Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Quarant’anni sono tanti. Quarant’anni sono due generazioni. E due generazioni non sono state sufficienti a spiegare alle vittime della strage di Piazza Fontana chi le ha volute morte e per quale motivo. O meglio: il motivo si è sufficiente capito, soprattutto se inglobato nella dinamica complessiva degli eventi che ha caratterizzato il periodo comunemente noto come “strategia della tensione”. Quello che manca alla verità, sono gli ultimi 100 metri. Chi ha messo la bomba alla BNA? Chi ha manovrato i fili di quegli ultimi minuti di un progetto che, politicamente e storicamente, appare ormai piuttosto chiaro? La giustizia, dopo ben 11 gradi di giudizio, si è arresa: nessun colpevole. Condanne in primo grado, appelli ed assoluzioni definitive (per insufficienza di prove nel 1987) in terzo grado. Cioè passate in giudicato, senza ritorno. Come mai? Cosa è mancato agli inquirenti, alla magistratura, al Paese per capire e rispondere al desiderio di verità delle vittime? Possibile che tanti libri, tante inchieste, tanto materiale giornalistico e investigativo non abbiano reso possibile mettere la parola fine su quegli ultimi 100 metri? Allora forse il problema è di natura metodologica? Paolo Cucchiarelli, giornalista d’inchiesta dell’ANSA che ha già pubblicato nel 2005 un libro sulla strage assieme al collega Paolo Barbieri, ha provato a ricostruire quegli ultimi 100 metri mettendo insieme tutti i dati (soprattutto quelli mai rientrati nelle inchieste ufficiali spesso per volontà di insabbiamento) e ha fornito una ricostruzione che tiene insieme tutti i fili ed arriva ad una verità diversa rispetto al frullato di elementi discordanti che ha contribuito a creare disordine e allontanare dalla verità chiunque si sia avvicinato all’evento. Ma di questa verità (per carità non una “verità assoluta” ma una verità in grado di “tenere sulle spalle” l’enorme peso delle carte) non si vuole parlare. Dopo la “puntata di Stato” dell’altra sera nel salotto di Porta a Porta, cui Cucchiarelli ha giustamente declinato l’invito perché non è una trasmissione televisiva il luogo adatto alla discussione serena e documentata di una verità, è ormai chiaro un dato incontrovertibile: la verità non la si riuscirà mai a trovare perché nessuno ha davvero interesse a trovarla. Fa comodo a tutti che resti un alone di oscurità in modo tale che ciascuno lo possa poi utilizzare all’occasione per nascondere il proprio passato o per attaccare l’avversario politico sul piano del suo passato storico. Tutti d’accordo: da Mieli a Penati, da La Russa allo stesso Vespa. Se a questo aggiungiamo la particolarità tutta italiana dell’ideologia, vernice indelebile che copre le nostre coscienze, che impedisce a quasi tutti di affrontare con serenità i fatti che non collimano con le proprie idee (spesso appoggiate su fondamenta di sabbia) ecco spiegato l’atteggiamento con cui tutto il mondo politico, giornalistico e culturale ha accolto “Il segreto di piazza Fontana”: il silenzio. A parte alcune prese di posizione “a priori” di persone che nella maggior parte dei casi non avevano neanche letto il libro, un velo di silenzio è calato sull’immenso lavoro di Cucchiarelli. Perché? Cui prodest? Segno che ciò che ha ricostruito Cucchiarelli è proprio quella verità indicibile che ha resistito a due generazioni? Ho provato a chiederlo direttamente a lui in questa chiacchierata che vuole rappresentare un tributo di gratitudine verso quelle vittime che non hanno potuto essere consolate neanche da una seppur parziale verità giudiziaria e verso cui lo Stato appare sempre più propenso ad indirizzare miseri e cadenzati messaggi di pietà. Piazza Fontana, la “madre di tutte le stragi”. Quarant’anni di depistaggi per coprire un segreto indicibile. Perché è riuscito a durare tanto e quanti anni ancora sarebbe durato?Piazza Fontana è più un segreto politico che giudiziario. Gli elementi che rendevano intelligibile la vicenda sono stati “spazzati via” prima che la magistratura potesse intuire quale poteva essere la dinamica. Nella inchiesta c’e’e una parte, la quarta, che spiega quale compromesso al vertice dello Stato abbia impedito alla magistratura di muoversi da subito verso la pista nera, quella fascista. Si deve ad un pugno di coraggiosi magistrati, Stiz, Alessandrini, Fiasconaro, D’Ambrosio ( non però per quel che riguarda la vicenda Pinelli) se con il tempo l’Italia ha potuto capire che in questa vicenda la maggiore responsabilità, quella che determina e vuole i morti, è della destra. In Italia i segreti politici sono come una torta: tutte le forze in campo inclusi il PCI e la sinistra extraparlamentare, hanno una fetta che li vede protagonisti e questo fa sì che la torta resti intatta ed intoccabile. Per rompere questa situazione bisogna far “saltare la torta”, mettere mano a tutte le fette, compresa quella, dolorosa, di Valpreda e del suo essere caduto nella “trappola” che Stato e fascisti gli tesero. Questo è l’unico modo per poter arrivare, con certezza, ad individuare la reale responsabilità. Non esiste altra strada. Questo segreto è durato tanto perché prima di ora nessuno aveva lavorato a tutte le “facce” della storia cercando di capire cosa le tenesse assieme. Perché lo Stato ha processato assieme Valpreda e Freda e alla fine abbia deciso di mandare tutti assolti. Quella fu una scelta più “politica” che giudiziaria. Quanti anni di lavoro hai impiegato per portare a termine la tua indagine? Quale la maggiore difficoltà incontrata? E quale, invece, la sorpresa più grande?La mia indagine dalla “intuizione” iniziale, cioè la presenza del timer e della miccia nel salone della Bna e quindi dalla possibilità che due fossero le bombe, con un ben diverso grado di responsabilità, è durata circa 10 anni. Una intuizione è molto ma serve poco se non si sviluppa. Ricordo di averla a suo tempo comunicata al giudice Salvini che mi rispose “Per molto meno mi hanno massacrato”. Lui fece tutto quello che era in suo potere per seguirla. Ricordo che mi permise di incontrare a Salò (l’ho saputo poco tempo fa dove era stato) Carlo Digilio per fargli questa domanda: ma non c’erano per caso due bombe? (ne parlo nel libro). La logica giudiziaria e ben diversa da quella che può mettere assieme un giornalista che ha una grande forza poco sfruttata : può utilizzare liberamente, combinandole in tute le varianti possibile, tutte quelle singole “verità” in cui in Italia si trovano scomposte le vicende più importanti. E’ parlo della verità giudiziaria, di quella politica, di quella storica, di quella dei singoli protagonisti ecc. ecc. Se il magistrato non trova nessuno che confermi quell’elemento non va avanti ed essendo questo il “segreto” che tutto teneva nessuno poteva all’epoca confermarlo. Ho quindi iniziato una richiesta e la vera sorpresa e’ che man mano che andava avanti i singoli elementi del “mistero” si andavano quasi da soli a collocarsi nella casella giusta. Gli investigatori lo chiamano la “convergenza del molteplice”. Quando ho scoperto che il perito che per primo indagò nella Bna aveva detto da subito che c’erano timer e miccia e che due erano le borse direttamente coinvolte nell’inchiesta ho preso di lena ad indagare, a raccogliere elementi a leggere tutto e ad incrociare le novità accorgendomi che c’erano delle cose, degli oggetti, che da subito erano stati sottratti alla vicenda giudiziaria. Li ho reimmessi nella storia e questa ha cominciato a “girare” in ben altro modo. Ancor maggiore è stato lo stupore quando ho cominciato a capire che tutta la storia era “doppia” visto che io sono uno dei sostenitori in Italia dello “Stato parallelo”. Ancor più quando gli anarchici parlarono da subito di altre bombe previste il 12 dicembre e quando mi sono accorto che anche Alessandrini si era posto la stessa mia domanda: ma non è che due erano le bombe esplose alla Bna secondo il più classico degli schemi operativi utilizzato dai servizi segreti. Quando ho visto una copertina di Epoca del gennaio 1970 che appaiava Valpreda ad Oswald e quando ho constatato che l’ultimo processo era fallito proprio sul fatto di non aver considerato che le bombe in mano ai fascisti non erano quelle che erano “ufficialmente” scoppiate ma quelle che servivano per il “raddoppio” non mi sono più fermato. Dalla prima intuizione al libro sono passati 10 anni. Ho fatto tante altre cose ma non ho mai mollato questa storia e le relative ricerche che non sono state facili. Ho fatto tutto da solo, parlando con pochissime persone. La tua inchiesta potrà essere la parola definitiva