Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Le stragi (con i loro segreti) di Ustica e Bologna hanno visto superare il traguardo dei 30 anni. E le ricorrenze sono, in genere, il tremolante momento in cui le istituzioni continuano ad alimentare il desiderio di verità e giustizia dei familiari delle vittime ben sapendo che mai e poi mai nessun personaggio dello Stato muoverà un dito in quella direzione. Se con Moro si era assistito ad una buona operazione di marketing con la pubblicazione online degli archivi della Commissione Stragi (dopo "soli" 7 anni dalla chiusura dei lavori) e con l'istituzione della giornata della memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi, con Bologna si è praticamente toccato il fondo. Per la prima volta nessun Ministro è stato presente alla cerimonia di commemorazione. L'assenza del Governo è stata giustificata in diversi modi sotto il minimo comune denominatore dei fischi ricevuti in tutte le edizioni precedenti. Quello che però mi ha colpito particolarmente sono le dichiarazioni del sotto segretario Carlo Giovanardi, che riporto testualmente:
BOLOGNA:GIOVANARDI,GOVERNO HA FATTO BENE A NON ANDARE (ANSA) - ROMA, 2 AGO - «Ogni anno a Bologna si è riproposto il triste spettacolo di una piazza che invece di ricordo e dolore ha espresso odio e livore per coloro che ritiene avversari politici. La strage, che colpì cittadini inermi di tutte le età e di tutti i partiti , sin dai funerali del 6 agosto, a cui partecipai come neo eletto consigliere regionale dell'Emilia Romagna, fu strumentalizzata per creare una bolgia di insulti e sputi nei confronti del Governo di allora, che colpirono particolarmente Craxi e Cossiga. Bene ha fatto quest'anno il Governo a non partecipare ad un rito che per troppi non è un momento di ricordo e commemorazione delle vittime di quella tragedia». Lo dice il sottosegretario arlo Giovanardi.
STRAGE BOLOGNA: GIOVANARDI,NO A STRUMENTALIZZAZIONI SINISTRA GOVERNO SI È RIFIUTATO DI PRESTARSI A GIOCO IGNOBILE (ANSA) - ROMA, 2 AGO - «È un dovere ribellarsi a miserabili strumentalizzazioni». Lo precisa il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi che già stamattina aveva commentano positivamente l'assenza del governo dalla cerimonia che si è tenuta stamattina a Bologna. «È un dovere morale e civile - aggiunge Giovanardi in una nota - ribellarsi alla miserabile strumentalizzazione che, fin dai giorni successivi alla strage di Bologna, una certa sinistra ha fatto delle vittime di quell'orribile attentato. Se quest' anno c'è stata maggiore compostezza e sobrietà è proprio perchè il Governo si è rifiutato di prestarsi a questo ignobile gioco, offensivo soprattutto del dolore dei familiari delle vittime». «Voglio aggiungere - continua l'esponente del governo - che sono stanco di subire insulti dai vari Fiano, eredi di un partito che ha sostenuto i più screditati regimi totalitari e, per lungo tempo, sottovalutato il terrorismo assassino, battuto dalla limpida testimonianza democratica di governi e uomini delle istituzioni che hanno saputo reagire alla violenza eversiva in un quadro di totale rispetto delle libertà garantite dalla Costituzione».
Provo sconcerto, non lo nego. E vergogna. Giovanardi parla di " una piazza che invece di ricordo e dolore ha espresso odio e livore per coloro che ritiene avversari politici". Le proteste hanno coperto praticamente tutte le ricorrenze almeno degli ultimi 20 anni e vorrei ricordare al sotto segretario che dal 1996 per ben 7 anni il Governo è stato di centro sinistra. Le proteste non erano indirizzate al singolo rappresentante politico ed alla sua fazione, ma ad un intero sistema istituzionale che nulla ha mai fatto per far emergere responsabilità e spiegare il perchè di certi fatti. In un periodo nel quale stanno emergendo delle importanti novità, delle nuove piste e delle nuove responsabilità molto vicine alle persone in cui si identificava un certo "doppio Stato" l'essere assenti vuol dire inequivocabilmente una sola cosa. Lo Stato, indipendentemente dal colore dei burattini che lo rappresenteranno di volta in volta, non ha nessuna intenzione di rendere onore alle vittime e giustizia al resto del Paese. la verità non la vuole. Punto. Molto meglio continuare le strumentalizzazioni, manipolando a proprio piacimento il dolore e la fame di verità di una parte di popolazione che non ne vuole sapere di rassegnarsi al silenzio. E del resto le parole di Giovanardi sono solo la conferma di quanto già espresse il Ministro Rotondi all'indomani della morte della signora Eleonora Moro. "Lei è vissuta senza sapere la verità e i segreti sopravviveranno a lungo dopo la sua morte". Le istituzioni per essere più chiare di così avrebbero potuto fare solo una cosa: dire i nomi dei colpevoli. No, cari amici. Se gli italiani hanno perso la capacità di indignarsi di fronte a molte cose, che almeno siano consapevoli delle bugie che dal Palazzo gli propinano quotidianamente su tutti i fronti...
Giuseppe Ferrara è, tra coloro che ho conosciuto grazie ai miei studi sulla vicenda Moro, una delle persone che mi hanno stupito di più. Dotato di un bagaglio culturale impressionante, di una finezza di pensiero che lascia a bocca aperta e di una freschezza intellettuale sicuramente più dinamica ed effervescente della mia, nonostante i quasi 30 anni di differenza. E', per intenderci, una persona che quando parla ha sempre qualcosa da insegnare. Nel suo mestiere (ovviamente) ma anche e soprattutto nelle molteplici vicende che in molti hanno solo letto sui libri e che lui ha vissuto da contemporaneo, ha avuto la possibilità di parlare con i protagonisti e in molti casi di studiare per le inchieste dei suoi lavori cinematografici. Qualche giorno fa mi ha spedito delle riflessioni che riguardano il ruolo della Banda della Magliana (da molti ipotizzato) nella vicenda Moro. Non tanto nel suo aspetto politico, ovviamente, quanto in quello più strettamente criminale. Prima di passare alle sue considerazioni, voglio premettere un piccolo (mica tanto) particolare che può aiutare a leggere meglio quanto Ferrara avrà da dirci. Nel libro "L'Anello della Repubblica" (uscito nel 2009 per Chiarelettere) Stefania Limiti ha messo insieme una serie di elementi così sintetizzabili. Dopo il rapimento, l'Anello viene attivato per la ricerca della prigione dove i brigatisti avevano rinchiuso Aldo Moro. L'Anello si attiva chiamando in causa la Camorra che, a sua volta, si mette in contatto con il suo uomo di collegamento con la Banda della Magliana a Roma. Questi ultimi fanno emergere il nome di via Gradoli. L'informazione viene riportata a Roma ma, a questo punto, l'Anello è stoppato. E' evidente, a questo punto, che a partire da quel momento in un'ipotetica trattativa per la ricerca della prigione e la sorte del Presidente della DC entra in gioco la Banda della Magliana. Come, è tutto da definire. O, almeno, io non lo so. Ma mi sembrava una premessa utile per "leggere" meglio le riflessioni di Giuseppe Ferrara che riporto integralmente di seguito. "il caso Moro è ancora avvolto nel mistero? A mio avviso no. Tutti sappiamo che è stato un golpe. Persino uno studioso cauto come De Lutiis ha significativamente intitolato il suo ultimo libro IL GOLPE DI VIA FANI. Certo, le prove giudiziarie mancano. Ma non si sono volute acquisire o si sono volute sottovalutare. A cominciare dalla famiglia Moro. Che si è comportata malissimo, tradendo lo scomparso che, ricordo bene, forse nell’ultima lettera a Nora punta l’indice accusatore contro la DC. Ma la famiglia non ha avuto nessun coraggio e praticamente ha “coperto” il partito. Partecipando l’anno scorso a un dibattito alla presenza di una delle figlie di Moro ne ho avuto conferma. Alle mie sottolineature di ambiguità di Don Mennini, la figlia lo ha difeso a spada tratta. Però ogni tanto, a volte quando meno te l’aspetti, escono delle verità. Anche solo riflettendo. Per esempio sulla Banda della Magliana. Fin da quando uscì il mio film nelle sale, il regista Agosti mi disse che era stata la banda della Magliana ad uccidere Moro. Non so da chi avesse avuto questa informazione, ma anche se avesse raccolto una “voce”, cioè avesse recepito una convinzione popolare, la notizia ha un forte valore indiziario e va presa molto sul serio. Ecco perché. Stefano Grassi, nel bellissimo libro IL CASO MORO- UN DIZIONARIO ITALIANO, alla voce B. della M., scrive: “Nel quartiere, controllato in modo capillare da questo particolare tipo di malavita collegato a settori deviati dei servizi segreti e all’eversione nera, è situata la prigione del popolo di via Montalcini. Nelle immediate vicinanze di via Montalcini abitano numerosi esponenti della banda: a via Fuggetta 59 ( a 120 passi da via Montalcini) Danilo Abbruciati, Amelio Fabiani, Antonio Mancini; in via Luparelli 82 ( a 230 passi dalla prigione del popolo) Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135 ( a 150 passi) Ernesto Diotallevi, segretario del finanziere piduista Carboni; infine in via Montalcini 1 c’è villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra” (pagg.62-63,Mondadori,2008). La “rivelazione” della prigione del popolo venne fatta da Morucci e Faranda al giudice Imposimato. Io stesso (nel 1985, mentre preparavo il film, proprio seguendo il suggerimento di Imposimato) ho potuto fare un sopraluogo nell’appartamento e constatare che sul pavimento c’erano ancora le tracce della falsa parete applicata dai brigatisti per creare un’intercapedine segreta. Usando la logica, e guardando sulla cartina topografica l’ubicazione delle vie abitate dai banditi, via Montalcini risulta circondata dalle loro abitazioni; appare evidente che la scelta della “prigione del popolo”, dove però non abbiamo alcuna certezza che Moro vi abbia passato almeno qualcuno dei 55 giorni, non sia stata fatta dalle br ma dai maglianesi, che appunto volevano controllare a vista la “prigione” (a questo punto eventuale) e quindi Moro nonché i brigatisti. Non solo. Poiché la ferocia dei banditi e il volume di fuoco che sarebbero stati capaci di produrre è addirittura mitico, appare chiaro che chi gestiva il rapimento era proprio la Banda ( e cioè i servizi diciamo così deviati, che con la Banda hanno rapporti strettissimi, come si deduce da tanti episodi ). Le br sono in realtà esse stesse prigioniere della Banda. E quindi delle forze politico-finanziare occulte che volevano la morte di Moro. Infatti sull’UNITA’ del 26 settembre 1982 Emanuele Macaluso ha dichiarato: ”Noi siamo fra coloro che non hanno mai creduto che a rapire e ad uccidere il presidente della Dc siano state solo le Brigate Rosse che organizzarono l’infame impresa. Abbiamo sempre pensato che gli autonomi obiettivi politici delle Br coincidessero con quelli di potenti gruppi politico-affaristici nazionali ed internazionali, che temevano una svolta politica in Italia” (citato anche nel volume POTERI FORTI, POTERI OCCULTI E GEOFINANZA, Mafia Connection ed., Pavia, 1996,pag.232). Conferma di tutto questo viene dalla lettura del volume IL MISTERIOSO INTERMEDIARIO di G. Fasanella e G.Rocca (Einaudi, Torino , 2003). Tra l’altro si viene a sapere che proprio in via Caetani esisteva un appartamento segreto (di proprietà della Duchessa Caetani) che durante la guerra aveva ospitato l’agente OSS Peter Tompkins e che potrebbe aver ospitato anche Moro prima dell’esecuzione. Sicuramente la Duchessa aveva persino l’accesso ad un un garage ( quello servito a nascondere la Renault rossa prima dell’assassinio, sul quale naturalmente nessuno ha indagato). Che Moro abbia frequentato poco la prigione di Via Montalcini (se l’ha frequentata) è ormai certo (passare 55 giorni in un loculo senz’aria lo avrebbe stremato, invece la perizia del cadavere ha stabilito che Moro era in buone condizioni). Le altre “prigioni” sono almeno due: una (forse quella stabile, dove potrebbe aver passato la maggior parte dei giorni - spostare Moro sarebbe sempre stato un rischio) situata sulla costa laziale (sempre la perizia appura che sia le scarpe sia i pantaloni di Moro sia la Renault rossa hanno tracce bituminose e di terriccio che rimandano ad un luogo vicino a Palinuro) e una dove potrebbe aver atteso il momento dell’assassinio che secondo i brigatisti sarebbe avvenuto nel garage di via Montalcini. Bugia ridicola per tre motivi : il primo è che la Banda come ha scelto il covo di via Montalcini così sceglie il covo presso Palinuro; il secondo perché il garage di Via Montalcini è molto piccolo, quindi scomodo per sparare a Moro col cofano aperto, ed è molto esposto a visite di estranei ; infine portare il cadavere di Moro sanguinante da via Montalcini a via Caetani, cioè per diversi chilometri con molta polizia in allarme, è ovvio che fosse un rischio da evitare assolutamente; infatti la logica ci dice che il garage dove è stato ucciso Moro non può essere che in Via Caetani (cioè nel Ghetto ebraico) a pochi metri dal posteggio dove poi sistemare la Renault rossa. Su chi abbia sparato a Moro i brigatisti hanno indicato ben tre di loro e questo dimostra sia pure solo indiziariamente che la loro testimonianza è inattendibile. Molto più attendibili i messaggi lanciati da un appartenente alla banda della Magliana, Antonio Chichiarelli, che lascia in un taxi un borsello con oggetti che “alludono a momenti diversi del rapimento e del sequestro Moro: i dodici proiettili, sparati da due armi diverse, con i quali Moro è stato ucciso; la testina rotante con cui sono stati scritti i comunicati (…); le due fotografie di Moro scattate dai brigatisti, il comunicato del lago della Duchessa; i medicinali che necessitano al prigioniero; i fazzoletti di carta con cui sono state temponate le ferite dopo l’esecuzione; un pacchetto di sigarette della marca fumata da Moro” (S.Grassi, op. cit., pag 155). Con questi documenti o notizie che potevano essere in mano a Chichiarelli ( es. : la foto originale della Polaroid) solo per aver gestito in prima persona sequestro e assassinio, sono, oltre che un oscuro messaggio, la confessione del delitto stesso. Quando dichiara di conoscere la marca dei fazzolettini tampone, Chichiarelli ci fa sapere che è lui che li ha messi sul cadavere di Moro, al punto da farci sospettare che sia proprio il killer del presidente ( o almeno che ha fatto parte del commando maglianese). Questa “crescita” dell’importanza della B.della M. nel caso Moro apre uno scenario diverso e inquietante che fa valutare in modo nuovo altri episodi (tra cui primeggia il falso comunicato n.ro 7). Ma anche la scoperta del covo di Via Gradoli si configura sotto un’altra luce ( per es.: vuoi vedere che Chichiarelli aveva le chiavi dell’appartamento ed è stato lui, o qualcuno come lui, a provocarne la scoperta?) La banda era potentissima anche in Vaticano, per i rapporti con Marcinkus (venuti fuori nella rubrica tv CHI L’HA VISTO) e, com’è noto, per aver fatto seppellire nientemeno che uno di loro nella basilica di San Paolo (alla stregua di un santo o di un cardinale!)."
Ho iniziato a conoscere Giacomo Pacini tramite i commenti sul sito. Grazie a FaceBook ho potuto scoprire più a fondo ilsuo modo di lavorare e le sue competenze. Quando l’amico Paolo Cucchiarelli mi ha preannunciato l’uscita di un lavoro sull’Ufficio Affari Riservati mi chiesi subito chi fosse stato così “matto” da caricarsi l’onere di scavare in quello che per me era un grosso buco documentale su uno degli apparati più potenti e misteriosi (forse il più potente e perciò misterioso) della nostra Repubblica. Quando ho saputo che l’autore era Giacomo ho avuto la certezza che si dovesse trattare di un lavoro ineccepibile e la curiosità di leggerlo è stata immediata. Un testo completo (per quanto si possa apprendere su simili strutture), onesto, rigoroso. Un lavoro che non ti aspetti da un giovanissimo come Giacomo ma che, evidentemente, storici più maturi e “contemporanei” alla struttura non hanno avuto il coraggio o le competenze per scriverlo. Lo consiglio a tutti perché pur non essendo un romanzo la sua lettura è piacevole, la struttura è ben articolata tra l’uso delle fonti e l’analisi, l’indice del lavoro è chiaro e consente di spostarsi rapidamente da un argomento all’altro. In questo può essere assimilato più ad un manuale che ad un saggio storico. Non potevo esimermi dal porre a Giacomo alcune questioni. Come al solito mi auguro di aver interpretato anche le domande dei lettori ai quali resta, come sempre, la possibilità di proporre nuove domande e riflessioni. Giacomo Pacini. Ricercatore Storia contemporanea, laureato presso l’università di Pisa, si occupa di storia dell’Italia Repubblicana con particolare riferimento alle vicende degli anni settanta.Ha svolto ricerche sulle violenze contro i civili durante la seconda guerra mondiale.Tra le sue pubblicazioni- “Le origini della operazione Stay Behind (1943-1956)”, pubblicato sulla rivista “Contemporanea”, Il Mulino, n. 4/2007.