Intellettuali e lotta armata. Ovvero gli intellettuali hanno avuto un ruolo nelle nascita e nello sviluppo della lotta armata in Italia negli anni ’70? E’ quello che si chiedono in molti e, fra i tanti, Giovanni Fasanella nel suo Blog che dedica all’argomento il sondaggio “Terrorismo di sinistra. Gli intellettuali hanno delle responsabilità?”
L’idea di fondo, mi sembra, sia quella di identificare in una larga parte di Intellighenzia coloro i quali hanno favorito, con ideologie e proclami, alla nascita e allo sviluppo della cultura delle armi come strumento per abbattere il sistema.
In questo senso i giovani che avevano intrapreso un percorso di lotta ai limiti della legalità trovarono una autorevole sponda per pensare che i tempi fossero maturi per l’innalzamento del livello dello scontro. Fatto ciò, alcuni intellettuali presero le distanze, altri osservarono compiaciuti da lontano, altri continuarono ad alimentare, con i propri contributi, le fila di chi pensava di mettere in pratica le analisi teoriche. Altri, molto probabilmente, stettero per lungo tempo con un piede dentro e l’altro pure alle organizzazioni di lotta armata.
Gli intellettuali, in sostanza, contribuirono a creare l’acqua dove “nuotavano i pesci” e, talvolta, sguazzavano nello stagno assieme ad essi.
Gli stessi intellettuali avendola successivamente fatta franca ed essendo arrivati ad occupare posti importanti della società, avrebbero “blindato” la verità su quegli anni e sulle collusioni lotta armata/classe intellettuale proprio per evitare che emergessero possibili contiguità che, indipendentemente dai reati, ne avrebbero compromesso l’immagine e le possibilità di carriera di fronte all’opinione pubblica.
Sarebbe questo il quadro, in poche parole, del legame tra intellettuali e lotta armata negli anni ’70?
Può anche essere, non ho elementi per escluderlo.
Però penso che la generalizzazione possa portare ulteriore confusione e far allontanare la ricerca della verità. Come ritenere che la responsabilità degli episodi di violenza negli stadi siano da ripartire tra ultras e commentatori delle trasmissioni sportive che, una volta individuato alla moviola l'errore dell'arbitro, gridano alla malafede ed al campionato falsato. Gli ultras, probabilmente, sono già sufficientemente malati di loro per "alzare il livello di scontro" senza dover attendere l'analisi della Domenica Sportiva. In sostanza, chi fa le violenze non ha bisogno del decisivo incitamento del commentatore sportivo e chi fa i commenti e litiga in TV non è in grado di spostare i comportamenti degli altri tifosi, salvo quello di cambiare canale.
Io credo che sia possibile, anzi assolutamente fondato, ritenere che vi siano stati intellettuali vicini alle organizzazioni armate sia a livello di consiglieri che di militanti effettivi. E che possano non essere stati mai individuati e che oggi ricoprono ruoli importanti alla direzione di un giornale piuttosto che come funzionari nei servizi segreti.
Credo anche però che sia importante non sparare nel mucchio. Trovare elementi concreti su singoli casi e portarli all’attenzione dell’opinione pubblica. Questo si, sarebbe utile per non rimuovere la memoria e per far capire alle generazioni successivi cosa erano quegli anni.
Ma se parliamo di un’intera classe a me viene da pensare che i più non si muovessero per ideologia quanto per moda, per “inguaribile civetteria” (come la definì Cossiga) e che molti degli appelli furono firmati senza neanche leggerne il testo, spesso perché lo aveva già fatto qualche collega.
Si badi. Non voglio giustificare nessuno perché, “la legge non ammette ignoranza”. Solo che a me quella classe intellettuale sembrava più che giocasse alla rivoluzione perché faceva “chic” ma, in realtà, di operai e di lotta di classe a pochi interessava realmente.
Insomma, quel tipo di intellettuali, forse fu con grande acume immortalata da Giorgio Gaber quando gli avvenimenti erano in pieno corso, con uno dei suoi più celebri pezzi “Al bar Casablanca"
”
Al bar Casablanca con una gauloise la nikon, gli occhiali e sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali blue jeans scoloriti la barba sporcata da un po’ di gelato parliamo, parliamo di rivoluzione di proletariato.
L’importante e che l’operaio prenda coscienza. Per esempio i comitati unitari di base… guarda gli operai di Pavia e di Vigevano non hanno mica permesso che la politica sindacale realizzasse i suoi obiettivi, hanno reagito, hanno preso l’iniziativa! Non è che noi dobbiamo essere la testa deli operai. Sono loro che devono fare, loro, noi…
O, se vogliamo essere più cattivi, con un'altra immagine di Pierangelo Bertoli
I poeti son dei matti che non pagano il pedaggio fanno finta di capire quando scrivono "coraggio" ma se c'è da far la guerra il poeta è giù in cantina fa l'amore con la serva e si scopa la regina.