a ciò che ci interessa sapere sulla strage e sul ruolo giocato dai diversi attori, o diventerà un nuovo tentativo di avvicinarsi alla verità senza aggiungere molto di più a quanto già non si sappia?Credo che si sia tolto il “tappo” che impediva di fare il “salto di qualità” nella interpretazione dei fatti. Credo che altro possa arrivare. Lo spero. “Il segreto di piazza Fontana”. Chi sono i protagonisti di questo segreto? Quali apparati, soggetti, gruppi hanno avuto un ruolo nel segreto e nel mantenerlo?A livello politico un po’ tutti. Segnalo il paragrafo sulla presenza di uomini de l’Anello nella vicenda. Sono loro che sovrintendono nel controllo degli anarchici, loro che fanno da “scorta” a Ventura quando consegna agli anarchici le “bombe in più”, loro uomini sono operativi a Padova, indagano sulla morte di Feltrinelli e su quella di Calabresi. Rinvio per chi volesse approfondire al volume “L’Anello della repubblica” di Stefania Limiti. Potrà apparire paradossale, ma più che un punto di arrivo questa tua inchiesta potrà essere un punto di partenza che potrà fornirci nuove chiavi di lettura su quegli anni. Cosa ti aspetti di nuovo dopo l’uscita del tuo lavoro?Mi aspetto un “ricasco” anche in sede giudiziaria e che qualcuno si senta finalmente libero di parlare, anche a sinistra, il settore politico che più ha pagato per questo segreto. Il settore politico cui appartengo. Un lavoro come il tuo (700 pagine di pura inchiesta) in Italia non si era mai visto e su un argomento come la strage di piazza Fontana era, francamente, impensabile che si potesse fare. Cosa ha impedito che, in passato, un giornalista potesse condurre un’indagine simile?Non lo so. Io non ho lavorato “a scenario”. Ho indagato come se la strage fosse avvenuta il giorno prima. Ho utilizzato un mio metodo di ricerca che sfrutta tutte le interpretazioni: quella deduttiva, induttiva, il riscontro, la lettura sintomale ecc. Un metodo che da due anni insegno, con soddisfazione al master in giornalismo investigativo promosso dall’Agi a Milano e che ora inizierà anche a Roma. Un metodo che mi ha permesso di “estrarre” tante novità da una storia che sembrava ormai chiusa, definitiva, morta. Tanti hanno scritto e hanno detto su piazza Fontana, senza però mai giungere a smascherare colpevoli e mandanti. Per limiti storici o di metodo?Ci vuole apertura mentale, metodo e voglia di addentrasi in luoghi dove non vi sono “mappe” di alcun tipo. Un lavoro molto faticoso, che procura grandi stress, molti dubbi e una sorta di “spaesamento”. Se si lavora con rispetto dei dati questi , alla fine, “parlano”. Garantito. Perché inquirenti e magistrati non sono riusciti a giungere alla verità nonostante 40 anni e 11 gradi di giudizio?Perché la verità giudiziaria è solo una delle verità e i metodi per arrivarci possono essere facilmente manipolati o condizionati. Piazza Fontana, Pinelli, Calabresi. Tanti morti un unico segreto. Possiamo adesso affermarlo con chiarezza? Il segreto della strage e’ una sorta di ‘matrioska’ che ha al suo interno anche la morte di Pinelli e , probabilmente, almeno una percentuale della morte di Calabresi. Io ho cercato di raccontarlo e dimostrarlo. Tocca ai lettori dire se ci sono riuscito.Pensi che il “segreto” che è stato alla base della mancata verità su piazza Fontana sia in qualche modo collegato anche ad altri eventi tragici di cui ancora oggi sappiamo poco?Si. Il modulo usato può essere stato ripetuto come anche l’utilizzo dell’esplosivo che era in mano ai fascisti, un plastico jugoslavo che aveva Ventura, avevano i fascisti veneti e aveva il giro dei fascisti implicati nella strage di Brescia. Da chi ti aspetti maggiori resistenze ad accettare il tuo lavoro?Da una certa sinistra. Gli attacchi ci sono già stati. Altri ci saranno. La migliore risposta è una spassionata lettura del libro che risponde a tutte le critiche che finora sono state avanzate. Cosa ti aspetti dai familiari delle vittime? Secondo te, cosa cambierà nella loro percezione dei fatti?Dall’avvocato delle vittime, Silicato, e dai familiari delle stesse, presenti alla presentazione fatta nel salone della Bna il 28 maggio, sono venute parole di grande apprezzamento. Elogi e valutazioni positive sulla serietà, sul rigore del lavoro. Il libro ha avuto un lancio “a sorpresa” sul mercato. Si è saputo qualcosa solo il giorno prima e nella conferenza stampa di presentazione del 27 maggio le risultanze del tuo lavoro sono state solo “sintetizzate”. Le successive recensioni hanno mosso forti critiche alle tesi emerse dall’inchiesta ma senza che nessun dubbioso avesse letto il libro. Un pregiudizio politico prima ancora che di merito. Come te lo spieghi?Sono le resistenze di chi teme che il mio libro dica una verità politicamente imbarazzante La trappola agli anarchici era stata preparata nel tempo e confezionata alla perfezione (addirittura prestando attenzione alle borse che avrebbero dovuto esplodere e non, al loro contenuto, ai piccoli depistaggi, ecc). Il tutto fa pensare ad una mente molto raffinata, uno stratega del terrore di alto livello. Se questo è verosimile, lo scenario che si prefigura dentro e attorno allo Stato ed alle sue istituzioni è allarmante. In quale Stato abbiamo vissuto? E, soprattutto: quello attuale quanto è realmente diverso?Uno Stato parallelo. Il libro lo dimostra. Due bombe, due taxi, due ferrovieri, due armieri del gruppo ordinovista, due “Valpreda”. Cosa è questo se non il modulo operativo di quello Stato parallelo a cui io e Aldo Giannuli abbiamo dedicato un fortunato libro 10 anni fa?
Una bella intervista a Claudio Signorile, è stata pubblicata da Alessandro Forlani lo scorso 20 gennaio. Forlani è stato “supportato” dal collega Paolo Cucchiarelli e l’audio è disponibile sul sito di GR-Parlamento > scarica< Sebbene alle parole dell’ex vice Segretario del PSI, protagonista politico della trattativa che, attraverso gli esponenti dell’Autonomia Lanfranco Pace e Franco Piperno, giunse ad un passo dal far si che le BR sospendessero l’esecuzione del loro prigioniero non abbiano trovato grande eco (ecco i due lanci ANSA diffusi proprio da Paolo Cucchiarelli > qui<) ritengo che Signorile abbia detto almeno tre cose assolutamente nuove e di grande importanza. Vediamole.
I giornalisti Alessandro Forlani e Paolo Cucchiarelli
Primo. Signorile ha precisato che il giorno 6 maggio aveva concordato con Amintore Fanfani che il presidente del Senato avrebbe dato dei segnali di apertura alla disponibilità di rompere il fronte della fermezza a favore di una trattativa umanitaria che, pur non comportando il cedimento dello Stato, avrebbe offerto alle BR un motivo per “sospendere” la loro sentenza di morte. Sentenza annunciata come prossima con il comunicato diffuso il 5 maggio, restato famoso per il gerundio “eseguendo la sentenza”. Signorile ha precisato che questa dichiarazione di Fanfani non avrebbe comportato la liberazione di Moro, ma sicuramente avrebbe permesso di fermarne l’uccisione ed aprire una nuova fase verso la liberazione. Il fatto nuovo sta nella considerazione di Signorile sulla reale possibilità delle forze dell’ordine di fare qualcosa di concreto verso la ricerca della prigione. “Avevo il telefono sotto controllo – racconta Signorile – ed ero pedinato; se avessero voluto utilizzare le informazioni raccolte, avrebbero potuto fare qualcosa”. Secondo. La situazione non precipitò la mattina del 9 maggio ma la notte precedente. Questa considerazione apre ad una riflessione di non poco conto. Sembrerebbe esserci un legame con le parole del terrorista Carlos nell’intervista rilasciata allo stesso Cucchiarelli nel giugno del 2008, successivamente confermate da Bassam Abu Sharif. Carlos sostenne che una fazione del Sismi preparò un ultimo, estremo tentativo di salvare Aldo Moro che prevedeva il trasferimento di alcuni brigatisti italiani dal carcere in un Paese Arabo. Carlos ritiene che l’operazione fallì forse per l’imprudenza di Bassam Abu Sharif che nell’agosto del 2008 confermò che avrebbe potuto salvare Moro ma non commise nessuna imprudenza: chiamò un numero “speciale” lasciando un messaggio dopo l'altro ma senza avere nessuna risposta. Una annotazione, infine, sull’apertura di Fanfani. Se la sera dell’8 maggio la situazione era ben diversa e gli eventi precipitarono nel corso della notte, Fanfani non avrebbe avuto bisogno di annunciare, in sede di Consiglio Nazionale della DC la sua posizione di rottura nei confronti della fermezza. A maggior ragione se fosse stato al corrente della notizia del ritrovamento del corpo di Moro prima delle 11 del mattino.