- “Le organizzazione paramilitari segrete nell’Italia Repubblicana”, Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2008. Tra i tanti argomenti che interessano la storia d’Italia, mai erano state dedicate delle pagine ad un apparato come l’Ufficio Affari Riservati. Secondo te, come mai?Se è vero che fino al 1996, quando Aldo Giannuli rinvenne il noto archivio di via Appia, la documentazione era molto esile (e, spesso, di scarsa attendibilità), è in effetti sorprendente la poca attenzione che nel corso degli anni vi è stata alle vicende dell’Ufficio Affari Riservati (Uar). Eppure stiamo parlando di un organismo che dal 1948 al 1974 è stato il vertice della polizia politica italiana. Tuttavia, il fatto che se ne sia parlato cosi poco può anche voler dire che gli uomini dell’Uar hanno saputo fare molto bene il loro lavoro di “spioni”. In una vecchia intervista Federico Umberto D’Amato (che dell’Uar è stato il più qualificato dirigente) disse che uno spione degno di questo nome deve tenere sempre un piede nella legalità e tre fuori, ma non deve mai farsi beccare, come invece era accaduto a praticamente tutti i vertici dei servizi segreti militari. Ecco, diciamo che l’Uar era composto da veri e propri spioni, da “sbirri” di professione che, sono sempre parole di D’Amato, “sapevano di diritto e di investigazione”, a differenza di quanto avveniva nel Sid (il servizio segreto militare) dove poteva capitare che a doversi occupare di investigazioni politiche fossero militari che provenivano dal genio, ammiragli laureati in ingegneria navale o pluridecorati generali che magari conoscevano alla perfezione le strategie belliche, ma che non avevano la minima idea di cosa fosse una indagine informativa di natura politica. Con risultati spesso disastrosi (vedi i casi Giannettini, Pozzan ecc. ecc.). Mentre gli uomini dell’Uar erano “professionisti” del settore e, appunto, non si facevano mai “beccare” (o quasi). Per fare un esempio, se i legami e le complicità che, negli sessanta/settanta, vi furono fra alcune parti dell’estremismo di destra ed il Sid sono ormai documentati, prove documentali (e sottolineo documentali) di una conclamata collusione tra l’Uar ed il neofascismo non sono mai state trovate. Emblematico il caso del fondatore di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie; di un suo presunto legame col ministero dell’Interno si è parlato numerose volte (perfino un ex funzionario dell’Uar ha sostenuto che Delle Chiaie aveva contatti col Viminale), ma non è mai emerso un documento capace di provarlo con certezza. Nel libro descrivi con grande accuratezza documentale la storia dell’Ufficio Affari Riservati sin dalle sue origini. Quale è stato il suo ruolo nel tempo e, se è cambiato, secondo te per quale motivo?L’Uar nacque nel 1948 sulle ceneri della “vecchia” Divisione Affari Generali e Riservati che operava sotto il fascismo ed il suo compito essenziale era quello di coordinare il lavoro degli Uffici Politici delle questure. A fine anni cinquanta, tuttavia, quando al vertice dell’Ufficio giunse un nucleo di funzionari provenienti dalla questura di Trieste (chiamati dall’allora ministro dell’Interno Tambroni e tra i quali vi era una figura molto importante per la storia degli apparati di polizia, Walter Beneforti), l’Uar subì un profondo mutamento, sganciandosi completamente dalle questure e diventando una vera e propria polizia parallela al diretto ed esclusivo servizio del Viminale, indipendente rispetto a qualunque altro apparato informativo allora esistente in Italia. La struttura operativa creata dai “triestini” rimase sostanzialmente immutata anche dopo il loro allontanamento dagli Affari Riservati. A fine anni sessanta, così, l’Uar era divenuto una sorta di organizzazione piramidale con D’Amato al vertice e numerose “squadre periferiche” attive in varie città italiane, composte da sottufficiali di pubblica sicurezza (autonomi dalle questure, visto che il loro quartier generale era situato in anonimi uffici privati) che gestivano tutti gli informatori disseminati all’interno di partiti politici, quotidiani, sindacati o movimenti extraparlamentari. I componenti dell’Uar, peraltro, avevano tutti la qualifica di ufficiale di Polizia Giudiziaria, ma potevano anche non informare la magistratura qualora venissero in possesso di notizie inerenti un reato, muovendosi come agenti di un vero e proprio servizio di sicurezza, cosa che, però, l’Uar (da un punto di vista legale) non era. Federico Umberto D’Amato è stato un personaggio molto potente che ha acquistato un ruolo importante nel 1963 (dal 1966 è diventato il capo della struttura). Nel 1963 c’è stato il primo governo Moro con l’apertura ai socialisti e nel 1964 il tentativo di golpe De Lorenzo. Che ruolo ha avuto l’Ufficio Affari Riservati, ed in particolare D’Amato, in questa determinante fase storica?Ufficialmente nessun ruolo. In quegli anni, infatti, l’Uar, almeno stando alla documentazione di cui disponiamo, visse una sorta di fase di transizione, mentre un rinnovato “protagonismo” in campo spionistico lo riacquisì solo nella seconda metà degli anni sessanta grazie appunto ad una figura come Federico Umberto D’Amato, il quale seppe sfruttare con grande abilità le conseguenze della grave crisi in cui precipitò il Sifar (dal 1965 Sid) dopo lo scoppio del noto scandalo delle schedature illecite di migliaia di italiani e la rivelazione del cosiddetto Piano Solo. Coi servizi segreti militari gravemente compromessi agli occhi della opinione pubblica (e con gran parte della stampa che cominciò a parlare apertamente del Sid come di una struttura “deviata”, se non perfino composta da golpisti), D’Amato riuscì a tessere con grande abilità la sua tela, ridando all’Uar un ruolo da protagonista ed acquisendo un potere che mai nessun dirigente degli Affari Riservati aveva raggiunto. D’Amato, tuttavia, fu ufficialmente a capo dell’Uar solo per un breve periodo a cavallo fra 1971 e 1972. Infatti, pur essendo fin dagli anni sessanta la figura preminente dei servizi informativi del Viminale egli preferì mantenere sempre un ruolo defilato, tenere la sua figura poco esposta, lasciando la direzione dell’Uar in mano ad altri funzionari (i vari Lutri, Catenacci, Vigevano) che, di fatto, erano alle sue dipendenze. Fu anche grazie a questa sua sorta di basso profilo che, negli anni settanta, riuscì a rimanere sostanzialmente immune da inchieste giudiziarie o da campagne giornalistiche ostili (come quelle che, ad esempio, si abbatterono sugli uomini del Sid). L’unica volta che finì nel mirino della magistratura fu nel 1976, quando fu accusato di peculato nell’ambito di un filone collaterale di una più vasta indagine su intercettazioni telefoniche abusive effettuate da uomini dei servizi. L’accusa era di aver indebitamente usato, nel 1973, fondi del ministero per acquistare 180 microspie che sarebbero state utilizzate per intercettazioni mai autorizzate dall’autorità giudiziaria. L’inchiesta, tuttavia, si sgonfiò nel giro di pochissimo tempo. Taviani in Commissione Stragi escluse che l’organizzazione dell’Ufficio Affari Riservati potesse filtrare le notizie raccolte sul territorio per trasmettere alla magistratura solo ciò che i vertici dell’apparato ritenevano opportuno. Eppure il dubbio resta. Possibile che un’organizzazione così verticistica abbia resistito alla tentazione di “gestire le informazioni” per aumentare il proprio potere?Il dubbio è più che legittimo visto che proprio per la sua organizzazione verticistica l’Uar era certamente in grado di tenere per sè le informazioni più scottanti e riservate senza fornirle alla magistratura (per poi magari usarle ad “altri” fini). È nota, ad esempio, la vicenda delle borse di Padova su cui mi soffermo a lungo nel libro. Già pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana, infatti, la commessa ed il titolare di una valigeria di Padova riferirono alla locale questura di aver venduto, due giorni prima della strage, delle borse simili a quelle usate per nascondere gli ordigni usati negli attentati del 12 dicembre. La questura padovana trasmise questa rilevante informazione all’Uar che però la tenne per sé, fino a quando, alcuni anni dopo, essa non riemerse quasi per caso. Ne seguì una inchiesta che tuttavia non approdò a nulla e che non coinvolse mai D’Amato (anche perché, come detto, egli, almeno ufficialmente, non era al vertice dell’Uar e a dover rispondere di quanto avvenuto fu l’allora direttore Elvio Catenacci). Quanto a Taviani, se nel suo libro di memorie ha sostenuto di essere sicuro che mai D’Amato nascose delle prove, nella parte della sua audizione in Commissione Stragi tenutasi in seduta segreta, alla specifica domanda del Presidente Giovanni Pellegrino se, visto il modus operandi dell’Uar non vi fosse stato il rischio che gli Affari Riservati fossero in grado di nascondere le informazioni più scottanti sottraendole all’autorità giudiziaria, l’allora Senatore a vita dette questa testuale risposta: “di questo a me è giunta eco solo per quanto riguarda Milano e la Lombardia. Ed è per questo che ho sciolto l’Ufficio Affari Riservati”. Veniamo alla strategia della tensione. Nel libro parli di infiltrazione e di polizia parallela. Come venivano gestite queste operazioni? Vi era trasparenza o si può parlare di vera e propria clandestinità?Studiando le attività dei servizi segreti (ed in particolare dall’Uar) negli anni della strategia della tensione è spesso difficile distinguere il confine che passava tra una legittima attività di infiltrazione in un gruppo terroristico ed una attività clandestina di provocazione. Faccio un esempio; vi sono documenti da cui risulta che in alcuni incontri di alto livello del cosiddetto Club di Berna (come era convenzionalmente denominata una