizioni dettagliate che Cardullo ha riportato a Giovanni Fasanella.
Un senatore del PCI detto “il vecio”, deputato nel ’58 e senatore nel ’63, partigiano, dirigente internazionale del Soccorso Rosso. Una donna di cultura detta “la zia”, dirigente del Soccorso Rosso italiano, donna di cultura molto in vista. Un alto ed insospettabile magistrato che lavorava al Ministero della Giustizia nella stessa stanza del giudice D’Urso che fu assassinato in un paese arabo e la cui vicenda fu archiviata.

Questa intervista ci pone di fronte ad una serie di problemi.
L’ovvietà sta nel fatto che qualcuno potrebbe essere tentato di iniziare la già vista crociata contro il culturame e gli intellettuali additandoli come causa e fattore di sviluppo del fenomeno della lotta armata nel nostro Paese. Mi sembra talmente banale che le BR avessero dei referenti molto in alto che sarei tentato di non perdere tempo ed andare oltre. Ma vi sembra che un’organizzazione che ambisce a fare la rivoluzione “costruisca la presa del potere” sull’operaio Cipputi e non si preoccupi di infiltrarsi nei Palazzi del Potere per costruire la propria rete di supporto?
E non mi scandalizza che delle persone che ricoprivano cariche importanti nello Stato (poche o molte, questo non sono in grado di stimarlo) abbiano potuto ritenere di appoggiare il progetto brigatista. Sicuramente non più di quanto mi possa indignare il fatto che, è questo è appurato e ampiamente documentato, altri personaggi chiave della nostra democrazia abbiano lavorato per conto di interessi ben diversi da quelli per cui hanno prestato giuramento (alludo ai vari depistaggi, alla massoneria, alla Gladio all’estero, ecc.).

Gli elementi più importanti che, secondo me, emergono dall’intervista sono almeno due.

In primo luogo, è giusto che un’intervista possa articolarsi sulla tecnica dell’indovinello facendo si che ad affermazioni così gravi non corrisponda un equivalente livello di assunzione di responsabilità? Sono certo che Fasanella abbia chiesto a Cardullo i nomi e tenderei ad escludere il fatto che l’ex Direttore non li abbia fatti in sede privata. Ma a questo punto è anche lecito chiedersi a cosa sia realmente servita questa intervista se non ad alzare l’ennesimo polverone che non contribuirà ad aggiungere chiarezza ma a scatenare nuove polemiche...
Per il momento nessuno ha ripreso la notizia. Non mi risulta che qualche giornale o qualche blog si sia espresso in merito.

In secondo luogo, la chiave per leggere la vicenda credo sia da ricercarsi nella frase “erano a conoscenza...”.
Se è vero che all’epoca l’antiterrorismo (e quindi Dalla Chiesa) aveva “pieni poteri” e quindi l’obbligo di riportare esclusivamente al Presidente del Consiglio e la stessa logica valeva per i servizi, ci chiediamo: “L’informazione non fu trasmessa o fu bloccata ai livelli più alti?”. E di conseguenza: “L’informazione non fu utilizzata perché qualcun altro era a sua volta filobrigatista o perché costoro non avevano interesse a scavare e risalire a certi livelli?”.

Cominciano a delinearsi scenari di cui si è sempre sospettata l'esistenza ma che sono sempre stati affrontati con troppa leggerezza, avvolgendo le responsabilità degli uomini di Stato dentro la facile coperta della "deviazione" o della "fermezza".
Per giustificare e per sotterrare.
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Di Manlio  15/05/2008, in Pensieri liberi (6362 letture)
Ricevo e pubblico con molto piacere, questo articolo di un lettore che ha provato a ripercorrere lo spazio e la memoria tornando, dopo 30 anni, in via Montalcini.