(Intervista completa a Carlos > qui<) (Intervista completa a Bassam Abu Sharid > qui<)
Terzo. La notizia della morte nei palazzi del potere sarebbe arrivata molto prima del ritrovamento della R4 in via Caetani e l’uccisione di Moro non fu la conseguenza di qualcuno che “fregò” Cossiga. Forse di qualcuno più forte (o meglio attrezzato) che operava in contrasto con gli interessi con i quali si muoveva chi stava agendo per conto del Ministro dell’Interno, nel cercare una via per salvare la vita ad Aldo Moro. E questo vuol dire che una trattativa c’era, che qualcuno la sabotò e che il Governo era aggiornato costantemente dell’evolversi della situazione. E se tanto mi dà tanto, chi sabotò la trattativa e contribuì in maniera determinante all’uccisione di Moro, fu diverso da chi, a livello internazionale, stava dando una mano al governo per giungere ad un esito positivo. Il governo fu probabilmente aiutato dagli alleati di sempre… Dulcis in fundo una considerazione, parzialmente nota, riguardo l’operazione e l’autonomia delle BR. "Le BR rapirono moro in autonomia, secondo una loro logica, ma senza l'intenzione di ucciderlo: ne é prova il fatto che lo interrogassero a volto coperto. Dopo pochi giorni però il sequestro cambiò di significato, natura e quindi anche conclusione". E ancora: "Non credo che ci fosse bisogno di dare a Moretti l'ordine di agire, perché i brigatisti sapevano già cosa fare; certo c'erano delle persone sopra Moretti, che non sono mai state scoperte". Una chiara chiamata di correità verso le forze ed i poteri internazionali. E, forse, un’allusione musicale?
Non ci posso credere, mi sembra davvero una notizia pretestuosa prendersela con la Rai per lo spostamento del reality " L'isola dei famosi" dall'Honduras al Nicaragua con la motivazione che quella nazione sarebbe rifugio di alcuni dei terroristi che negli anni '70 si macchiarono di efferati delitti (in particolare si citano Alessio Casimirri e Manlio Grillo). Che c'entra l'Isola dei Famosi? Allora chiudiamo FaceBook visto che lo stesso Casimirri ha un profilo con molti amici
La foto di Alessio Casimirri sul suo profilo di FaceBook
Bene. Allora dichiariamo guerra alla Francia, a tutto l'est europeo, ma anche alla Germania, visto che aiuti alle formazioni di lotta armata italiane arrivavano anche dai "cugini" della RAF... Davvero non capisco. O meglio. Capisco che questi argomenti siano una chiave per accedere ai media, ma mi meraviglia il fatto che chi sbandiera tanto stupore non si indigni più di tanto quando neanche 11 gradi di giudizio sono riusciti a dare alle vittime un colpevole per la bomba alla BNA del 12 dicembre 1969 o quando a quasi 40 anni di distanza si sta ancora celebrando il processo per la strage di Piazza della Loggia a Brescia (strage ancora impunita). A tanti anni di distanza si dovrebbe reclamare la verità su quegli anni, la verità di chi non ha ancora parlato. Nei giorni scorsi il presidente Berlusconi è stato in Israele portando l'amicizia del popolo italiano e annunciando al mondo il proprio desiderio di voler vedere Israele nell'Unione Europea. Chi mi conosce sa come sia da me lontana l'idea di essere anti-semita e di come sia massimo il rispetto per le vittime di un Paese che ha visto tanti connazionali massacrati nell'Olocausto. Ma Israele non è anche la nazione del Mossad? Ed i Mossad non ha avuto in Italia un ruolo importante negli anni '70? Tanto per dirne una ha contattato le BR offrendo il proprio aiuto per far si che esse continuassero ad insanguinare l'Italia. Franceschini ha dichiarato che la proposta fu rifiutata, ai suoi tempi. Chissà che in altri tempi un piccolo "aiutino" il Mossad non l'abbia dato ai rivoluzionari di estrema sinistra. E magari non solo alle BR. Eppure non mi sembra che qualcuno abbia avuto il coraggio di alzare il ditino per sollevare qualche piccola obiezione al sogno berlusconiano. In questo caso vale il detto napoletano "chi ha avuto, chi ha dato, scordammoci 'o passato, simm 'e Napoli, paesà"
Con gli arresti dello scorso 23 febbraio, è venuta alla luce una maxi truffa legata al riciclaggio che ha visto coinvolte importanti società di TLC, imprenditori e politici. Una truffa architettata attraverso società vuote che vendevano servizi telefonici inesistenti con la ''compiacenza'' di due big delle telecomunicazioni e che ha arrecato un danno di 365 milioni di euro allo Stato. L'indagine ha fatto emergere anche il coinvolgimento della 'ndrangheta che avrebbe favorito elettorali a vantaggio di un senatore eletto nel 2008 dagli italiani all'estero. Il meccanismo ruotava attorno ad un imprenditore romano, tale Gennaro Mokbel che ha avuto trascorsi vicini all'estrema destra eversiva (è stato anche compagno di scuola di Francesca Mambro) e amicizie nellaBanda della Magliana. Alcuni nomi e vie hanno uno stretto legame, a volte evidente molte altre più sottile, con importanti avvenimenti del passato. E se alla notizia della vicenda dell’ex governatore del Lazio Marrazzo a far sobbalzare fu la toponomastica (via Gradoli) in questa occasione è stato un nome, meglio un cognome, quel Mokbel che per chi si è occupato della vicenda Moro, non è possibile non ricollegare a quella Lucia Mokbel che abitava al civico 96 accanto all’interno 11 base operativa delle BR di Mario Moretti. Il primo istinto è stato quello di approfondire le informazioni per cercare qualche filo, qualche piccola traccia che potesse ricondurre i due cognomi ad un qualche legame di parentela. Poi mi sono detto: “Sarà un caso, perché perdere quel già pochissimo tempo che riesco a dedicare a questi argomenti?” Poi ieri il Corriere della Sera scrive un articolo nel quale è proprio l’avvocato di Gennaro Mokbel a confermare la parentela tra Lucia e Gennaro: fratelli. Perché il nome di Lucia Mokbel riveste una certa importanza nel caso Moro? Per due motivi: il primo è che il 18 marzo avrebbe indicato ad alcuni agenti che si erano recati in via Gradoli per dei controlli che dall’interno 11 (dove era ubicata la base delle BR) la notte precedente sentì dei segnali morse sospetti. Per questo consegnò nelle mani dei poliziotti un bigliettino pregandoli di farlo avere al commissario Elio Cioppa (il cui nome fu trovato tra gli iscritti della loggia P2) del quale la donna era amica. Quando incontrò il commissario Cioppa in un ristorante seppe che quel foglietto non gli era mai stato recapitato. Il secondo motivo è la donna, in quel periodo, conviveva con Gianni Diana, anche questo un nome chiave nella vicenda. Diana era un ragioniere che, per sue stesse parole, aveva “in uso l’appartamento all’interno 9” da circa un mese e mezzo due mesi (quindi da pochi giorni prima l’agguato di via Fani), era domiciliato in via Ximenes 21 presso lo studio del commercialista Galileo Bianchi e lavorava assieme ad un’altra inquilina di quello stabile, Sara Iannone. Bianchi, dopo soli 3 giorni dalla scoperta della base brigatista, diventò amministratore della società Monte Valle Verde srl, immobiliare proprietaria degli appartamenti di Diana e Iannone. Con l’inchiesta legata allo scandalo dei fondi neri del SISDE (e dell’ex direttore Maurizio Broccoletti) il giornalista Gian Paolo Pelizzaro scoprì che la Monte Valle Verde era una delle società riconducibili ai servizi segreti e che ben 24 dei 66 appartamenti delle due palazzine erano di proprietà di 3 società (tra cui la Monte Valle Verde) fiduciarie del SISDE. Anche se l’interno 11 che ospitava la base brigatista era di proprietà di un privato (l’ing. Ferrero, marito di Luciana Bozzi amica di Giuliana Conforto padrona di casa dell’appartamento di viale Giulio Cesare dove furono arrestati Valerio Morucci ed Adriana Faranda) una legittima coltre di ambiguità scese su quelle palazzine e su alcuni dei loro abitanti. Ma non finisce qui. Oggi si scopre che un filo lega l’imprenditore Gennaro Mokbel all’eversione di destra ed alla Banda della Magliana che, è bene ricordarlo, fu interessata dalla camorra nella ricerca della “prigione del popolo” di Aldo Moro. E la risposta che la Banda della Magliana fece avere al servizio segreto clandestino “Anello” fu: “cercate in via Gradoli”. Ma non finisce neppure qui. Il primo ad indicare agli investigatori via Gradoli fu il deputato della DC Benito Cazora, tra i pochi che si impegnò davvero a fondo nel tentativo di fornire informazioni utili per la liberazione di Moro. A fine marzo, infatti, fu portato da personaggi in contatto con la ‘ndrangheta proprio sulla Cassia nei pressi di via Gradoli. Chi lo accompagnava, giunto all’imbocco della via disse: “E’ questa la zona calda”. Cazora riferì in Questura l’informazione e gli fu risposto che sarebbero stati fatti dei controlli. Il giorno dopo Spinella chiamò Cazora per informarlo che le verifiche avevano dato esito negativo. Sebbene siano tutti convinti che la perquisizione di cui parla Lucia Mokbel sia avvenuta il giorno 18 marzo, ritengo che se qualcosa è avvenuto in tale data, non possa trattarsi di quanto raccontato dalla Mokbel. Nel verbale del 18 aprile, poche ore dopo la scoperta del covo, la Mokbel parla di una perquisizione avvenuta circa 20 giorni prima. Ho rivisto alcuni filmati di quel 18 aprile e ben due testimoni, uno dei quali la signora Damiano (che diede l’allarme per l’acqua che si era infiltrata dal piano di sopra, l’abitazione di Moretti) parlano di controlli da parte di agenti in borghese avvenuti circa tre settimane prima. Controlli che avevano interessato tutti gli appartamenti dei due stabili. Perché si da per assodato che i controlli avvennero il 18 marzo? L’interrogatorio congiunto Mokble-Diana avvenne in Questura alle 14.30. Alle 21.30, dopo poche ore, vi fu un secondo verbale reso al vice Questore aggiunto Nicola Simone del solo Diana nel quale egli retrodata il racconto della Mokbel al 18 marzo. Una svista? Non credo perché Diana fa esplicito riferimento a “un paio di giorni dopo il rapimento dell’Onorevole Moro”. Cosa successe allora il 18 marzo? Perché si tenta di far coincidere con quella data i controlli di cui ha parlato Lucia Mokbel? I legami Servizi-Diana-Mokbel-Banda della Magliana sono del tutto causali, risalgono già al ’78 o sono successivi? Non so se si tratta di domande superflue, dietrologiche o per le quali è stata già trovata una risposta. Ma in un Paese dove i cittadini hanno smesso da tempo di porsi domande perché qualcuno fornisce preventivamente le risposte giuste, ho pensato che valesse la pena porsele. Non so voi...