struttura “creata” da D’Amato, il cui compito era coordinare ed armonizzare il lavoro delle principali polizie europee) venne auspicata (e programmata) la necessità di una infiltrazione nei gruppi eversivi di sinistra da parte di agenti di polizia. Il che è cosa normale, se non fosse che, in certi casi, si arrivava anche ad ammettere la possibilità che l’eventuale infiltrato potesse essere uno specialista in uso di armi ed esplosivi. Circostanza che, sebbene non vi sia alcuna prova documentale, può far sorgere qualche dubbio sul labile confine che, certe volte, può esserci tra infiltrato e provocatore. Emblematico, a suo modo, il caso della fonte Anna Bolena, al secolo Enrico Rovelli, il principale infiltrato dell'Uar tra gli anarchici milanesi del Ponte della Ghisolfa. Sarebbe stata infatti tale fonte a indirizzare le indagini sulla strage di Piazza Fontana verso la pista anarchica, nonchè a dare informazioni del tutto inventate che descrivevano Dario Fo nientemeno che come il vero capo delle Brigate Rosse. Inoltre ci sono documenti da cui risulta che sempre Anna Bolena avrebbe attribuito agli anarchici quasi tutti gli attentati dinamitardi avvenuti in Italia nel corso del 1969, anche quelli di cui è oggi certa la matrice di estrema destra. Questo dimostrerebbe che Rovelli non era un “semplice” confidente, ma un vero e proprio infiltrato responsabile dei depistaggi successivi a Piazza Fontana. Va anche detto, tuttavia, che Rovelli, davanti all'autorità giudiziaria, pur ammettendo il suo rapporto con l’Uar, ha negato di aver fornito quelle informazioni ed ha sostenuto di essere lui per primo vittima degli Affari Riservati, in quanto essi avrebbero usato il suo nome come paravanto mentre la mente dei depistaggi era solo ed esclusivamente il vertice dell'Uar. Nella quarta di copertina c’è un interrogativo che oserei definire “decisivo” nella comprensione del ruolo dell’Ufficio Affari Riservati: “Che ruolo ha avuto l’UAR nella drammatica stagione della strategia della tensione?”. Vogliamo provare a dare una seppur sintetica risposta ai nostri lettori?Tra i documenti inediti che riporto nel libro ve ne è uno, risalente al 1955 e la cui autenticità è certa, che sembra anticipare di quasi 15 anni gli scenari della strategia della tensione, visto che, stando a quanto si legge, all’epoca, i servizi americani stavano reclutando militanti di estrema destra da inserire in strutture segrete che avrebbero dovuto provocare artificialmente disordini sul territorio italiano per favorire l’ascesa di un governo forte. Gli stessi vertici dell’Uar si dicevano preoccupati per queste incaute azioni dei servizi angloamericani. Venendo, tuttavia, agli anni settanta ed al possibile ruolo dell’Uar, sulla base degli elementi disponibili è plausibile ritenere che gli Affari Riservati fossero quantomeno a conoscenza di quello che sarebbe accaduto il 12 dicembre 1969. Secondo un ex generale del Sid, tale Nicola Falde, “l’attentato di Piazza Fontana sarebbe stato organizzato dall’Uar e poi il Sid si sarebbe incaricato di coprire il tutto”, ma significative sono anche le dichiarazioni dell'ex dirigente dell'Ufficio Politico della questura di Roma, Domenico Spinella, che ha rivelato che, negli anni settanta, ogni qual volta a Roma avvenivano degli attentati, D’Amato era solito inviare all’Ufficio politico della Capitale alcuni suoi agenti di fiducia per collaborare alle indagini. Tuttavia, ha sostenuto Spinella, l’allora capo dell’Ufficio politico, Bonaventura Provenza (già funzionario dell’Uar), pur non potendo rifiutare quella collaborazione, faceva di tutto affinchè gli uomini di D’Amato non interferissero, poichè temeva che essi avrebbero potuto attuare “un qualche tentativo di depistaggio delle indagini". Sui possibili depistaggi dell’Uar dopo Piazza Fontana, poi, rimando alle già citate vicende delle borse di Padova e della fonte Anna Bolena. Dalla documentazione, inoltre, emerge che nel marzo 1970 due dei più noti estremisti di destra romani, i fratelli Bruno e Serafino Di Luia, all'epoca latitanti in Spagna, chiesero un contatto con gli apparati di polizia promettendo delle rivelazioni sugli attentati del 1969. Come luogo di incontro venne scelto il posto di Polizia al Passo del Brennero. Non sappiamo con certezza se questo contatto si concretizzò, anche se è provato che, pochi giorni dopo la “richiesta” dei Di Luia, un alto dirigente dell’Uar quale Silvano Russomanno si recò effettivamente al posto di polizia del Brennero. È dunque quantomai plausibile ritenere che vi sia andato per incontrare i Di Luia. Tuttavia, non esiste alcun documento che permetta di capire di cosa si discusse in quell’incontro, del quale, ovviamente, la magistratura non fu minimamente messa al corrente. Molto interessante, infine, è un documento dell’Uar fino ad oggi inedito inerente il golpe Borghese da cui risulterebbe che dietro quella vicenda non c’era l’intento di favorire una svolta autoritaria, ma, attraverso l’uso strumentale della estrema destra, l’obiettivo era rafforzare l’assetto di potere allora esistente in Italia Ufficio Affari Riservati e caso Moro. Sei riuscito ad individuare delle possibili connessioni tra il ruolo degli inquirenti e le attività dell’Ufficio? L’Ufficio Affari Riservati, secondo te, si è mosso più di quanto non ne sappiamo durante i 55 giorni? E se si, con quali finalità?Nel giugno 1974 dopo la strage di Brescia, l’Uar, almeno ufficialmente, era stato sciolto ed al suo posto Taviani aveva “creato” l’Ispettorato Antiterrorismo diretto dal questore Emilio Santillo, mentre D’Amato era stato mandato a dirigere la Polizia di Frontiera. Durante la vicenda Moro, dunque, l’originario Uar non esisteva più; all’epoca, infatti, era appena stato istituito l’Ucigos che, anche in conseguenza della riforma dei servizi di fine 1977, aveva preso il posto dell’Ispettorato di Santillo. Altro discorso è capire che ruolo ebbe D’Amato durante i 55 giorni del sequestro dello statista democristiano, in particolare all’interno dei tanto discussi Comitati di crisi creati presso il Viminale. Cossiga in Commissione Stragi sostenne che durante il caso Moro D’Amato era fuori dai giochi poiché ormai era diventato “unpolitically correct” collaborare con lui (a causa del veto posto dalle sinistre, soprattutto dai socialisti, sulla sua figura), mentre, ha aggiunto l’ex presidente della Repubblica, se ci si fosse potuti avvalere dell’apporto di una personaggio del suo calibro, le indagini avrebbero preso un’altra piega. Tuttavia, in una missiva riservata che D’Amato inviò nel 1981 all’allora ministro dell’interno Virginio Rognoni egli scriveva di aver continuato ad occuparsi di investigazioni politiche anche dopo lo scioglimento dell’Uar ed aggiungeva che negli ultimi anni: “non c'e' stato argomento di rilevanza di cui non sia stato chiamato ad occuparmi: dalle origini, la natura, i collegamenti internazionali del terrorismo, al caso Moro; dalla strutturazione, competenza, funzionamento dei nuovi servizi segreti, al mantenimento e sviluppo di rapporti con i servizi paralleli ed alleati”. Dunque, è lui stesso a sostenere di essersi occupato del caso Moro; eppure ad oggi non esiste alcun documento e nessuna testimonianza capace di documentare quali compiti D’Amato svolse durante i 55 giorni del rapimento del Presidente della DC. Nel libro si parla di collegamenti tra Federico Umberto D’Amato, Zorzi e Avanguardia Nazionale. Ma anche Sofri ha recentemente rivelato di aver ricevuto da parte di D’Amato la proposta di cooperare per l’esecuzione di un omicidio. Quindi l’Ufficio Affari Riservati aveva collegamenti non ortodossi sia a destra che a sinistra?Non c’e’ dubbio. D’altronde, anche in questo caso è lo stesso D’Amato a confermarlo nella già citata lettera inviata a Rognoni nel luglio 1981 e che riporto all’inizio del libro. Rognoni, all’epoca, aveva chiesto a D’Amato di fornire spiegazioni sul perché si fosse iscritto alla loggia P2 (il nome di D’Amato infatti comparve nelle note liste ritrovate nel marzo 1981 a Castiglion Fibocchi negli uffici della Giole di Licio Gelli). D’Amato scrisse allora una polemica lettera di risposta, affermando di essersi incontrato con Gelli al solo ed esclusivo fine di raccogliere informazioni sulle attività della P2 e che se per questo doveva essere considerato un sodale del Venerabile allora Rognoni lo avrebbe dovuto considerare anche un fiancheggiatore del terrorismo rosso o nero, visto che, sempre a fini informativi, aveva avuto rapporti con l’estrema destra e con l’estrema sinistra. Queste le parole testuali di D’Amato; “Operando in modo autonomo e personale, ho preso contatto e ho sviluppato rapporti in tutti i settori e con ogni persona che ritenevo utile a tali fini. Se le mie frequentazioni dovessero essere interpretate come una scelta, io, come chiunque peraltro svolga compiti di tale genere, potrei essere considerato, caso