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Colpo al cuore. Delle BR o della Democrazia?
Di Manlio (del 12/12/2011 @ 15:42:00, in Attualitā, linkato 4905 volte)
Ho da poco terminato la lettura di uno dei libri recentemente dati alle stampe riguardanti la vicenda delle BR. In “Colpo al cuore” Nicola Rao racconta gli ultimi mesi della storia delle BR osservata da due punti di vista privilegiati che, alla fine convergeranno, ritrovandosi assieme sugli opposti fronti, nel blitz che vide la liberazione del Generale Dozier prigioniero della colonna veneta delle BR.
Le due anime del racconto sono Antonio Savasta, dirigente brigatista di prim’ordine, responsabile del sequestro Dozier e capo della colonna veneta e Salvatore Genova, commissario di Polizia che iniziò la sua carriera nella città di Genova ma che, per le abilità dimostrate nel contrastare l’azione brigatista nel capoluogo ligure fu chiamato dal Questore Umberto Improta per dare una mano per la liberazione di Dozier che, a causa della forte pressione statunitense sul governo italiano, stava diventando una questione di Stato molto delicata.

Il racconto delle due “carriere” cresce parallelamente.

Anche se Antonio Savasta ha parlato molto con gli inquirenti dando loro la possibilità di smantellare gli ultimi residui di velleità brigatiste e raccontando anche dei contatti internazionali delle BR, mai aveva fornito un racconto personale, che desse voce al suo vissuto di brigatista, che esprimesse l’esperienza della militanza sua e dei suoi compagni di viaggio in particolar modo per azioni che ancora oggi procurano dolore al solo pensiero come il sequestro e l’omicidio di Giuseppe Taliercio, direttore del petrolchimico di Porto Marghera.

L’operazione nacque come “processo” alla politica anti-operaia della Montedison per ribadire la vocazione di fabbrica delle BR-PCC e tentare una ricomposizione con le BR-PG di Senzani e l’ormai autonoma colonna milanese Walter Alasia. Il tentativo, insomma, di portare avanti una “campagna esemplare” che desse l’esempio alle altre fazioni brigatiste nella convinzione che l’azione le riportasse sulla linea dell’organizzazione principale.

Ma le cose non andarono così e quando il comitato esecutivo (composto da Savasta, Barbara Balzerani e Luigi Novelli ) decise per la morte del prigioniero in assenza del ritiro della cassa integrazione annunciata dalla Montedison, i militanti della colonna veneta minacciarono la fuoriuscita. Si giunse così al 5 luglio. Dopo 46 giorni di prigionia e maltrattamenti, Taliercio venne assassinato proprio da Savasta. Oggi, grazie al racconto che Savasta ha fatto a Nicola Rao sappiamo alcune cose in più, soprattutto riguardo la lacerazione interna del brigatista ed alle conseguenze che quella morte ebbe sull’intera organizzazione.
Il libro, secondo me ingiustamente ma mi rendo conto che per i giornalisti la Notizia con la Enne maiuscola è un’altra, è passato alla cronaca per le “pratiche” poco ortodosse di un funzionario della Polizia dell’epoca che, senza mezzi termini, ha ammesso di aver praticato la tortura nei confronti dei prigionieri delle Brigate Rosse perché il momento esigeva che si ottenessero risultati con qualsiasi mezzo. Una tortura scientificamente preparata, con uomini addestrati alla tecnica del waterboarding attraverso la quale si simula una morte per annegamento facendo bere al malcapitato grandi quantità di acqua e sale. La tecnica fu utilizzata una prima volta nei confronti del tipografo Enrico Triaca, arrestato nel maggio del ’78 poco dopo l’uccisione di Aldo Moro. Il brigatista denunciò le torture subite ma il giudice non gli credette e lo condannò per diffamazione. Tanto bastò, però, per suggerire al “prof. De Tormentis” (così veniva chiamato nell’ambiente il funzionario) di sospendere il suo rito in quanto eventuali altre denunce avrebbero potuto condurre alla verità.