Sembra riservare molte sorprese questa apparentemente normale vicenda che per reato di ricliclaggio ha portato all’arresto dell’ex Senatore Di Girolamo e dell’imprenditore Gennaro Mokbel. Adesso un articolo del Corriere della Sera > leggi< rivela che la sorella Lucia (> vedi post precedente<) avrebbe sposato niente di meno che il figlio di Michele Finocchi, ex capo di Gabinetto del SISDE (fino al 1991) coinvolto nell’inchiesta sui fondi neri quando amministratore del servizio era Maurizio Broccoletti. Nel 1993, dopo una rapida e brillante carriera che lo portò alla direzione dei servizi civili del Viminale, si rese latitante. Un forte legame stringe quindi i Mokbel al servizio civile, oltre che alla banda della Magliana ed al terrorismo di estrema destra. Nello stesso articolo, basato sulle intercettazioni telefoniche che i ROS effettuarono nei confronti di Gennaro Mokbel durante le indagini, l’imprenditore si vantava di essere in procinto di ricevere un’elevata onorificenza massonica: il trentatreesimo grado della Loggia di Palazzo Giustiniani. Il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Gustavo Raffi ha subito smentito la frequentazione di Gennaro Mokbel alla sua Loggia («Respingiamo con fermezza qualsiasi riferimento che colleghi Gennaro Mokbel alla massoneria di Palazzo Giustiniani: nel nostro tempio non c'è posto per gente del genere») Altro > scoop< degno di nota lo fa il settimanale A diretto da Maria Latella. Un ex compagno di scuola avrebbe definito Gennaro Mokbel un “ladro di merendine” che rubava la colazione ai cocchi di mamma per poi sfidarli ad andarsela a riprendere. Un bullo, una specie di ras del quartiere che una volta chiuse la professoressa sul balcone dopo averla legata a una sedia. Io dico che la storia non è finita e se si avrà il coraggio di andare avanti ne potremo vedere delle belle. Ma sino a quando si avrà il coraggio di osare?
… e la cucina italiana a base di pesce fresco è una prelibatezza con cui vale la pena deliziare il palato, almeno una volta nella vita. Deve essere per questo che, ultimamente, un gran flusso di turisti affolla le spiagge di Managua e ne frequenta i ristoranti italiani che tra le proprie specialità offrono del buon pesce a meno di 25$ a testa. Dopo la > simpatica proposta< del consigliere provinciale dell’UdC di Terni (che francamente aveva fatto un po’ ridere) qualcuno deve essersi incuriosito e ha deciso di prendersi una pausa dallo stress delle nostre metropoli per fare visita ad Alessio Casimirri, uno dei latitanti più famosi d’Italia (naturalmente famoso tra i pochi che si occupano di “anni di piombo”, per la maggior parte degli italiani il classico “Casimirri chi?”). Ed evidentemente oltre a gustare del buon pesce, i giornalisti Colombari e Zanotti (non certo tra le firme più note della categoria, non me ne vogliano) devono aver trovato il compagno “Camillo” di ottimo umore, visto che è stato in vena di > raccontare< alcuni frammenti di vita, sua e di suo padre. Davvero strano, mi verrebbe da dire. Casimirri ha molta nostalgia dell’Italia ma questo non gli impedisce di essere diffidente nei confronti degli ex connazionali che lo vanno a trovare. Se poi si mostrano anche interessati al suo passato e, tra un branzino ed un cefalo, infilano nella discussione due parole come “caso Moro”, il sub che fino a poco prima aveva loquacemente descritto tecniche di pesca e mostrato con orgoglio le sue prede, cambia di colpo espressione e torna ad essere un riservato oste. Cosa mai avranno avuto in dote questi due bravi giornalisti per spingere un personaggio come Casimirri a non rifiutare il dialogo come accade nella totalità dei casi con turisti interessati più alla sua giovinezza che ai suoi prelibati piatti? Un particolare mi ha colpito. Casimirri parla di un libro di memorie al quale ha più volte pensato. Ma alla fine sarebbe più affascinato da un’opera cinematografica da Hollywood. Mi è venuto in mente che ha più volte minacciato, chi a tentato di andarlo a riprendere per portarlo in Italia, di pubblicare le sue memorie. Ed, evidentemente, la cosa deve aver spaventato non poco gli agenti nostrani. Ed allora perché ha parlato con due bravi ma, tutto sommato, non famosi giornalisti italiani? E perché ha alluso alle sue memorie manifestando il desiderio di un film sulla sua vita? E’ una cosa che mi chiedo da quando ho finito la lettura del pezzo e sinceramente non riesco a trovare una risposta, neppure una traccia. Se qualcosa bolle in pentola lo sapremo presto. Certo che in prossimità delle ricorrenze, strane manovre aleggiano sempre sul passato quando questo non può essere considerato chiuso.
Come molti di voi già sapranno, lo scorso 16 marzo è uscito per > Nutrimenti< un lavoro scritto a quattro mani con l’amico Romano Bianco, giornalista con il quale condivido la passione per la vicenda Moro, conosciuto proprio in occasione dell’uscita della prima edizione di “Vuoto a perdere” quando in tanti mi contattarono sia per congratularsi (bontà loro) sia per propormi di condividere idee ed esperienze. Poco prima dell’uscita in libreria, Famiglia Cristiana ha dedicato un piccolo spazio per annunciare la novità ai suoi lettori > Leggi<. Non si è trattato di una semplice recensione con delle critiche. A chiamare le cose con il proprio nome si è trattato di un vero “utilizzo privato di mezzo pubblico” in quanto la giornalista (?) che l’ha firmato in realtà ha pensato solo ed esclusivamente a muovere un attacco personale nei miei confronti.