per caso, fiancheggiatore di Autonomia Operaia o del terrorismo palestinese, agente del servizio americano o sovietico, emissario di questo o di quel partito politico (…)” In Commissione Stragi, Andreotti (che con D’Amato ebbe pessimi rapporti) definì inquietante questo documento. In effetti colpisce il modo sfrontato ed allusivo con il quale l’ex capo dell’Uar si rivolgeva al ministro dell’Interno in carica, “invitandolo” a smetterla di accusarlo, perché, si legge chiaramente tra le righe, altrimenti lui sarebbe stato in grado di far “tremare” il palazzo. Un lavoro unico nella storia d’Italia e per questo motivo immagino abbia incontrato delle difficoltà nel reperimento delle fonti. Quanto è stato complicato il “puro lavoro da storico”?Come è stato accolto il libro? Ritieni di aver, in qualche modo, svolto un lavoro scomodo?In passato gli storici hanno avuto una forte riluttanza ad occuparsi di vicende quali servizi segreti/strategia della tensione ecc., sia perché si tratta di argomenti in cui è forte il rischio di prestarsi ad interpretazioni dietrologiche tese solo alla ricerca dello scoop a sensazione, sia perché si riteneva non fosse possibile “fare storia” su avvenimenti troppo recenti e sui quali la documentazione è scarsa e di bassa attendibilità scientifica. Oggi, finalmente, anche fra gli storici le cose stanno cambiando e, d’altronde, ormai uno dei problemi principali è spesso proprio la sovrabbondanza di materiale e la conseguente necessità, specie allorché si maneggiano documenti dei servizi, di un rigoroso vaglio critico che consenta di separare ciò che è attendibile dalle classiche “patacche”. Quanto al rischio del sensazionalismo, io credo che dietrologia ci sia quando si parte da una idea precostituita e poi si vanno a cercare le prove che ci danno ragione. A quel punto si procede attraverso deduzioni e si elimina o sottovaluta tutto quello che, apparentemente, smentisce la nostra tesi di partenza. Per fare un esempio su un argomento che conosci molto bene; prendi il caso Moro. Se, prima ancora di guardare le carte, io mi convinco che Moro lo ha rapito la Cia, sarò poi in grado di trovare decine di elementi che apparentemente mi danno ragione, perché sistematicamente non considero o svaluto quelli che mi danno torto. Al tempo stesso se, sempre prima di guardare le stesse carte di cui sopra, sono già certo che dietro al caso Moro c’e’ il KGB, sarò a mia volta in grado di trovare altrettante evidenze che confermano la mia tesi di partenza, sempre perché andrò sistematicamente a eliminare quelle che mi danno torto. Ecco, senza falsa modestia credo, nell’analizzare la storia dell’Uar, di non aver commesso il “classico” errore metodologico di partire dalle conclusioni e poi di andare a trovare i documenti che supportano le mie tesi di partenza. Per questo non penso di aver scritto un libro “scomodo” e spero non venga considerato come tale. D’altronde, sebbene nel libro vi siano numerosi documenti inediti (alcuni, credo, di particolare rilievo) la mia intenzione non era quella di fare la “rivelazione sensazionale” (e ringrazio l’editore che mai mi ha chiesto, magari al fine di incentivare le vendite, una cosa simile), ma di provare a lumeggiare una parte di storia italiana che fino ad oggi aveva goduto di limitata attenzione. Quanto all’accoglienza del libro, non mi posso lamentare, visto che, a parte qualche media che lo ha del tutto ignorato, è stato comunque ottimamente recensito da buona parte della stampa nazionale.
La sapete una cosa? Comincio a pensare che dovrebbero essere aboliti i giorni della memoria... Questo in generale, ma per quanto riguarda il nostro Paese, in particolare. Ma vi sembra che qualcuno abbia voglia di ricordare davvero? A furia di ricordare ci si potrebbe accorgere di una verità sotto il naso e magari incazzarsi (presente Poe, La lettera rubata?). Un esempio? Un presidente del consiglio piduista (cioè che usava le istituzioni per fare business all'ombra della legalità), un ministro della difesa ex fascista, tra i più facinorosi, di quel fascismo degli anni '70 che ancora si rifaceva a J. Borghese, alle teste vuote della XMAS, e alla repubblica(?) di Salò. Per non parlare delle strumentalizzazioni, delle parole non credibili di chi utilizza queste occasioni come vetrine personali. Vale davvero la pena ricordare? A quanto pare non serve o non basta. E l'ultima intervista di Licio Gelli parrebbe confermare che le cose non cambieranno mai (> leggi<) Secondo me sarebbe molto meglio se gli italiani iniziassero a leggere. Ma è molto più facile fare una finta manifestazione che impegnarsi davvero a cambiare le cose. Buoni ricordi a tutti
Lo scorso 12 marzo, sul sito dell’editore ChiareLettere, la giornalista Stefania Limiti ha pubblicato >un’intervista ad un testimone di eccellenza della vicenda Moro<. All’epoca dei fatti era un militare di leva che fu chiamato, assieme ad altri 9 commilitoni, a partecipare ad un’operazione speciale. I dieci giovanotti furono portati a Roma e fu assegnato loro un compito delicato e, probabilmente, pericoloso: sorvegliare un appartamento prospiciente a Villa Bonelli, che si riteneva essere la cosiddetta “prigione del popolo”.
La notizia in sé non è una grande novità. Ne aveva già parlato la stessa Limiti in un quasi clandestino trafiletto sul settimanale L’Espresso (avevo anche >commentato< la faccenda sul blog nel novembre del 2009).
L’obiettivo del trafiletto, da quello che mi è parso, credo che fosse il tentativo di smuovere l’inchiesta sul dossier prodotto da questo testimone.
Naturalmente, quel primo accenno fu sufficiente a sguinzagliare il fiuto di tanti segugi che per passione o lavoro si interessano del caso Moro. E così in tanti hanno iniziato a lavorare su quel trafiletto.
Ed, infatti, per “gli addetti ai lavori” la questione non rappresenta un “mistero”. Si sanno molte cose oltre a quelle che ha raccontato la brava Stefania alla quale deve essere riconosciuto il coraggio di rendere di dominio pubblico le informazioni stimolando, con il suo articolo, ad approfondire gli importanti elementi che quello che lei chiama “il signor Mario” ha avuto modo di raccontarle.
Ritengo che adesso se ne possa parlare un po’, con la dovuta cautela e rispettando il testimone e tutto ciò che ha ritenuto di raccontare.
La storia parte da molto lontano, dall’autunno del 2008 quando Mario, a seguito del mare di pubblicazioni che seguirono il trentennale di questa dolorosa vicenda, decise di rendere pubblico ciò che da 30 anni custodiva tra i ricordi personali. E di cose, Mario, ne ha ricordate e riferite tante.
Stefania Limiti ha parlato di microfoni ad alta ricezione installati nell’appartamento del primo piano per “origliare” in quello brigatista. E parla anche di controllo dei bidoni della spazzatura. La cosa avveniva utilizzando un “falso” camion della Nettezza Urbana e falsi spazzini.
Un giorno, nel coordinare le operazioni di prelevamento della spazzatura, ci fu un tamponamento tra il camion ed un’alfasud “caffelatte” che si aggirava in strada. Nacque un piccolo litigio che rischiò, secondo il sig. Mario, di allarmare i brigatisti compromettendo l’operazione. Entrambi i mezzi erano di disponibilità degli uomini impegnati nel controllo dell’appartamento.
Il sig. Mario parla anche della preparazione di un blitz che, giorno dopo giorno, appariva sempre più vicino. In previsione di ciò, uno dei compiti del gruppo era di contattare gli inquilini, con molta discrezione, per predisporre un temporaneo allontanamento dalle loro abitazioni mettendoli al riparo da rischi ed evitando intralci.
Di osservazioni ce ne sarebbero molte. Volendo delimitare il campo, possiamo provare ad iniziare con un paio:
- un’alfasud beige compare in via Fani subito dopo la fuga del commando, un’auto del Ministero dell’Interno in “borghese” dalla quale alcuni testimoni vedono scendere persone che sembrano poliziotti (ne parlo sia in Vuoto a perdere che in Via Fani ore 9.02 scritto con l’amico Romano Bianco). Quest’auto rappresenta uno di quegli interrogativi che è stato possibile porsi solo a distanza di 30 anni. Un’alfasud chiara è legata alle minacce ricevute dal figlio dell’edicolante Paolo Pistolesi, testimone chiave dell’agguato di via Fani. Se si trattasse della stessa macchina avremmo diversi indizi che portano in una stessa direzione: qualcuno nello Stato sapeva dell’agguato e sapeva della prigione, non è intervenuto in via Fani e non è intervenuto in via Montalcini. Si è limitato ad osservare;
- in un appartamento furono installate delle attrezzature (microfoni e registratori), altri inquilini furono avvicinati per valutare la possibilità di un loro spostamento. Se ne deve dedurre, se così fosse, che tutte queste persone abbiano subito pesanti minacce in quanto nulla di tutto ciò è mai stato riferito agli inquirenti che hanno interrogato, più volte, i condomini di quello stabile.