Lo sdegno per aver avuto tra le Forze dell’Ordine personaggi squallidi e animaleschi sino a tal punto, è forte. Non la sorpresa. Chi conosce bene i fatti, chi ha studiato le carte, chi ha parlato con i protagonisti di entrambe le parti sa bene che la versione ufficiale che il fenomeno della lotta armata è stato debellato grazie a leggi democratiche e all’azione dei pentiti è una favola sul cui lieto fine in molti si sono rifatti una verginità e costruito nuove carriere. Dietro i discorsi dei vari Ministri dell’Interno e Presidenti del Consiglio che spacciavano la tutela delle leggi democratiche negando qualsiasi legame tra crimini commessi e matrice politico-ideologica, c’erano le leggi d’emergenza (per mezzo delle quali le pene venivano comminate non in funzione della gravità del reato ma in funzione della propria identità politica) e le carceri speciali (veri e propri circuiti di gettizzazione, punizione e riduzione ideologica nel quale finivano anche militanti marginali tirati in ballo da pentiti e che erano solo fiancheggiatori o prestanome). A livello occulto per l’opinione pubblica, invece, si usava con metodi più o meno cruenti la tortura (nel bel film di Aurelio Grimaldi “Se ci sarà luce sarà bellissimo” c’è un esempio che ci fa intendere di come la pratica sia stata diffusa a tutti i livelli).

La storia del “carcerario”, tra l’altro, è ancora tutta da raccontare e mi auguro che qualcuno un giorno troverà la voglia e lo stomaco per scriverla.

Bene fa, a tal proposito, Nicola Rao a riportare alla giusta dimensione un personaggio come Alberto Franceschini che oggi vorrebbe farci passare l’idea di un se stesso “rivoluzionario romantico” e che la violenza appartenne non alle “sue” BR ma a quelle del periodo successivo al suo arresto, pilotate da chissà quale entità superiore e condotte da Mario Moretti, spia di chissà quale servizio nostrano o estero. E invece Franceschini è stato tra i più violenti, uno che in carcere organizzava le violenze e decideva la morte di chi era ceduto alle torture confessando anche solo fatti minori. Uno che con i suoi scritti contribuiva a seminare odio e morte incitando i compagni fuori dal carcere subissandoli di analisi della realtà che farebbero pensare ad un largo uso di stupefacenti del capo storico. Un ex brigatista che stava dalla sua parte, parlando di Franceschini, me lo ha definito come “terrorista dentro, uno che ammazzerebbe anche la madre per le proprie finalità”. Non per un ideale, per squilibrio.

La verità di quegli anni poco alla volta verrà a galla. Forse il primo tassello potrà essere proprio il nome di quel “De Tormentis” che stando agli elementi che ha raccolto Paolo Persichetti nel suo articolo di ieri su Liberazione >Leggi http://baruda.net/2011/12/10/torturetana-per-de-tormentis-e-ora-che-il-mastro-torturatore-ditalia-si-faccia-avanti/ < ha ormai un nome e cognome. Poliziotto per trent’anni, congedato come Questore, catturò Luciano Liggio al fianco del Questore Mangano > Indizio 0<, approdò all’antiterrorismo di Santillo (in questo senso nel 76-77 ascoltò in carcere Ronald Stark, informatore infiltrato >Indizio 1<), figura nella ormai storica fotografia che ritrae gli investigatori attorno alla R4 che conteneva il corpo di Moro il 9 maggio 1978 >Indizio 2 <, nel gennaio del 2001 ha scritto un articolo per il mensile massonico “Il razionale” >Indizio 3 <, è stato Commissario per La Fiamma Tricolore nel 2004 >Indizio 4 <, iscritto all’Ordine degli Avvocati della provincia di Napoli dal 1984 >Indizio 5 <.

Insomma Avv. Nicola Ciocia, gli indizi porterebbero a lei.

Certo è che questo libro ha portato una animata discussione tra chi attacca queste pratiche, chi le difende, chi le nega e chi le giustifica. Il solito dibattito all’italiana che si fa sui giornali, in TV, in rete. Ovunque fuorchè nelle sedi predisposte: i tribunali. Eh si, tutti sanno ma tutti nascondono. Tutti fanno i moralisti ma nessuno è disposto ad esibire il proprio certificato di “anima trasparente”. Spero che libro e dibattito possano servire almeno ad aprire un’inchiesta seria per chiarire chi ha messo in atto quelle orrende pratiche, chi le ha ordinate all’interno delle forze investigative, chi le ha coperte e chi, a livello politico, ha concesso il lasciapassare che ad oltre trent’anni si è rivelato un salvacondotto.