E dire che non la conosco nemmeno e che non ho mai avuto modo di parlarci neppure indirettamente. Dimenticando con premeditazione che il libro è co-firmato, la TEOFON annachiaravalle (giornalista fondamentalista cattolica, i fondamentalisti evidentemente non sono un’esclusiva islamica…) dedica i primi righi a descrivermi come “consulente d’azienda con il pallino degli scoop. Un Marketing manager che ha deciso di dedicare il suo tempo libero al mistero Moro”. E perché la signora (o signorina) annachiaravalle ha fatto finta di dimenticare il co-autore? Semplice, perché è un giornalista, e non è elegante criticare un collega. Questo è il vantaggio di essere una casta, anche se oggi quella dei giornalisti somiglia molto di più a una cricca, ma questo è un altro discorso. Potete ammirare lo stile e la professionalità di questa giornalista che nel suo pezzo sul nostro libro ha fatto suo uno dei sette Vizi Capitali, l’invidia, a questi > 1 < > 2 < > 3 < > 4 < > 5 <. E poiché non voglio utilizzare questo spazio per annoiarvi, potete leggere la mia risposta integrale > qui<. In questo post mi limito a sottolineare che: a) il pallino dello scoop? Non mi faccia ridere annachiaravalle… Le ricordo il significato del termine “Linguaggio giornalistico – la pubblicazione in esclusiva di una notizia inaspettata e particolarmente importante” (Devoto-Oli). Le ricordo che è un concetto tipico del suo mondo, di quel mondo che non esita a speculare sul plastico di Cogne o della casa di Brenda in via Gradoli. Non mi appartiene. Del mio precedente lavoro tutto si può dire fuorché sia stato concepito o promosso sotto la logica dello scoop. Contiene analisi accurate di fatti noti ma sottovalutati o volutamente dimenticati (spesso in malafede) da tanti suoi colleghi. E non è un caso se il Sen. Pellegrino ha elogiato molto quel tipo di approccio definendo la mia analisi proprio su via Fani, in più di un’occasione, la più completa ed attendibile sino ad ora fatte. Mi spiace per lei, ma non sono un contrabbandiere di argento falsificato (dalle mie parti si chiamano scangiargentu). Mi piace solo raccontare i fatti e analizzarli guardandoli da più punti di vista possibile senza ingannare o fuorviare il lettore. Questo perchè non sono un giornalista come lei. E per fortuna non lo è neppure Romano. b) il biglietto cui lei fa riferimento è stato da me erroneamente attribuito, a causa della fretta, a Valerio Morucci. L’errore fa parte di una banale didascalia che nulla ha a che vedere con quanto analizzato nel testo. Un errore sfuggito al sottoscritto ed inserito all’ultimo momento all’inizio del testo perché, a scopo coreografico, poteva essere interessante introdurre il memoriale di Morucci e Faranda con il biglietto che lo accompagnò al suo illustre destinatario Cossiga. Ma non serve a dimostrare nulla. Anzi. Il fatto che sia stato vergato da Suor Teresilla Barillà è molto più grave in termini di analisi: vuol dire che la Suora, con quel biglietto, ha inteso come portato a termine il suo compito. “ Missione compiuta, signor Presidente”. Ma di questo parlerò più approfonditamente nella risposta integrale. c) la signora annachiaravalle ha dato ampia prova della sua capacità di manipolare i fatti. Del mitra arrugginito ha parlato Patrizio Peci che, ricordiamo, è stato ritenuto credibile dalla magistratura al punto di far seguire alle sue affermazioni processi che hanno portato in carcere decide di militanti. Ora scopriamo che la signora annachiaravalle ha deciso di dover scegliere quali affermazioni di Peci possano essere considerare affidabili, quali parzialmente e quali semplici invenzioni. Ovviamente il mitra arrugginito non può essere considerato una prova per il semplice fatto che non ha portato a nessuna incriminazione o condanna. Ma questo basta alla giornalista per professare la sua fede di fondamentalista (demo)cristiana: la scorta era preparata e non vi sono responsabilità da parte delle Istituzioni che, invece, hanno assicurato ad Aldo Moro la massima protezione. Su questo vorrei stendere un velo pietoso e rimandare alla risposta integrale perché, invece, sono molti i fatti che ci fanno pensare diversamente. d) sempre per rimanere in tema di fondamentalismo (demo)cristiano vogliamo sottolineare come l’attenzione ai dettagli della signora annachiaravalle sia sottomessa ai suoi fini personali? Un esempio? Una testimone che ha visto tutta la scena a cui nessuno aveva dato voce prima del nostro lavoro ha sottolineato come Moro, sceso dalla sua auto, si sia girato intorno a guardare tutta la scena rendendosi conto perfettamente di quanto era avvenuto. Ad un osservatore molto più attento come Antonio D’Orrico, non a caso considerato tra i principali critici letterari italiani, nel suo riquadro su Sette, questa cosa non è sfuggita. Ed è una novità perché permette di piazzare un paletto definitivo sul perché Moro non fece mai riferimento nelle sue lettere agli uomini della sua scorta. Tra Polis e Pietas scese la ragion di Stato, sperando che questa servisse a salvare lo Stato (ed indirettamente anche se stesso). Il dolore per aver visto la morte dei suoi collaboratori sarà stato certamente immenso in lui, sorretto continuamente da un forte sentimento cristiano, ma in quel momento aveva capito perfettamente che la sua vicenda era “cosa della politica”. E, invece, il suo atteggiamento fu usato contro di lui proprio da chi credeva un amico. Come la mettiamo? d) la conclusione dell’articolo rasenta l’inverosimile. “E si potrebbe continuare. Certo sono dettagli ma per un testo che costruisce proprio sui dettagli dubbi ed interpretazioni, non è cosa di poco conto”. Mi sorge il sospetto che la signora annachiaravalle il libro l’abbia solo sfogliato. Primo: la invito a continuare inviandomi tutte le imprecisioni che ritiene di aver individuato nel testo. Non farò censura come non è mia abitudine, pubblicherò e risponderò a tutto. Secondo: non è un testo che ricostruisce, ma che racconta un episodio dando voce a chi a quell’episodio ha assistito. Tra tanti Prof., Giornalisti, Magistrati, Politici non ci aveva pensato NESSUNO. Ci dovevano pensare due semplici cittadini come Romano Bianco e Manlio Castronuovo? Ma non era un lavoro da giornalisti questo? La parte relativa ai dubbi finali è, in gran parte, un ampliamento di quanto già scritto in Vuoto a perdere ed è indipendente dalle storie raccontate dai testimoni. Perché all’epoca la signora annachiaravalle, che aveva comprato il mio precedente testo, non ha avuto nulla da ridire? Quello che mi ha stupito più di tutto, in conclusione, non sono state le parole (isolate nella molteplice lista di > recensioni e commenti<) della signora annachiaravalle. Ma il fatto che un attacco personale basato sull’invidia sia stato pubblicato da un giornale come Famiglia Cristiana. Signora annachiaravalle, mi dia retta, lasci stare il caso Moro, non è roba da fondamentalisti. Si occupi di altri argomenti ben più preoccupanti per le sue “parrocchie”. La verità verrà fuori ma è inutile aspettarsela da lei.
Il cosiddetto "Memoriale Moro" è stato, specialmente negli ultimi anni, oggetto di studi ed analisi da vari punti di vista. Mancava, sicuramente, una lettura delle parole che Aldo Moro scrisse dalla "Prigione del Popolo" che contribuisse alla interpretazione della personalità che caratterizzò Moro prigioniero. E' possibile, da quelle lettere e dagli scritti, comprendere meglio il dramma umano che il Presidente della DC si trovò a vivere in quei 55 giorni? Con quale atteggiamento psicologico Moro affrontò la sua battaglia per la vita? In definitiva, la figura di Aldo Moro esce rafforzata o indebolita se la si interpreta dai suoi scritti come prigioniero delle BR? A queste domande, e a molte altre, ha cercato di dare una risposta il prof. Rocco Quaglia, docente di psicologia presso l'Università di Torino in un bel libro uscito lo scorso anno per le edizioni Lindau. "Due volte prigioniero" si intitola il suo lavoro che con molta professionalità e pacatezza ripercorre la prigionia di Aldo Moro attraverso i suoi scritti. Il ritratto che ne emerge restituisce al prigioniero la dimensione umana che a partire da quei lunghi giorni gli è stata, a poco a poco, sottratta. Le lettere scritte da Aldo Moro durante i 55 giorni di prigionia, sono state oggetto di molteplici studi storici, politici e filologici. Il suo tentativo di analisi degli scritti per ricavarne un profilo psicologico di Moro è però molto originale. Che cosa l’ha spinta in questa analisi?Moro fu un personaggio politico, e la sua vicenda fu considerata con riferimento unicamente al suo ruolo sociale, come se “il politico” dovesse esaurire la sua intera personalità. La conseguenza fu che ogni comportamento non rientrante all’interno di una logica politica fu rinnegato, sconfessato, condannato. Mai dai politici Moro fu considerato nella sua dimensione di “essere umano”, evidenziando qualità e aspetti che, da un lato, lo avrebbero reso una persona, dall’altro, avrebbero agevolato un’identificazione con lui. Il ruolo ha così soppiantato e oscurato l’individuo, e ancora oggi si parla del politico e non dell’uomo, privandolo dei suoi sentimenti, cioè della sua parte più vera. Ora, è precisamente di questa parte che ho voluto interessarmi, e le domande che mi sono posto sono diventate altre: «Quali furono le strategie adottate da Moro in una situazione di assoluta emergenza?», «I suoi comportamenti tradirono segni di un disturbo