Sono passati 33 anni e credo sia giunto il momento di lanciare un appello sia ai commilitoni di Mario sia agli inquilini di via Montalcini n. 8: lo so che è difficile, che ci vuole molto coraggio, che forse a distanza di tanti anni potrebbe non servire nemmeno per scoprire la verità su quella vicenda. Ma proviamoci, con tutte le cautele del caso nei confronti delle persone. Abbiate fiducia. Forse se a parlare è uno solo, il rischio di essere “insabbiato” o di subire conseguenze è concreto. Ma se a parlare sono in tanti, queste voci hanno davvero l’opportunità di cambiare la storia. E mai come in questo momento il nostro Paese ne avrebbe davvero bisogno.
E' di questi giorni la notizia che una ex militante della RAF, Birgit Hogefeld, sia stata rimessa in libertà dalla magistratura tedesca. > Leggi la notizia< La Hogefeld si era resa colpevole dell'uccisione di un soldato americano nel 1985 e di un assalto ad una base militare USA in Germania. Nel 1996 era stata condannata all'ergastolo dopo essere stata arrestata nel 1993. In totale, quindi, 18 anni di carcere. Sappiamo tutti cosa è successo in Italia alla sola notizia che al latitante (per la nostra giustizia) Cesare Battisti era stata negata l'estradizione da parte del Brasile. Boicottaggi, manifestazioni, chiamate alle armi. Senza entrare nel dettaglio, la decisione brasiliana nulla avrebbe da eccepire in termini di diritto internazionale: nessun Paese concede l'estradizione verso un altro Paese che prevede, per lo stesso reato, pene più severe. E' come se l'Italia estradasse una donna islamica che, secondo la legge del suo Paese, avesse commesso un grave reato "morale" per il quale è prevista la lapidazione. Noi che ci definiamo democrazia avanzata, non siamo riusciti ancora a chiudere i conti con un passato che, per carità di Patria, abbiamo frettolosamente liquidato come “follia generazionale omicida”. E ne continuiamo a pagare le conseguenze. La Germania, che pure ha avuto un fenomeno di lotta armata lungo e sanguinoso, ha avuto il coraggio di analizzare le contraddizioni della sua società, ha ammesso i propri errori, ha saputo trovare delle pene adeguate ai singoli tenendo conto che si trattava di fenomeni collettivi. Consiglio a tutti il film “La banda Baader Meinhoff” e invito ad ascoltare con attenzione anche le interviste in appendice. Davvero illuminanti per capire le differenze tra la situazione italiana e tedesca. Le pene vanno comminate e fatte rispettare, ma se uno Stato non è in grado di farlo perchè concede "un aiutino" a chi non è conveniente perseguire più di tanto (vedi Casimirri) io non faccio parte di coloro che vorrebbero vedere Pinochet impiccato in una pubblica piazza. Mi basterebbe far si che tutti conoscano la verità sui crimini da lui commessi e che siano da monito per altri affinchè non siano reiterai. La vendetta non serve a nulla, se non ai soliti potenti che possono continuare a contare su chi proseguirà a tenere la bocca chiusa. Il problema vero è che da noi lo Stato ha infranto le sue leggi non per tutelare l’interesse della democrazia (polis o pietas) ma per garantire piccoli interessi di bottega. Con il risultato di blindare certe verità e farle diventare continuo ed efficace strumento di ricatto. Con il risultato che la scia di morti si è allungata e che una serie di personaggi, da una parte e dall’altra, hanno acquisito molto potere. E continuano a mantenerlo dato che sono ancora in ballo. Per parafrasare la splendida trasmissione di Arbore degli anni ’80 (che in questo periodo stanno incredibilmente ritrasmettendo in TV al mattino presto) non credo ci siano dubbi a rispondere alla domanda iniziale: io non so se la Germania sia democratica o meno. Ma di certo so che non lo siamo noi perché se democrazia vuol dire “potere del popolo” in Italia il popolo non ha mai contato nulla e gli affari sono stati fatti sempre alle sue spalle e sulla sua pelle.
Sarà in libreria fra pochi giorni un nuovo lavoro di Giorgio Guidelli, giornalista de "Il Resto del Carlino" che ho il piacere di annoverare tra i più cari amici e con il quale condivido la passione per lo studio degli anni di piombo. La sua nuova fatica letteraria è, come al solito, un'inedito lavoro di approfondimento che scava nella vita di Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua ucciso dalle forze dell'ordine l'11 marzo 1977 a Bologna durante una manifestazione. Inedito perchè si dà per scontato che i militanti di Lotta Continua e dei movimenti extraparlamentari degli anni 60-70 fossero dei marxisti-leninisti votati alla sola fede della violenza. Ed invece Guidelli, che si è posto il problema per primo, ha cercato di capire meglio, di scavare tra i ricordi e ha scritto questo bellissimo testo che restituisce alla storia il ritratto di un ragazzo comune impegnato tra fede, politica e sport. La storia che ci racconta Guidelli è il frutto di una ricostruzione rigorosa che comprende le testimonianze di decine di amici ed ex scout, corredate da immagini dell'epoca. E proprio da una foto in bianco e nero dimenticata in un vecchio album, che ritrae Lorusso in preghiera durante un campo scout, parte il racconto dell'altra vita del ragazzo che fece piangere l'Italia. Un libro snello che si caratterizza per la straordinaria leggerezza della penna di Giorgio Guidelli che sa coniugare la rigorosità dei contenuti alla piacevolezza di un'opera letteraria senza mai stancare il lettore e cogliendo sempre il cuore degli eventi. Un gran libro, insomma. Una tappa obbligata per chi vuol capire meglio quegli anni, quelle manifestazioni che oggi tornano tristemente nelle pagine di cronaca, o per chi vuole scoprire un nuovo modo di divulgazione delle nostre pagine contemporanee, che molti si sono affrettati a voltare senza leggerle. Prestissimo, una recensione ed una nuova intervista a Giorgio Guidelli PS Vi segnalo anche una bella intervista di Guidelli sul medesimo argomento su e il bellissimo evento che ha visto protagonista il suo libro su Roberto Peci che ha arricchito la manifestazione "Riparliamo degli anni '70"
Come avevo preannunciato nel precedente post, sarà disponibile dalla prossima settimana il bel libro di Giorgio Guidelli che racconta la breve vita di Francesco Lo Russo, ragazzo simbolo dei movimenti del '77 che fu ucciso durante una manifestazione a Bologna l'11 marzo del 1977. A Pesaro, presso 'auditorium della Chiesa dell'Annunziata, mercoledi 23 novembre alle ore 18.00 Giorgio Guidelli presenterà in anteprima il suo nuovo libro che traccia un ritratto del tutto inedito del giovane morto negli scontri di Bologna del '77. Interverranno: prof. Glauco GENGA, relatore dott. Gaetano BUTTAFARRO, moderatore Giorgio GUIDELLI, autore autorità cittadine Consiglio a tutti coloro che ne hanno la possibilità, anche a costo di un piccolo sacrificio in termini di Km, di essere presenti. Giorgio è un giornalista colto, brillante e soprattutto intellettualmente onesto. Il suo è un libro che potrà cambiare non poco il punto di vista con il quale ciascuno di noi ha osservato quei movimenti, quegli anni. Il giorno infrasettimanale purtroppo non mi consentirà di essere in sala, ma spero di poter assistere ad altre presentazioni che sicuramente non mancheranno. Per conoscere meglio Giorgio e quello che scrive, consiglio a tutti di seguire il suo blog Parole di piombo che da qualche anno è ospitato dal giornale per il quale lavora.