Via Montalcini 8, Roma

di Patrizio J. Macci

Parto da una strada che si chiama Via Roma Libera, ai piedi della collina di Monteverde. Ho appena lasciato il caos di Trastevere e le sue strade sudice di vita. L'autobus che mi accompagna è uno scassone della Linea 44. Arranca, sgassa, sembra non farcela, poi sterza violentemente a sinistra ed imbocca la salita di Via Dandolo; è un nome che mi piace perchè rotola in bocca come una caramella e spazza via la polvere di Porta Portese. Comincio a immaginare quello che c'era trent'anni fa. Un mese fa sono venuto con un'amica architetto, laureata con una tesi sulla storia di questo quartiere. E' stata rassicurante: "Guarda, a parte gli edifici che avevano le facciate pulite (!) e le automobili decuplicate, il resto è tale e quale!!!".
Sembra di stare a S. Francisco: curve e saliscendi "a strappo", ville con giardini patronali e palazzotti della borghesia romana. Targhe ottonate scintillano sui portoni : avvocati, commercialisti, un notaio recentemente decaduto nelle cronache, un chirurgo estetico in voga. Consulto il block notes e rifletto su come abbiano potuto trasportare il corpo, senza vita e crivellato dai colpi d'arma da fuoco, nel portabagagli di una Renault 4 evitando sballottamenti e perdite di sangue: il mio lapis non riesce a scrivere di seguito per cinque secondi, eppure l'autobus procede e frena lentamente per raccogliere una piccola folla di studenti. Sono stranieri, inglesi o meglio americani, urlano e si lanciano appuntamenti serali. [continua a leggere]
E' rimasto un pertugio per sbirciare dal vetro la vettura è stracolma. Indovino il muso fascista del Palazzone delle Case Popolari, questo c'era eccome! Dominava dall'alto e se allungavi il collo potevi vedere il ferrobedò di Pasolini e il figlio di Tommaso che correva verso il Tevere.
Sciamano via tutti insieme come sono arrivati, appena superiamo uno splendido parco del quale non memorizzo il nome. Penso che loro no non c'erano, non erano ancora nati.
Siamo arrivati alla prima base della collina, c'è il Teatro Vascello e chissà che programmava in quei giorni maledetti. L'autobus si arresta completamente, il conducente impreca: la cosa è grave. C'è un tamponamento, una moto ed il centauro riversi a terra: si attendono soccorsi. Impossibile procedere o andare indietro. Impazzano i clacson, le sirene cominciano a ululare, salgono dall'ospedale S. Camillo.
Ne approfitto per scendere, siamo fermi proprio all'angolo con una stradina che affaccia su due ville vagamente anni settanta. Mi affaccio ed è tutto finito: un fazzoletto di giardino, due bambini un pallone da calcio ed un gatto. Sono lontano mille miglia da Roma e dalle Brigate Rosse.
Cristina è nata dopo il 9 maggio 1978, però forse i suoi genitori si conoscevano, avevano gia cominciato a "fare l'amore". Mi ha detto che lo chiederà alla madre appena sarà a casa, ride divertita: l'idea la intriga assai. Di Moro conosce poco, che è molto di più di quello che la maggior parte dei ventenni impareranno mai.
Ho accettato di portarla, ha una borsa piena di obiettivi e macchinette fotografiche digitali. Mi ha convinto: "prendiamo qualche istantanea" ha detto, pixel spalmati su un monitor evocheranno fantasmi e demoni nascosti dalle probabili ristrutturazioni estetiche.
Incrociamo Piazza S. Giovanni di Dio, ci sono i binari del tram come allora, l'autobus sobbalza e chissà come si sono guardati in faccia i due terroristi se davvero l'hanno attraversata: il pensiero corre all'uomo nel bagagliaio, l'adrenalina che sale mentre la mano stringe la calibro 9 che è fredda maledettamente gelida, anche se siamo a maggio ed è gia esplosa l’estate.
Sale un uomo col borsello accessorio maschile in voga negli anni '70, questo potrebbe essere arrivato con la sua macchina del tempo ed aver parcheggiato nelle strisce blu dopo aver esposto il tagliando orario. Ci avviciniamo, siamo su Via dei Colli Portuensi i negozi si diradano scorgo in uno squarcio il Gazometro lontanissimo, Viale Marconi con le banche comode per essere rapinate una dietro l'altra, la Banda della Magliana aveva intuito. Improvvisamente spariscono i negozi e ci sono solo abitazioni, palazzi senza nessuno spazio commerciale, la corsia stradale si restringe c'è uno spartitraffico con la terra e qualche ciuffo d'erba che ce la mette tutta per uscire fuori. Consulto l'orologio, è quasi mezzoggiorno. A quest'ora Aldo Moro è gia fantasma.