post-traumatico da stress?», «Con quali risorse seppe fronteggiare l’angoscia e non cedere a un crollo psicotico?». Le risposte sono tutte contenute nelle lettere: Moro ha dimostrato di possedere una personalità ben integrata, e ciò gli consentì di conservare fino alla fine un controllo sulla realtà e sui suoi eventi. Moro non ha mai manifestato, attraverso le sue lettere, indizi di una qualche forma di squilibrio, com’è stato talora sbrigativamente suggerito; comunicare questa “verità” mi è sembrato doveroso nei confronti di un uomo che ha saputo, in una situazione d’inaudita violenza, rivelarsi sul piano emotivo e affettivo di una straordinaria maturità. Cosa si aspettava all’inizio del suo lavoro? E quali bilanci si sente di fare ora che l’ha ultimato?Ho scritto il libro – come ho accennato - perché impressionato dall’equilibrio psichico manifestato da Moro, dalla sua lucida razionalità nell’esaminare le opportunità di una liberazione, dal suo dominio emotivo nell’affrontare situazioni d’insopportabile angoscia, dall’atteggiamento né sprezzante né remissivo, né intimorito né compiacente sia verso i “vecchi amici” sia verso i “giovani nemici”. Tutto sembrava fosse stato detto della vicenda Moro, eppure di Moro nulla era stato riferito. Questa fu l’anomalia che suggerì la mia curiosità. Non avevo un’ipotesi di lavoro, né una tesi da dimostrare, e l’idea del libro cominciò a prendere corpo soltanto quando iniziai a rendermi conto che il Moro che gli ex amici dichiaravano di non conoscere era in realtà il Moro autentico. Scoprii così un Moro che progressivamente mi convinse come psicologo e mi coinvolse come uomo. Mi sorpresero in lui sensibilità e intelligenza: era dotato di una personalità di notevolissimo spessore, e di una coscienza fuori dell’ordinario. La mia intenzione fu di ripresentare l’uomo che gli amici non riconobbero, invitandoli – a distanza di anni – a guardare e a osservare meglio “se questo è un uomo”. Mi aspettavo una maggiore disponibilità nell’accoglienza di un Moro ritratto da un diverso punto di vista; mi sbagliavo. Devo riconoscere che Moro, a più di trent’anni dalla sua morte, non è ancora un argomento di cui si parla volentieri. Alcuni “amici”, tra quelli politicamente impegnati, mi hanno scritto, riproponendo puntualmente le ragioni adottate a suo tempo nei confronti di Moro, senza peraltro comprendere neppure un solo intento del mio libro; altri mi hanno comunicato, in vari modi, il loro completo disinteresse per tutta “l’incresciosa” vicenda. La presentazione del libro non ebbe luogo, poiché il relatore si è disimpegnato. Un solo quotidiano accolse di pubblicizzare il volume, ma senza produrre commenti propri. Il disinteresse per Moro è così grande che il mio libro non è stato esposto in nessuna libreria della mia città. Moro non è ancora morto, poiché si continua a ucciderlo. Si era interessato già da prima del caso Moro o è una vicenda che l’ha interessata solo limitatamente alle sue analisi?Avevo di Aldo Moro una conoscenza approssimativa e vaga. Attraverso i giornali dell’epoca, avevo seguito gli eventi che si riferivano al suo sequestro e alla sua morte, ma senza alcuna passione. Sapevo della vasta letteratura prodotta sul caso Moro, ma non avevo mai letto nulla, fino a quando, l’anno scorso, per caso, non lessi le lettere scritte durante la sua prigionia. Io sono uno psicologo e di conseguenza, leggendo, non prestai attenzione agli aspetti politici della questione, non m’interessavano; d’altra parte i “fatti” erano ormai lontani. Mi lasciai così coinvolgere soprattutto dalla vicenda umana di Moro: iniziai a valutare “quelle lettere”, da cui trasparivano intatti e vivi i sentimenti dell’uomo, unicamente con riferimento al prigioniero, ai suoi vissuti e alle ragioni invocate per la sua liberazione. Il mio interesse per l’uomo Moro, tuttavia, non è terminato con la stesura del libro; al contrario, è iniziato con la sua pubblicazione. Io non sono in grado di comprendere quel che sta accadendo intorno al mio libro, ma trovo inquietanti i segnali che mi arrivano. Ho scritto molti libri, e non soltanto di psicologia, ma avverto che questa volta è diverso: qualcosa di Moro dà ancora tanto fastidio. Il suo lavoro parte dal voler ribaltare l’atteggiamento comunemente attribuito a Moro, cioè “il non voler morire”, in un altro “il voler vivere”. Sembra una differenza sottile. A cosa porta, in termini di analisi, questo differente punto di partenza? Sembra una differenza sottile, è vero, ma comporta un atteggiamento diametralmente opposto. È stato affermato che Moro non volesse morire, ed è stato di conseguenza dipinto un uomo in preda della propria paura, pronto a qualsiasi compromesso, anche a colludere con i brigatisti, pur di salvarsi. Chi non vuol morire è dominato dalla paura della morte, o almeno in questo modo noi lo immaginiamo. Ora, anche una lettura frettolosa e superficiale delle lettere sa offrire di Moro un’immagine totalmente estranea a quella che è stata ossessivamente illustrata. Io non ho trovato nessun elemento capace di rilevare in Moro la paura della morte. La morte stessa di Moro, in qualunque versione raccontata, è testimonianza di una grande padronanza emotiva e dell’accettazione di un destino, di cui egli resta Signore. Dire che Moro desiderasse vivere comporta un diverso ritratto, quello di un uomo che non sente ancora di aver esaurito i motivi e i compiti per i quali diventa necessario esistere. Moro non era identificato alla propria maschera sociale, al personaggio noto agli ex amici; le dimensioni di Moro erano qualificate prioritariamente dai ruoli naturali, che la vita assegna, con riferimento a una famiglia. Moro non sentiva di avere motivi per morire, ma ne aveva molti per vivere. Chi pensa che Moro abbia scelto la famiglia e non lo Stato sbaglia. Moro non viveva per un’immagine, e non avvertì mai il bisogno di idolatrare la propria immagine politica; le sue ragioni erano guidate da un sentimento d’impegno nei confronti di coloro che gli erano stati affidati. La sua preoccupazione, che si estendeva a tutto ciò che rientrava nel concetto di famiglia, era vera. Moro era una persona sincera nei suoi affetti e nelle sue dichiarazioni; se noi non siamo in grado di credergli, o peggio, di non comprendere, il limite è tutto nostro. La “Sindrome di Stoccolma” attribuita al prigioniero e con la quale si cercò di delegittimare l’autonomia di pensiero di Aldo Moro, è da lei letta “al contrario”. In pratica furono le BR a essere quasi “dipendenti” dalle volontà e, più generale, dalla personalità del loro prigioniero. Che cosa avrebbe potuto comportare un rovesciamento della “Sindrome di Stoccolma” al tempo del sequestro?È ormai un dato acquisito che Moro non fu affetto da nessuna “sindrome di Stoccolma”; neppure si trova in lui un comportamento che possa essere letto come un tentativo d’ingraziarsi o di compiacere i suoi carcerieri. Se così non fosse stato, Moro non avrebbe potuto conservare attendibilità e rispetto presso chi lo torturava. Non chiese mai ai suoi sequestratori di liberarlo e così facendo, fornì prova di realismo e di coraggio, ossia di integre capacità cognitive di analisi e di valutazione della situazione. Chiese tuttavia ai suoi ex amici di risolvere un “problema”, che egli non viveva come suo soltanto, ma di tutti, opponendo a una ragione di Stato le ragioni di una Nazione. La storia diede ragione a Moro. Opporre forza è un modo illusorio di vincere le proprie paure, e le Brigate Rosse “hanno fatto” paura. Se soltanto si fosse desiderato comprendere quel che Moro cercava di suggerire, quando chiedeva fiducia in lui, ci si sarebbe reso conto che la sua liberazione sarebbe stata considerata come un atto di debolezza non dello Stato ma dei brigatisti. Il sequestro avrebbe perduto l’alone dell’ideologia e del gesto rivoluzionario, e sarebbe stato declassato a una mera azione di pusillanime “ricatto”. Dopo aver compiuto una strage, nulla poteva disorientare più di una liberazione; perché le Brigate Rosse fossero “credibili” nel loro delirio, non avrebbero mai dovuto aprire una trattativa con il Governo. Moro ebbe un grande ruolo in tutto questo. Il Governo ha reso forte l’immagine delle Brigate Rosse; Moro, da solo, le ha indebolite. Nelle sue analisi, la speranza di Moro era di tornare ad essere chi era stato e quindi la disumanità della sua prigionia non disintegrò la sua identità. Lei ritiene, quindi, che se Moro fosse stato liberato sarebbe tornato pienamente cosciente del suo ruolo e recuperato appieno tutti i suoi poteri e identità politica?