Uno dei luoghi comuni della dietrologia all'italiana legata al caso Moro riguarda un poliziotto di nome Cioppa, Commissario Elio Cioppa, vice capo della Squadra Mobile di Roma. Un uomo operativo, scopriamo oggi grazie ad un'intervista di Patrizio J. Macci > Leggi<, uno che si buttava nella mischia quando le manifestazioni si facevano dure, uno che si è beccato una molotov sulle gambe ed ancora oggi porta i segni di quell'azzoppamento. Ma per la storia, rischia di passare per l'uomo che avrebbe potuto salvare Aldo Moro ed invece operò nell'ombra per insabbiare importanti informazioni che avrebbero finito per agevolare i brigatisti. La storia è semplice ma, come spesso accade quando si vuole vedere il mistero a tutti i costi, viene raccontata in modo semplicistico e letta in maniera fuorviante. Ciò che molti testi riportano è che il 18 marzo (quindi dopo soli due giorni dall'agguato di via Fani) 4 agenti in borghese, si sarebbero presentati in via Gradoli per dei controlli che in quei giorni riguardavano tutta la città di Roma. Nella palazzina al civico 96, bussarono a diverse abitazioni, tra cui l'interno 11 (nel quale il 18 aprile sarà scoperto uno dei covi più importanti della colonna romana delle BR). Non ricevendo risposta i poliziotti presero informazioni sui suoi abitanti direttamente dagli altri inquilini ricevendo rassicurazioni perchè si trattava di una giovane coppia che stava fuori casa tutto il giorno per lavoro (lui pareva un agente di commercio, un rappresentante). Accanto all'interno 11, però, un'altra giovane coppia rispose al campanello: si trattava di Gianni Diana e Lucia Mokbel. La donna segnalò ai poliziotti che la notte precedente aveva udito dei “ticchettii” provenire proprio dall'abitazione dei loro vicini, rumori tipici di chi utilizza un'apparecchiatura per segnali Morse. Disse di avere un amico all'interno della Questura e chiese se gli agenti potessero riferire questa informazione. A loro volta, questi, scrissero degli appunti su un foglietto di carta che la Mokbel sottoscrisse. Destinatario del biglietto Elio Cioppa. L'appunto, però, sparì e l'informazione si perse. Nel 1981 si scoprì che il nome di Elio Cioppa figurava tra gli iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli, gruppo fortemente filo-atlantico al quale appartenevano personaggi molto importanti tra cui gli stessi vertici dei servizi e delle Forze Armate. La Loggia, secondo tanti, avrebbe utilizzato tutti gli strumenti in proprio possesso per intralciare le indagini o addirittura “pilotare” le BR per giungere all'uccisione del prigioniero in loro possesso. La morale di questa storiella, per chi ha abusato con la dietrologia, è apparsa fin troppo semplice: un gruppo di quattro agenti avrebbe fatto delle perlustrazioni dopo sole 48 dal rapimento di Moro, in una via che sarebbe poi risultata essere “molto calda”, avrebbero commesso la leggerezza di non sfondare la porta dell'interno 11, avrebbero poi raccolto un'informazione molto importante relativa ad una base delle BR frequentata da brigatisti legati alla prigione di Moro (Moretti), e tale informazione si sarebbe persa prima o dopo essere stata consegnata al suo destinatario Elio Cioppa. Un insabbiamento che avrebbe potuto portare al pedinamento di Moretti e quindi alla prigione di Moro. Grande vecchio di questa operazione, Elio Cioppa, piduista Ma le letture forzate, come spesso accade, non pagano. E non rendono giustizia alla storia ed alle persone. Peccato che spesso giungano proprio da coloro che invocano la verità, quella vera, invocando il diritto a sapere da parte dei familiari delle tante vittime innocenti di quegli anni. E tacciando gli altri di essere irrispettosi proprio di queste vittime. In questi giorni esce un libro, l'ennesimo si potrebbe dire, che aggiunge altri centimetri allo scaffale delle pubblicazioni sul caso Moro e un centinaio di pagine in più sulla strada della conoscenza (“Cioppa, quarant'anni di segreti di Roma e d'Italia” ABCom editore) . Per la prima volta in assoluto, Elio Cioppa ha risposto alle domande di un giornalista che ha cercato di scavare nella sua storia, per rispondere ad una precisa domanda: “mi trovo innanzi all'uomo che avrebbe potuto salvare Aldo Moro ma che, invece, contribuì alla sua uccisione?”. La risposta che Macci si dà a questo interrogativo che lo ha accompagnato nel corso della sua intervista è negativa. Categoricamente negativa. La vera notizia che emerge dal bell'articolo è che Cioppa si sarebbe iscritto alla P2 nel settembre del 1978 su invito di Umberto Ortolani per risolvere un banale problema di servizio: si era visto negare un posto che secondo lui gli spettava e la P2 gli era stata presentata come un qualcosa che avrebbe potuto esercitare pressioni per restituirgli il maltolto. Sempre nel settembre del '78, fu chiamato da Grassini ad aprire un ufficio dei servizi a Piazza Barberini e per conto del Generale n. 1 del SISDE svolse delle indagini “politiche” sulla vicenda Moro. Nell'ambito dell'organigramma dell'intelligence era Capo Centro 2. Poca roba. Così come poca roba sarebbe stata il resto della sua carriera, nonostante un curriculum di tutto rispetto e tanta esperienza in prima linea con tanto di botte prese e date. Ma la cosa che depura definitivamente la questione nella quale sarebbe stato tirato in ballo Cioppa è che non ci fu nessuna perquisizione il 18 marzo. Ce lo dice la stessa Mokbel nel suo primo verbale di fronte alla DIGOS di Roma alle 14.20 del 18 aprile 1978: in quella sede la donna parlò di una voce di donna provenire da dietro la porta dell'interno 11 la sera del sabato Santo (quindi 25 marzo 1978) e di una notte di “circa 20 giorni fa” (quindi fine marzo inizio aprile '78) quando fu svegliata tra le 3 e le 4 da rumori che lei attribuì a segnali Morse dei quali però non seppe identificare la provenienza precisa. La donna aggiunse “desidero precisare che al mattino successivo sono venuti degli agenti in borghese a controllare le abitazioni del palazzo, ai quali ho accennato che la notte stessa avevo appena sentito quanto sopra detto. Poi gli agenti sono andati via”. Questo primo verbale fu fatto congiuntamente dalla coppia Diana-Mokbel all'epoca fidanzati. Alle 21.35 dello stesso 18 aprile, però, il solo Gianni Diana si ripresentò alla DIGOS e alla presenza di Nicola Simone (il funzionario che accompagnò l'On. Cazora in via della Camilluccia 551 il giorno prima dell'uccisione di Moro, e che fu oggetto di attentato da parte delle stesse BR nel gennaio del 1982) cambiò la versione della sua convivente. Diana disse che aveva in uso l'appartamento da circa un mese e mezzo, e che da 4-5 giorni si era accorto che l'appartamento all'interno 11 era occupato. Raccontò un curioso episodio avvenuto qualche sera prima: uscì sul pianerottolo per aspettare la sua fidanzata (che riteneva essere giunta sotto casa avendo sentito il rumore di un'auto) e “da dietro la porta dell'interno 11 ho udito una voce femminile che con tono apprensivo, quasi che invocasse o avesse paura, ha detto: 'Gianni! Gianni'”. Non ritenne la cosa indirizzata a lui in quanto conosciuto nella palazzina solo da due “collaboratori” che lavoravano con lui nello studio del Commercialista Dott. Bianchi in via Ximenes n. 21 (ufficio presso il quale Diana si dichiarava domiciliato, essendo egli residente a Viterbo). Si trattava di Pier Carlo Pucci (interno 6) e Sara Iannone (interno 11 scala B, praticamente l'appartamento “gemello” al covo delle Brigate Rosse). Diana però portò anche una correzione alle parole della Mokbel in seguito ad una domanda posta dal Dott. Simone: “Devo dire che un paio di giorni dopo il rapimento dell'On. Moro, di notte, verso le 3 mentre mi trovavo nel mio appartamento con la mia ragazza, lei mi ha svegliato facendomi notare che si sentivano degli strani segnali, tipo alfabeto Morse. Però non ci siamo resi conto da dove i segnali provenissero. Si udivano nel silenzio della notte però a momenti sembravano vicini, a momenti lontani. Di conseguenza avevamo deciso di parlarne con il Dott. Cioppa, conoscente della mia ragazza. Però l'indomani sono venuti a ispezionare l'appartamento degli agenti di Polizia ai quali abbiamo riferito la circostanza”. Quindi non si trattava più una notte di venti giorni prima, ma un paio di giorni dopo il rapimento di Moro. Altre testimonianze raccolte il 18 aprile, però, parlano sempre di perquisizioni generiche avvenute circa tre settimane prima. Addirittura ne parlano al microfono di Giò Marrazzo due signore che abitavano nello stesso stabile. Una delle due è proprio la signora Nunzia Damiano che si accorse della famosa perdita d'acqua che poi provocò la scoperta del covo brigatista. Il tutto non si spiega se non ci si pone il problema di cosa sia successo circa tre settimane prima del 18 aprile e che avrebbe potuto portare ad un sommario sopralluogo in via Gradoli. La notte tra il 31 marzo ed il primo aprile, l'On. democristiano Benito Cazora fu accompagnato in auto sulla Cassia da alcuni malavitosi calabresi che si erano offerti di fornire il proprio aiuto nella ricerca della prigione di Aldo Moro. All'altezza dell'incrocio con via Gradoli gli venne detto “questa è la zona calda”. Cazora si recò nella stessa serata dal Questore De Francesco e raccontò tutto al capo della DIGOS di Roma Domenico Spinella. Il giorno dopo tornò in Questura e gli fu detto che erano state fatte delle verifiche che avevano dato esito negativo. E' questo che si è voluto coprire con la retro-datazione di quella perquisizione al 18 marzo? La pista di Cazora, che come si sa ebbe molti problemi dal suo attivo interessamento per la liberazione di Moro? L'episodio avvenne, guarda caso, proprio nei giorni in cui anche Francesco Fonti (malavitoso calabrese che in seguito si sarebbe pentito e che ha raccontato i particolari del