Siamo rimasti noi due e il conducente, la mia fotografa cerca disperatamente qualcosa che non trova dentro la sua borsa da Mary Poppins. Mi sono distratto e l'autobus piega violentemente a destra, altri due secondi ed avremmo buttato giu il muro e la targa di marmo con scritto Via Camillo Montalcini. Frena, ci lascia sul piazzale, l’autista scende e corre ad accendere la sigaretta che stringeva fra le mani da almeno un quarto d'ora. Chissà se il capolinea era proprio qui?? Poi penso no, non c'era e recito a mente dal “Manuale del perfetto brigatista, norme di sicurezza e stile di lavoro”:
(...) la casa deve essere scelta con particolare cura: la STRADA deve prestarsi ad un facile controllo da parte del militante e ad un controllo scoperto da parte del potere; cioè possibilmente non deve essere vicina a bar, luoghi pubblici di vario genere: negozi, istituti, magazzini, fermate d'autobus ecc."
La villa pubblica prospicente ha il parco che degrada verso la Portuense. E’ riportata nei giornali dell'epoca come “prato con sterpaglie”, ma era gia Villa Bonelli.
L'atmosfera è sospesa, sembra di essere a Catania. Un Tomasi di Lampedusa, annoiato e vestito di bianco, potrebbe vergare il suo diario seduto su un divano di vimini. Il traffico di Roma è un rombo lontano che posso scorgere dall'alto se strizzo gli occhi.
Il carcere del popolo è rimasto quello che abbiamo scrutato su fotoingrandimenti e vecchi documentari televisivi. C'è un muraglione che protegge il giardino, arriva fino al marciapiede. Una carrucola al secondo piano ed una corda che penzola, operai romeni portano via i calcinacci da un appartamento. Tutta la costruzione è una fortezza minacciosa in cima ad una montagna. Si intravedono le sbarre alla porta finestra che conduce in giardino.
L’appartamento ha un soggiorno spazioso ed illuminato, facciamo qualche scatto con il palazzo come sfondo. Sono stanco e contrariato mi sembra che non ci sia assolutamente altro da vedere, nulla che non sia stato scritto verbalizzato e digitalizzato. Cristina si muove rapida: avvita uno zoom, qualcuno dall'ultimo piano fa gestacci. L'anniversario ha reso la strada troppo celebre e oggi non siamo i primi a curiosare.
Seguo il muro dell’edificio abbracciandolo, sono praticamente a pochi centimetri dalla casa: se con un pugno potessi bucare la parete entrerei nella prigione di Moro, nella stanza del Presidente. Trevirgolaventiquattro metri quadri sono uno spazio troppo piccolo per uscirne senza i segni che l’anatomopatologo ha cercato invano. Rifletto sconsolato che i terroristi hanno mentito anche su questo.
Forse il Prigioniero non ha scorto la luce che filtrava dalla porta a vetri del giardino ma ha visto la finestra, l'unica che si affaccia a sud dove mani intelligenti hanno collocato una scrivania, c’è un libro aperto. Riesco addirittura a leggere il titolo, è un manuale scolastico di terza elementare. Uno scolaro consuma le ore dove è passata la Storia. Alzo gli occhi e fisso i vetri. Intuisco quello che nessuna delle foto che guarderemo la sera stessa fino a notte fonda è riuscita a fissare se non come sincopi digitali, riflessi di uno specchio che non riesci a interpretare.
Una mano di bambino ha incollato sui vetri due pupazzi, un personaggio di cartoon, una automobilina e un pesciolino.
Hai scritto dalla tua prigione: "Se ci fosse luce...".
Abbraccio la mia fotografa stremata che nel frattempo è crollata sul divano, le rimbocco il plaid e siedo sul pavimento davanti a lei. La luce dell’alba bussa alle imposte, le soffio in un orecchio: "Ti racconto il 16 Marzo 1978 e chi era Aldo Moro, un giorno lo spiegherai a tuo figlio".
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Di Manlio  21/05/2008, in Articoli (3038 letture)