È difficile rispondere a questa domanda. Intanto, Moro aveva in altre occasioni mostrato la volontà di ritirarsi dalla vita politica attiva. Accusa più volte, nelle sue lettere, Zaccagnini per averlo indotto ad accettare la carica di Presidente della Democrazia Cristiana. Sono tuttavia convinto che se ci fosse stata un’intesa con i “suoi” per la sua liberazione, egli avrebbe potuto continuare a esercitare la sua influenza. La sua intelligenza politica è fuori d’ogni dubbio. Moro aveva conservato, durante i giorni della sua prigionia, integra la sua dignità e autorevolezza, tanto da guadagnare il rispetto e la stima dei suoi carcerieri. Questi seppero riconoscere in Moro ciò che tutti gli altri non videro mai. Moro era profondamente religioso e credeva nel valore dell’Uomo sopra ogni altra cosa. La pratica religiosa era una presenza costante nella sua vita, sin da giovane. La sua amicizia con Papa Montini era di lunga data e risaliva ai tempi dell’Università. Come ha preso, dal punto di vista religioso, Moro la lettera del Papa? Quel “il Papa ha fatto pochino. Forse ne avrà scrupolo” come può essere interpretato dal punto di vista di un uomo che quel “senza condizioni” ha contribuito a condannare a morte?Moro ha lottato fino alla fine per evitare un lutto, non elaborabile, alla sua famiglia, e un danno irreparabile al Paese. Il Papa rappresentava l’ultimo tentativo. Penso che Moro abbia affrontato la morte nella pace, perché non aveva più nulla da rimproverarsi: ha fatto tutto quello che era in suo potere. Se desideriamo comprendere le parole di Moro, dobbiamo uscire dal nostro egocentrismo, e fare lo sforzo di valutare quelle parole il più obiettivamente possibile. «Il Papa ha fatto pochino», quel pochino va interpretato alla luce di quel che segue «Forse ne avrà scrupolo». Vi è qui una rima che improvvisamente si apre nella personalità di Moro e ci lascia intravedere una straordinaria sensibilità. Il Papa non ha fatto pochino per lui, ma innanzi tutto per se stesso; in altre parole, ha fatto pochino non con riferimento alle attese del carcerato ma rispetto a quello che, come Papa, avrebbe potuto fare, e per questo potrebbe avere degli scrupoli. Soltanto se cogliamo la preoccupazione di Moro per il Papa, possiamo comprendere quel “forse”. Molti invece hanno interpretato come se la frase dichiarasse: «Il Papa ha fatto pochino. Ne avrà scrupolo». Moro non augura alcuno scrupolo, ma si rammarica della possibilità di essere causa di un’amarezza per il Papa. Inoltre, implicitamente con quell’espressione Moro comunica la consapevolezza della propria morte. In questi dettagli si nasconde e si rivela la grandezza dell’uomo. Nonostante l’omicidio di 5 uomini di scorta, i brigatisti sembrano cedere alla necessità di voler “adempiere alle ultime volontà” del Presidente. Lei definisce questo atteggiamento “un aspetto che ha la forma della pietà ma senza averne il potere. Infatti, non è pietà umana” e lo indica come il “lato oscuro delle Brigate Rosse”. Che cosa intende dire di preciso?Dovremmo parlare della personalità dei brigatisti, e questo ci porterebbe lontano; inoltre preferisco ignorarli. Posso soltanto dire, parlando in generale dei terroristi di tutte le specie, che il loro movente primo è un misto di paura e di invidia. Per loro c’è un solo modo per vincere la paura e far cessare l’invidia, distruggere la fonte del potere che si teme e del bene che s’invidia: la fonte può essere identificata sia in una persona sia in un sistema. I terroristi sono affettivamente bambini, perciò manipolabili e pericolosi, per i loro processi cognitivi elementari e il loro fondamentale egocentrismo. Temerli è l’errore più grande, compiacerli la più grande colpa. Moro è il vero vincitore sui suoi carcerieri, li ha emotivamente disorientati e disarmati. In molte lettere emergono i pensieri più intimi del prigioniero, i più sinceri. In breve, che dipinto è possibile ricavare dell’Uomo Aldo Moro analizzando i particolari più personali che emergono dalle sue lettere?Il primo titolo del mio libro era: Aldo Moro, una personalità compiuta; poi è stato modificato con l’attuale titolo dall’editore. Se lo sviluppo psichico ha una meta, essa è sicuramente segnata dalla capacità dell’individuo di approdare affettivamente alla condizione di chi, esaurito il proprio credito dalla vita, ne diventa un debitore. Maturare in sé la gratitudine per la vita comporta la nascita del bisogno di sentirsi responsabili per gli altri in genere, per le nuove generazioni in particolare. Ho definito l’atteggiamento di Moro come ispirato dal sentimento di “responsabilità impegnata”, un sentimento proprio di una personalità genitoriale. In molti passi dei suoi scritti emergono le premure che Moro aveva nei confronti dei suoi familiari. Parole che ci danno l’immagine di un uomo semplice, genuino. E’ comprensibile che all’epoca la cosiddetta “ragion di Stato” abbia impedito un riconoscimento pubblico della veridicità dei sentimenti umani che Moro provava e comunicava all’esterno. Ma questa è una tendenza che a distanza di oltre 30 anni non è mutata. Secondo lei perché?Non fu “colpa” della ragione di Stato se Moro fu frainteso e rigettato; la ragione di Stato, semmai, fu il pretesto per evitare di comprendere Moro; e invocare ancora oggi, con testardaggine, una tale ragione ci fa capire quanto poco si è convinti. Che cosa dunque ostacolò e ancora impedisce di accogliere la verità dei sentimenti di Moro? Non è possibile! È un problema di livello evolutivo. Il brigatista magari sognava che il figlio abbandonato, una volta adulto, lo avrebbe idolatrato per aver “suo padre” scelto e preferito la lotta armata alla famiglia; una persona “adulta”, invece, non ha esitazione a frantumare l’idolo che lo abita, se il suo riconoscimento esige il sacrificio della propria famiglia. Il gesto eroico della personalità genitoriale sovente si consuma, per il filiale, in un’apparente viltà. “Da parte mia non assolverò e non giustificherò nessuno” scrisse Moro in una famosa lettera al Segretario della DC Benigno Zaccagnini e rivolgendosi agli uomini del suo partito. Poi in uno scritto che non è possibile datare con certezza ma che tenderei ad escludere che possa essere considerato un brano del cosiddetto Memoriale, ringrazia i carcerieri dando “atto che alla generosità delle Brigate Rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà. Di ciò sono profondamente grato”. Probabilmente Moro pensò di aver avuto la meglio “umanamente” con i suoi carcerieri. Come reagì, psicologicamente, quando realizzò che sarebbe stato ucciso?In quei cinquantacinque giorni di prigionia, Moro ricevette una terribile lezione di vita. Aveva pensato di avere degli amici e scopriva di non averne mai avuto. Di fronte alla morte, esperienza angosciante di per sé, e in una situazione drammatica, Moro conosce la solitudine e il tradimento da parte di chi aveva ricevuto tutta la sua amicizia. Non aveva capito nulla, anzi comprende ora quanto fosse stato ingenuo. Moro non può giustificare né assolvere nessuno, perché non riesce a perdonarsi di aver preferito il Partito, quel partito, alla Famiglia. Penso che le parole di Moro, spese per i brigatisti, siano autentiche: sono le uniche parole con le quali manifestare i suoi sentimenti senza dover vergognarsi o pentirsi, poiché cristiano. Con il ringraziare i brigatisti, vale a dire coloro che gli hanno tolto tutto, cerca di comunicare qualcosa ai suoi ex amici, è una comunicazione rivolta direttamente al loro spirito. Non ci sono parole per dir loro nel modo più caritatevole possibile: voi siete i peggiori! Per comprendere Moro, bisogna che passi questa generazione; per comprendere Moro c’è una condizione: conoscere se stessi. Abbiamo proiettato su Moro le nostre paure, i nostri pensieri, i nostri sentimenti; non è facile prendere coscienza che i nostri giudizi sono i nostri più sinceri giudici. Le tenebre non hanno conoscenza né consapevolezza dell’oscurità. Un’ultima riflessione di carattere personale, stavolta. Che eredità ha lasciato Aldo Moro nella personalità del prof. Quaglia? Moro ha affidato la sua verità ai pensieri trascritti durante la prigionia, il lettore che vuole in piccola parte avvicinarsi a questa verità è costretto a rivivere, se pure idealmente, la situazione in cui furono concepiti e affidati a fogli di carta. Chi riesce a fare uno sforzo e per alcuni attimi si lascia afferrare dall’angoscia che si addensava in quell’angusto vano, sicuramente non avverte più il desiderio di parlare di Moro, per rispetto, per pudore, per incapacità. Io mi sono, nella mia immaginazione, chiuso in quel bugigattolo per tutto il tempo che ho impiegato a scrivere questo libro; ho imparato osservando quest’uomo mentre cercava di prendersi cura della propria persona, mentre cercava di ascoltare quel che proveniva dall’esterno, mentre cercava di non disperare a ogni visita dei carcerieri, mentre pregava quando nessuno lo scrutava. Non avrei mai voluto scrivere questo libro.
Post tratto da Pensieri vagabondi (Blog di Marco Cazora) Il 12 maggio del 1977, in una manifestazione indetta dai radicali per ricordare il III anniversario del referendum sul divorzio, trovò la morte la studentessa Giorgiana Masi. E’ solo una delle tante vittime dei moti di piazza degli anni ’70, ma la sua morte è caratterizzata da circostanze mai chiarite e sulle quali una sentenza si è espressa in maniera sbalorditiva. Giorgiana Masi non è vittima di schieramenti contrapposti, come si potrebbe facilmente immaginare. Ad ucciderla sono stati colpi d’arma da fuoco (calibro 22) sparati con l’intenzione di uccidere mentre, di spalle, fuggiva dalle cariche della Polizia. Quei colpi ferirono altre due persone: un poliziotto ed un'altra manifestante. Il corteo si tenne nonostante il divieto di manifestazioni pubbliche entrato in vigore dal precedente 21 aprile quando fu ucciso un agente di Polizia e ne furono feriti altri cinque. L’inchiesta sui fatti del 12 maggio ’77 si concluse il 9 maggio del 1981 per impossibilità di procedere (non fu individuato nessuno dei responsabili). Parlavamo della sentenza. Eccone un tratto che, a rileggerlo a distanza di 33 anni, aumenta lo sgomento e la rabbia. Sgomento per ciò che caratterizzava le dinamiche del potere (ancora attive?), rabbia perché a farne le spese fu un’innocente ed indifesa studentessa.