suo interessamento al caso Moro nel 2009 a Riccardo Bocca) fu portato in via Gradoli dai contatti che la 'ndrangheta aveva a Roma e che passavano per la banda della Magliana. E proprio nello stesso periodo in cui sembra che anche i servizi segreti avessero avuto la stessa informativa ed erano pronti ad un blitz (sempre secondo le parole di Fonti). Il giornalista Gian Paolo Pelizzaro scoprirà, a distanza di tanti anni, la presenza di tanti appartamenti e di società legate ai servizi segreti proprio tra le due palazzine al civico 96 di via Gradoli. Una di queste società era proprio lo studio di via Ximenes. Sara Iannone, tra l'altro, querelò Pelizzaro per diffamazione ma il Tribunale, con sentenza passata in giudicato, le diede torto in quanto negli articoli scritti per il mensile Area il fatto che la Iannone lavorasse presso strutture riconducibili ai servizi non dovesse essere ritenuto né un insulto né, tanto meno, una diffamazione. Far ricadere la “colpa” sul poliziotto Cioppa (il cui nome fu trovato negli elenchi della P2) è stato un utile depistaggio per coprire, evidentemente, strutture e interessi che i servizi segreti avevano già in via Gradoli 30 anni prima dello scandalo di Marrazzo (Piero, ironia della sorte figlio di Giò) e che con molta probabilità riguardavano altre centinaia di appartamenti sparsi in tutta Roma. Come spesso accade, non è detto che degli elementi singoli possano essere sommati. Occorre tener presente le unità di misura. E a sommare chilometri con chilogrammi non si percorre molta strada... Per maggiori approfondimenti http://www.vuotoaperdere.org/dblog/articolo.asp?articolo=127 Vuoto a perdere, la vicenda Cazora Intervista a Francesco FontiMarco Cazora su Francesco Fonti
Ho da poco terminato la lettura di uno dei libri recentemente dati alle stampe riguardanti la vicenda delle BR. In “Colpo al cuore” Nicola Rao racconta gli ultimi mesi della storia delle BR osservata da due punti di vista privilegiati che, alla fine convergeranno, ritrovandosi assieme sugli opposti fronti, nel blitz che vide la liberazione del Generale Dozier prigioniero della colonna veneta delle BR. Le due anime del racconto sono Antonio Savasta, dirigente brigatista di prim’ordine, responsabile del sequestro Dozier e capo della colonna veneta e Salvatore Genova, commissario di Polizia che iniziò la sua carriera nella città di Genova ma che, per le abilità dimostrate nel contrastare l’azione brigatista nel capoluogo ligure fu chiamato dal Questore Umberto Improta per dare una mano per la liberazione di Dozier che, a causa della forte pressione statunitense sul governo italiano, stava diventando una questione di Stato molto delicata. Il racconto delle due “carriere” cresce parallelamente. Anche se Antonio Savasta ha parlato molto con gli inquirenti dando loro la possibilità di smantellare gli ultimi residui di velleità brigatiste e raccontando anche dei contatti internazionali delle BR, mai aveva fornito un racconto personale, che desse voce al suo vissuto di brigatista, che esprimesse l’esperienza della militanza sua e dei suoi compagni di viaggio in particolar modo per azioni che ancora oggi procurano dolore al solo pensiero come il sequestro e l’omicidio di Giuseppe Taliercio, direttore del petrolchimico di Porto Marghera. L’operazione nacque come “processo” alla politica anti-operaia della Montedison per ribadire la vocazione di fabbrica delle BR-PCC e tentare una ricomposizione con le BR-PG di Senzani e l’ormai autonoma colonna milanese Walter Alasia. Il tentativo, insomma, di portare avanti una “campagna esemplare” che desse l’esempio alle altre fazioni brigatiste nella convinzione che l’azione le riportasse sulla linea dell’organizzazione principale. Ma le cose non andarono così e quando il comitato esecutivo (composto da Savasta, Barbara Balzerani e Luigi Novelli ) decise per la morte del prigioniero in assenza del ritiro della cassa integrazione annunciata dalla Montedison, i militanti della colonna veneta minacciarono la fuoriuscita. Si giunse così al 5 luglio. Dopo 46 giorni di prigionia e maltrattamenti, Taliercio venne assassinato proprio da Savasta. Oggi, grazie al racconto che Savasta ha fatto a Nicola Rao sappiamo alcune cose in più, soprattutto riguardo la lacerazione interna del brigatista ed alle conseguenze che quella morte ebbe sull’intera organizzazione. Il libro, secondo me ingiustamente ma mi rendo conto che per i giornalisti la Notizia con la Enne maiuscola è un’altra, è passato alla cronaca per le “pratiche” poco ortodosse di un funzionario della Polizia dell’epoca che, senza mezzi termini, ha ammesso di aver praticato la tortura nei confronti dei prigionieri delle Brigate Rosse perché il momento esigeva che si ottenessero risultati con qualsiasi mezzo. Una tortura scientificamente preparata, con uomini addestrati alla tecnica del waterboarding attraverso la quale si simula una morte per annegamento facendo bere al malcapitato grandi quantità di acqua e sale. La tecnica fu utilizzata una prima volta nei confronti del tipografo Enrico Triaca, arrestato nel maggio del ’78 poco dopo l’uccisione di Aldo Moro. Il brigatista denunciò le torture subite ma il giudice non gli credette e lo condannò per diffamazione. Tanto bastò, però, per suggerire al “prof. De Tormentis” (così veniva chiamato nell’ambiente il funzionario) di sospendere il suo rito in quanto eventuali altre denunce avrebbero potuto condurre alla verità. Lo sdegno per aver avuto tra le Forze dell’Ordine personaggi squallidi e animaleschi sino a tal punto, è forte. Non la sorpresa. Chi conosce bene i fatti, chi ha studiato le carte, chi ha parlato con i protagonisti di entrambe le parti sa bene che la versione ufficiale che il fenomeno della lotta armata è stato debellato grazie a leggi democratiche e all’azione dei pentiti è una favola sul cui lieto fine in molti si sono rifatti una verginità e costruito nuove carriere. Dietro i discorsi dei vari Ministri dell’Interno e Presidenti del Consiglio che spacciavano la tutela delle leggi democratiche negando qualsiasi legame tra crimini commessi e matrice politico-ideologica, c’erano le leggi d’emergenza (per mezzo delle quali le pene venivano comminate non in funzione della gravità del reato ma in funzione della propria identità politica) e le carceri speciali (veri e propri circuiti di gettizzazione, punizione e riduzione ideologica nel quale finivano anche militanti marginali tirati in ballo da pentiti e che erano solo fiancheggiatori o prestanome). A livello occulto per l’opinione pubblica, invece, si usava con metodi più o meno cruenti la tortura (nel bel film di Aurelio Grimaldi “Se ci sarà luce sarà bellissimo” c’è un esempio che ci fa intendere di come la pratica sia stata diffusa a tutti i livelli). La storia del “carcerario”, tra l’altro, è ancora tutta da raccontare e mi auguro che qualcuno un giorno troverà la voglia e lo stomaco per scriverla. Bene fa, a tal proposito, Nicola Rao a riportare alla giusta dimensione un personaggio come Alberto Franceschini che oggi vorrebbe farci passare l’idea di un se stesso “rivoluzionario romantico” e che la violenza appartenne non alle “sue” BR ma a quelle del periodo successivo al suo arresto, pilotate da chissà quale entità superiore e condotte da Mario Moretti, spia di chissà quale servizio nostrano o estero. E invece Franceschini è stato tra i più violenti, uno che in carcere organizzava le violenze e decideva la morte di chi era ceduto alle torture confessando anche solo fatti minori. Uno che con i suoi scritti contribuiva a seminare odio e morte incitando i compagni fuori dal carcere subissandoli di analisi della realtà che farebbero pensare ad un largo uso di stupefacenti del capo storico. Un ex brigatista che stava dalla sua parte, parlando di Franceschini, me lo ha definito come “terrorista dentro, uno che ammazzerebbe anche la madre per le proprie finalità”. Non per un ideale, per squilibrio. La verità di quegli anni poco alla volta verrà a galla. Forse il primo tassello potrà essere proprio il nome di quel “De Tormentis” che stando agli elementi che ha raccolto Paolo Persichetti nel suo articolo di ieri su Liberazione >Leggi http://baruda.net/2011/12/10/torturetana-per-de-tormentis-e-ora-che-il-mastro-torturatore-ditalia-si-faccia-avanti/ < ha ormai un nome e cognome. Poliziotto per trent’anni, congedato come Questore, catturò Luciano Liggio al fianco del Questore Mangano > Indizio 0<, approdò all’antiterrorismo di Santillo (in questo senso nel 76-77 ascoltò in carcere Ronald Stark, informatore infiltrato > Indizio 1<), figura nella ormai storica fotografia che ritrae gli investigatori attorno alla R4 che conteneva il corpo di Moro il 9 maggio 1978 > Indizio 2 <, nel gennaio del 2001 ha scritto un articolo per il mensile massonico “Il razionale” > Indizio 3 <, è stato Commissario per La Fiamma Tricolore nel 2004 > Indizio 4 <, iscritto all’Ordine degli Avvocati della provincia di Napoli dal 1984 > Indizio 5 <. Insomma Avv. Nicola Ciocia, gli indizi porterebbero a lei. Certo è che questo libro ha portato una animata discussione tra chi attacca queste pratiche, chi le difende, chi le nega e chi le giustifica. Il solito dibattito all’italiana che si fa sui giornali, in TV, in rete. Ovunque fuorchè nelle sedi predisposte: i tribunali. Eh si, tutti sanno ma tutti nascondono. Tutti fanno i moralisti ma nessuno è disposto ad esibire il proprio certificato di “anima trasparente”. Spero che libro e dibattito possano servire almeno ad aprire un’inchiesta seria per chiarire chi ha messo in atto quelle orrende pratiche, chi le ha ordinate all’interno delle forze investigative, chi le ha coperte e chi, a livello politico, ha concesso il lasciapassare che ad oltre trent’anni si è rivelato un salvacondotto.
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