Nel numero di Aprile di "Cronache e opinioni", mensile del Centro Italiano Femminile, è apparsa una interessantissima intervista di Paola Di Giulio al giornalista dell'ANSA Paolo Cucchiarelli incentrata sul trentennale della vicenda Moro e su quelli che, comunemente, vengono definiti "Misteri". Dall'agguato di via Fani alle foto scomparse, dalla giornata del 18 aprile alle trattative, dall'apertura degli archivi alle ultime ore del Presidente della DC.
> scarica il PDF <

La seconda polaroid di Moro nella "prigione del popolo"

L’idea di fondo di Cucchiarelli è che si è “verificata una concordanza di interessi a far si che nessun protagonista veda svelata al sua quota-parte di segreto” ed è per questo che le cose, con il tempo, diventano un mistero. In realtà in Italia non sono i misteri a reggere la prova del tempo, ma i “segreti concordati”.

Come fare a scardinare questo segreto?
Questo Cucchiarelli non lo dice nell’intervista, per ovvie ragioni di spazio.
Ma, come ha sottolineato in una recente intervista ad Alessandro Forlani su GRParlamento > ascoltala <, sarebbe necessario recuperare la tradizione ormai quasi persa del “giornalismo d’inchiesta”, avvalendosi di un serio e rigoroso metodo di raccolta dei fatti evitando di far si che debbano essere i fatti ad adattarsi alla propria ideologia. Al contrario sarebbe necessario tornare a far parlare i fatti. Perché è mettendo assieme i dati, trovando le connessioni logiche, e compiendo verifiche incrociate delle ipotesi che l’analisi finale può condurre a svelare il mistero.

Utilizzando questo metodo che Cucchiarelli insegna nelle aule di formazione ai giovani giornalisti, Valentina Magrin e Fabiana Muceli hanno svolto una dettagliata inchiesta (che è poi diventata la loro tesi in giornalismo investigativo) che è poi diventata anche un libro “La chiave di Cogne”. > leggi <

Credo che possa essere una strada giusta per giungere alla soluzione del “segreto di Moro”. In Vuoto a perdere (che non è un libro d’inchiesta) questo metodo è stato applicato (devo dire inconsapevolmente) per raccogliere e strutturare i fatti in un contesto non ideologico permettendo al lettore di poter “ascoltare” i fatti e analizzarli autonomamente.

Applicando il metodo suggerito da Cucchiarelli si potrà arrivare offrire alla nazione la verità che sta dietro al “segreto di Moro”? Molto probabilmente si.

In questa vicenda, però, occorrerà superare due ostacoli fondamentali:

1) Cucchiarelli a parte, c’è qualcuno disposto a mettere da parte le proprie teorie con il rischio di di vedersele, alla fine, capovolte completamente?
2) Siamo pronti, come Paese, a sapere fino in fondo la verità o questo provocherebbe ulteriore dolore e conseguenze istituzionali?
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In una nuova intervista rilasciata ad Euronews il 10 maggio scorso, l'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga torna a parlare dei 55 giorni e risponde alla domanda chiave sul sequestro Moro: "perché non fu salvato?"

Cossiga, in un colloquio in cui è apparso molto schietto e misurato, non fa che fornire una nuova conferma di quanto detto dal suo consulente Steve Pieczenik, che gli americani affiancarono all'allora Ministro dell'Interno per gestire al meglio la crisi politica in cui si trovò il nostro Paese all'indomani del rapimento di Aldo Moro.

In sintesi Moro non morì per effetto di una decisione presa da Cossiga o Andreotti (tesi spesso diffusa nell'opinione pubblica) ma perché non "crollasse lo stato".


Un'osservazione che, forse, può apparire una novità.
Cossiga ha sottolineato che se i socialisti avessero informato le autorità (in questo caso il Viminale) dei loro contatti, data l'importanza di tali personaggi, si sarebbe potuto scoprire il luogo dove i brigatisti avevano rinchiuso Moro.

«Ma davvero?» mi verrebbe da chiedere all'ex Presidente.

Recentemente, lo stesso Cossiga ha dichiarato all'ANSA un particolare relativo alla sera dell'8 maggio:
«Noi avevamo fatto un piano a reticolo. Avevamo suddiviso la città, il centro, in tanti quadrati. E la notte l'Esercito ci dava una mano per bloccare il settore e poi lo si passava al setaccio. Io avevo capito che se Moro era a Roma prima o poi lo si beccava. Infatti qualcuno nelle Br ha detto che la morte di Moro è stata affrettata perchè sentivano il cappio che li stringeva al collo».