«È netta sensazione dello scrivente che mistificatori, provocatori e sciacalli (estranei sia alle forze dell’ordine sia alle consolidate tradizione del Partito Radicale, che della non-violenza ha sempre fatto il proprio nobile emblema), dopo aver provocato i tutori dell’ordine ferendo il sottufficiale Francesco Ruggero, attesero il momento in cui gli stessi decisero di sbaraccare le costituite barricate e disperdere i dimostranti, per affondare i vili e insensati colpi mortali, sparando indiscriminatamente contro i dimostranti e i tutori dell’ordine.»
Cosa c’entra l’Emerito? Era Ministro degli Interni, mica Iddio! Non era ovunque e non poteva sapere tutto!
Si può dissentire?
Oltre alle responsabilità penali, esistono anche quelle politiche. Nel senso che ci sono persone che hanno il dovere di sapere, hanno il dovere di prevenire. Non glielo ha imposto il medico, lo hanno scelto da soli nel momento esatto in cui hanno accettato certe cariche.
Quindi un Ministro dell’Interno che non è in grado di assicurare che personaggi estranei (?) alle forze dell’Ordine operino in maniera sovversiva, dovrebbe essere calciato a pedate nel deretano ed il suo volto affisso in quel “Wall of incapable†affinchè nessuno possa dimenticarne l’assoluta incapacità nel rappresentare le istituzioni.
E non essere premiato sino alle più alte cariche dello Stato.
Ma il motivo più grave che ci porta a dover parlare ancora dell’Emerito, non è questo.
A saper leggere bene le parole del giudice Claudio D’Angelo, sembra proprio che quel 12 maggio del ’77 non sia stato altro che l’ennesimo episodio della strategia della tensione che ha tenuto in bilico il nostro Paese (senza sovranità ) e che il sangue bipartizan sia stato versato solo nell’ottica del ricatto tra blocchi contrapposti che si contendevano il predominio sul nostro territorio, in una guerra tutt’altro che fredda combattuta sullo scenario mondiale.
Cossiga ha più volte accennato ai fatti di quel giorno con le solite allusioni, mezze affermazioni degne del più codardo dei pentiti: quello che racconta ciò che gli torna comodo per l’esclusivo tornaconto personale e dei benefici di legge.
La studentessa Giorgiana Masi
Nel 2003 fu un po’ criptico: «Non li ho mai detti alle autorità giudiziarie e non li dirò mai i dubbi che un magistrato e funzionari di polizia mi insinuarono sulla morte di Giorgiana Masi: se avessi preso per buono ciò che mi avevano detto sarebbe stata una cosa tragica»
Ma nel gennaio del 2007, in un'intervista al Corriere della Sera fu molto chiaro dichiarando di essere una delle cinque persone che sono a conoscenza del nome dell'assassino di Giorgiana Masi. E tutti ricordiamo ancora bene il 24 ottobre del 2008 quando fu prodigo di consigli per il Ministro degli Interni Maroni su come affrontare le manifestazioni di piazza che il movimento l’Onda promosse per protestare contro la riforma Gelmini.
Allora Emerito? Lo so che è difficile per un coniglio diventare leone, ma noi non pretendiamo questo. Vorremmo solo che il prossimo carnevale metta il suo bel vestitino da Re della Foresta e trovi il coraggio per parlare. Cosa è successo quel 12 maggio 1977? Quali forze del “doppio stato†hanno utilizzato quella manifestazione perché tornasse comodo ad alti settori delle Istituzioni? E già che c’è, ci racconti anche di Aldo Moro, di Ustica e di Bologna. Ci accontenteremmo di questo, per cominciare.
Poi potrà decidere lei stesso se mantenere il travestimento o tornare alle più comode vesti di coniglio
Più volte è intervenuto in difesa dei brigatisti che furono protagonisti della vicenda Moro contro chi li ha accusati di essere solo il braccio armato di menti di ben altro livello. Un riconoscimento politico che ha un significato preciso: erano un fenomeno autentico, non erano pilotati, ma sono stati “fregati†da qualcosa di più grande di loro. Una esplicita ammissione del fatto che l’Emerito ben conosce chi li ha fregati e come lo ha fatto. Non fosse altro perché è stato proprio lui il primo ad essere “giocatoâ€. Non si può pretendere di sapere dalle BR che contrastavano lo Stato chi, da dentro le istituzioni (o dall’esterno ma con un cordone ombelicale ancora non reciso), ha “giocato sporco†determinando l’uccisione di Aldo Moro. Ma se è stato beffato anche Cossiga, vuol dire che è stato beffato lo Stato. E se si può capire il perché 30 anni fa queste cose l’Emerito non potesse dirle (era un coniglio, meglio ancora un cane abituato ad abbaiare a comando in cambio del biscottino al tartufo…) è vergognoso che alle soglie del crepuscolo della sua inutile esistenza tenga ancora la bocca tappata. Forse, oggi, è questo l’ordine che fedelmente continua ad eseguire. La sua missione non è terminata.
Si goda i “biscottiniâ€, Emerito. Potrebbero essere gli ultimi.
Non avrei mai immaginato di ricevere e, soprattutto, pubblicare un comunicato stampa proveniente dagli abitanti di una via di periferia esasperati dalle situazioni che ne rendono precaria e pericolosa l'abitabilità. Ma la strada si chiama via Gradoli, si trova a Roma sulla Cassia... Questa volta preferisco non commentare i bene informati cittadini che, e questo deve essergli riconosciuto come merito, hanno saputo utilizzare senza strumentalizzazioni il passato tracciando un solco molto preciso e limpido (?) del perchè quella strada si trova oggi ad essere crocevia di molteplici e loschi interessi.
COMITATO PER VIA GRADOLI
Comunicato stampa n. 4 - 14 giugno 2010
L'esasperazione degli abitanti
Il 7 giugno quattro volanti sono intervenute in Via Gradoli per sedare una lite causata dalle minacce rivolte da alcuni stranieri a cittadini infastiditi dagli schiamazzi. Permane il degrado: non sono state rimosse le bombole GPL dai seminterrati, sono ripresi barbecue e discoteche estive, continua la locazione dei cubicoli oggetto dell'ordinanza di sgombero del 65; infine sono comparsi nuovi trans. Gli abitanti della via, insofferenti ed esasperati, minacciano azioni eclatanti. Si precisa che le indagini svolte dal Comitato non hanno alcun secondo fine se non quello di sollecitare l’amministrazione a intervenire per risanare la strada. I misteri della viaVecchi e nuovi misteri avvolgono edifici già coinvolti nei casi Moro, fondi neri del Sisde e Marrazzo. Tra i primi, sono stati evidenziati i legami tra Vincenzo Parisi (ex capo del Sisde e della Polizia, proprietario di 5 immobili ai civici 96 e 75) e il suo fiduciario, Domenico Catracchia, a oggi ancora proprietario di numerose unità immobiliari nella via; questi, nel 1994, fu oggetto di un procedimento, poi archiviato, volto ad accertare la responsabilità penale quale organizzatore di una agenzia per il favoreggiamento di immigrazione clandestina. Nelle perquisizioni fu rinvenuta un'agenda contenente nomi di proprietari occulti di appartamenti, società immobiliari, rendiconti, nominativi di funzionari di polizia e di magistrati. Con riferimento a oggi, svelato quello relativo alla proprietà della casa di Natalì, si è accertato che la proprietà di un altro appartamento del 96, già occupato da trans, è riconducibile, mediante una concatenazione di srl, alla società lussemburghese Esquiline s.a.; il revisore dei conti è stato Achille Severgnini (già consigliere della Magiste International), l'amministratore è Marco Sterzi; il capitale sociale è costituito da 16.000 azioni, tutte della fiduciaria milanese SER-FID spa, salvo una di Sterzi. È comparso nelle cronache Gennaro Mockbel; la sorella Lucia nel 1978 abitò in Via Gradoli 96 in un appartamento contiguo a quello delle BR e datole in comodato da una società del Sisde. La ragazza era informatrice del commissario Elio Cioppa, iscritto alla P2. Le domande 1. Guido Severgnini, fondatore dello studio commercialista, aveva quale collega Michele Sindona? 2. Quale rapporto intercorre tra Achille ed Ernesto Severgnini? 3. Per conto di chi la SER-FID spa controlla l'Esquiline s.a.? 4. È vero che Catracchia fu difeso da Antonio Juvara, massone iscritto alla Loggia "Trionfo Ligure" aderente al Grande Oriente d'Italia, e che questi ottenne la restituzione dei documenti sequestrati e la repentina archiviazione del procedimento giudiziario? 5. È vero che Lucia Mockbel è sposata con Giancarlo Scarozza, figlio di Maria Antonietta Finocchi, e che è parente di Michele Finocchi, ex capo di gabinetto del Sisde, indagato per l'omicidio Alberica Filo Della Torre? 6. L'Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna ha ancora interessi nella via?
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