Se i brigatisti hanno dovuto affrettare l'esecuzione del loro prigioniero (Maccari parlò addirittura di lampeggianti blu che si intravedevano a poche centinaia di metri da via Montalcini) evidentemente il "quadrato" che si stava per setacciare doveva essere quello giusto.
E allora mi chiedo se quell'operazione di polizia fu finalizzata ad individuare la "prigione del popolo" o se si trattò dell'ennesimo strumento di attuazione della strategia suggerita da Steve Pieczenik: fare pressione sulle BR affinché commettessero l'errore di uccidere il loro prigioniero.

In questa ottica diventa anche molto chiara l'affermazione che l'Avv. Giannino Guiso ha riportato in Commissione Stragi.

«Le BR sono arrivate ad uccidere Moro, a mio parere, perché sono state costrette a farlo;
quindi qualcuno le ha costrette a fare ciò»

Più chiaro di così...
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Di Manlio  30/06/2008, in Attualità (2633 letture)
E’ stata pubblicata ieri sull’agenzia ANSA, un’intervista del giornalista Paolo Cucchiarelli al terrorista Ilich Ramirez Sanchez meglio noto come Carlos ‘Lo sciacallo’. (leggi profilo di Carlos)

L’iter dell’intervista è stato molto lungo e laborioso. Attraverso l’avvocato di Carlos Sandro Clementi, Cucchiarelli ha fatto pervenire le sue domande al terrorista rinchiuso nel carcere francese di Poissy. La signora Sophie Blanco ha tradotto in spagnolo sia le richieste che le successive risposte di Carlos, che infine ha voluto la versione finale per poterla sottoscrivere.
Quindi sull’autenticità delle parole di Carlos, nessun dubbio.

Cosa è emerso di nuovo dalle affermazioni di Carlos?
Molte cose (puoi leggere qui l’intervista integrale di Cucchiarelli), ma la notizia più importante è che, secondo il terrorista venezuelano, nelle ultime 48 ore del sequestro Moro, era ormai pronta un’operazione condotta da agenti del SISMI (definiti da Carlos “patriotti anti-NATO”) che avrebbero dovuto ‘sottrarre’ dalle carceri alcuni brigatisti italiani per essere condotti a Beirut dove un jet con a bordo membri dell’FPLP ed il Col. Giovannone, li avrebbe condotti, sotto la protezione dei servizi italiani, in un Paese che si sarebbe occupato di riceverli.
Il tutto sarebbe avvenuto sotto la guida dello stesso Giovannone ed altri ufficiali del SISMI che si recarono a Beirut più volte.
Ma Bassam Abu Sharif dirigente dell’OLP, cui l’FPLP pur facendone parte era da sempre in contrasto a causa della differente visione delle modalità di liberazione del popolo palestinese, fece filtrare l’informazione alle stazioni NATO in Libano, la cosa giunge rapidamente in Italia ed il blitz viene bloccato.
A seguito di ciò le BR, che ritenevano questo l’ultimo concreto spiraglio per una conclusione positiva del sequestro, uccisero il loro prigioniero ed i personaggi dei servizi che si erano resi protagonisti dell’operazione, furono allontanati dal SISMI.


L'autorizzazione posta da Carlos al termine dell'intervista

Una notizia bomba, non c’è che dire, che troverebbe conferma in una lunga serie di comportamenti:
  • vi fu una vera e propria epurazione dei servizi non giustificata dal fatto che questi erano stati creati da pochissimi mesi
  • il comandante dell’operazione era l’Amm. Fulvio Martini, vice direttore del SISMI, che fu allontanato dal SISMI. Egli era uomo di fiducia dell’On. Craxi che fu l’unico uomo politico che si impegnò nel trovare una forma di trattativa per salvare la vita a Moro. Fu proprio Craxi, divenuto Presidente del Consiglio, a richiamare Martini alla guida del SISMI
  • acquista un senso molto logico il famoso gerundio “eseguendo la sentenza” che i brigatisti utilizzarono nel loro ultimo comunicato. In pratica quando l’operazione sembrava avviata verso una positiva conclusione, ritenendo di essere già stati oggetto di numerosi bluff, i brigatisti decisero che questa sarà l’ultima possibilità concreta per evitare l’uccisione di Moro. Si tratta, dal loro punto di vista, di una specie di “decisione con riserva”, un ultimatum affinché non si trattasse dell’ennesimo bluff
  • il fatto di uccidere Moro la mattina presto senza attendere l’esito della riunione della Direzione della DC, diventa adesso leggibile e logica. I brigatisti ricevettero, nel corso della notte, la notizia della spiata e del conseguente stop all’operazione. Non avendo avuto, nelle parole di Bartolomei del 7 maggio, alcun segnale che la mattina del 9 qualche esponente democristiano si sarebbe potuto esporre politicamente con una dichiarazione a favore della trattativa, decisero che contropartite concrete non ve ne fossero più e si videro costretti a procedere all’esecuzione della loro sentenza

Ma quello raccontato da Carlos, può davvero essere considerato un segreto indicibile, che avrebbe potuto resistere per ben 30 anni?
Non c’è dubbio. Almeno per tre motivi:
  1. qualcuno aveva davvero deciso che Moro doveva morire, e non solo a livello di strategia ma soprattutto di comportamenti operativi
  2. qualcun altro aveva avviato una trattativa “mostruosamente segreta” della quale non si sarebbe mai dovuto parlare da parte di nessuno
  3. adesso è chiaro come il primo qualcuno abbia sabotato “l’indicibile trattativa” concretamente, decretando volontariamente la morte di Moro

Adesso abbiamo tutti gli elementi per andare più a fondo e trovare l’assassino con ancora in mano la sua bella “smoking gun”.
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Di Manlio  10/07/2008, in Attualità (1899 letture)
Al traguardo degli 80 anni, il Presidente Emerito della Repubblica Francesco Cossiga, che i più ricorderanno per la brillante gestione del Ministero dell’Interno all’epoca del caso Moro, è diventato un loquace interlocutore del giornalista Aldo Cazzullo al quale nel giro di poco più di sei mesi ha concesso ben due interviste incentrate sul periodo più buio della nostra storia contemporanea: i cosiddetti anni di piombo.
Nella prima intervista si ricordano “i mille comunisti che conoscevano la prigione di Aldo Moro”, la convinzione che “il falso comunicato del Lago della Duchessa fu una mossa per salvare Moro”, e che “Igor Markevic, il musicista, ospitò probabilmente nella sua casa di Firenze la riunione in cui fu decisa la morte di Moro”. E questo solo per citare le principali esternazioni dell’ex ‘picconatore’.



In questa nuova intervista, invece, al caso Moro è dedicata solo una riflessione con la quale, in maniera netta e per l’ennesima volta, Cossiga non smentisce le dichiarazioni di Steve Pieczenik (senza tuttavia confermarle esplicitamente).
Ma l’Emerito si spinge a riflessioni importanti anche su altre vicende. Tangentopoli che sarebbe stata innescata con la complicità di USA e Cia. A dire il vero un’analisi molto seria che attribuirebbe agli americani l’innesco dello scandalo per favorire il ricambio di una classe politica che ormai si reggeva sul sistema del finanziamento ai partiti, non più utile all’alleato in un’ottica post caduta del ‘Muro’ l’avevo già letta e, pertanto, non parrebbe neanche una novità assoluta.

La strage di Bologna attribuita ad un errore dei palestinesi ma escludendo il ruolo degli americani ipotizzatoinvece da Carlos in una recente intervista all’ANSA . La stima per D’Alema e l’inconsistenza di Veltroni, per concludere ai figli attivi in politica, uno di sinistra e l’altro di destra al quale si dichiara più vicino.

Mi sorge una domanda, anzi due.
Perché Cossiga sta togliendo dal cellophane, in diversi momenti, piccoli pezzi di antiquariato senza far capire esplicitamente se si tratta di un originale Luigi XVI o più modestamente di una vecchia sedia in legno massiccio come tante ancora si trovano nella casa della vecchia nonna?
L’Emerito sta mandando piccoli messaggi per far intendere ai destinatari che tra un po’ saranno travolti dai loro stessi segreti e lui potrà fregiarsi della classica “io l’avevo già detto”? Oppure, al contrario, sta contribuendo a “mischiare sempre lo vero con lo falso acciocchè nessuno sappia più quale è lo vero e quale è lo falso”?

Non ci resta che aspettare la prossima puntata. Sperando di non dover attendere altri sei mesi…
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