Ci sono stati intellettuali contigui, simpatizzanti o amici dei protagonisti della lotta armata? Cosa hanno fatto? Credo che le responsabilità vadano ricercate ed attribuite ai singoli. Attribuirle ad un'intera categoria equivale a volersi nascondere non avendo il coraggio di fare i nomi
Segreti di Stato non è un romanzo qualsiasi. Ameno per due motivi: 1) l'autore si chiama Massimiliano Passamonti (nella foto sotto) e ha fatto parte per diversi anni di uno dei reparti di eccellenza delle nostre Forze Armate: il gruppo incursori della Marina, i "famosi" COMSUBIN. 2) la storia che Passamonti racconta è ambientata nell'Italia della strategia della tensione e vede protagonisti uomini della politica, dei servizi, della Marina Militare e un gruppo di terroristi della Brigata NoGlobal, un gruppo di estrema sinistra che pratica la lotta armata.
Si tratta di un bel thriller in cui non mancano, seppure in forma romanzata, riferimenti storici puntuali ed un nuovo punto di vista dal quale osservare gli anni della strategia della tensione, che tanti dolori hanno provocato al nostro Paese, dai quali non siamo ancora riusciti a venire fuori con una verità trasversale che possa attraversare le ragioni di tutti e portare ad una riappacificazione tra le diverse forze in gioco sia oggi che ieri.
Segreti di Stato è un libro che consiglio davvero a tutti, in particolar modo a chi vuole ragionare su una chiave di lettura del caso Moro sicuramente per molti versi di fantasia ma che non tralascia precisi riferimenti a luoghi, fatti o persone protagoniste di quel periodo. Senza voler rovinare la lettura a chi vorrà seguire il mio consiglio, vorrei proporre uno spunto di discussione sull'idea drammaturgica di Passamonti.
Un gruppo di estrema sinistra opera in Italia. Il Ministero dell'Interno, non fidandosi dei servizi segreti in quanto alcuni elementi si mostravano scontenti della riforma di ristrutturazione che il sistema politico stava per varare, chiede al comandante dei COMSUBIN di infiltrare un suo uomo all'interno del gruppo. L'operazione riesce ed il giovane incursore viene a conoscenza del tentativo che il gruppo sta portando avanti di rapire un importante leader politico. Il Ministro dell'Interno decide di consentire il rapimento (perchè l'evento sarebbe stato politicamente a lui favorevole) ma di attivare i COMSUBIN per ottenere la liberazione dell'ostaggio. In quest'ottica viene organizzata una prova generale del blitz, cammuffata da esercitazione, utilizzando un casolare prefabbricato identico a quello nel quale, secondo le informazioni raccolte dall'infiltrato, sarebbe stato condotto il rapito. Anche i servizi segreti, all'insaputa del Ministro dell'Interno, stanno muovendosi nella vicenda. Così quando viene effettuato il rapimento, per i COMSUBIN si tratta di una cosa inaspettata e perdono il controllo della situazione. Sicuri che l'ostaggio sia stato portato nel luogo a loro noto, decidono di effettuare subito l'irruzione che avevano già provato in esercitazione. Ma i servizi tirano ai COMSUBIN un brutto scherzo ed il blitz fallisce miseramente. Il rapimento va avanti ed anche i servizi perdono il controllo delle operazioni. Non potendosi fidare più di nessuno viene deciso che la soluzione migliore è rappresentata dalla morte dell'ostaggio.
Si trovano molti riferimenti a due operazioni realmente accadute come "Smeraldo" (21 marzo '78) e "Rescue Imperator" (prova generale del 12 febbraio '78).
Mi piacerebbe poter avviare delle riflessioni assieme a voi su tre questioni particolari: a) I servizi sapevano qualcosa? b) Alti e limitati vertici delle istituzioni sapevano qualcosa? c) Il sequestro si è evoluto verso direzioni non pi controllabili e questo avrebbe portato alla decisione della morte dell'ostaggio come minor male?
Ovviamente, sottolineo che la vicenda raccontata da Passamonti, deve essere presa per quello che è: un romanzo. E quindi opera di assoluta fantasia...
Ricevo e pubblico con molto piacere, questo articolo di un lettore che ha provato a ripercorrere lo spazio e la memoria tornando, dopo 30 anni, in via Montalcini.
Via Montalcini 8, Roma di Patrizio J. Macci
Parto da una strada che si chiama Via Roma Libera, ai piedi della collina di Monteverde. Ho appena lasciato il caos di Trastevere e le sue strade sudice di vita. L'autobus che mi accompagna è uno scassone della Linea 44. Arranca, sgassa, sembra non farcela, poi sterza violentemente a sinistra ed imbocca la salita di Via Dandolo; è un nome che mi piace perchè rotola in bocca come una caramella e spazza via la polvere di Porta Portese. Comincio a immaginare quello che c'era trent'anni fa. Un mese fa sono venuto con un'amica architetto, laureata con una tesi sulla storia di questo quartiere. E' stata rassicurante: "Guarda, a parte gli edifici che avevano le facciate pulite (!) e le automobili decuplicate, il resto è tale e quale!!!". Sembra di stare a S. Francisco: curve e saliscendi "a strappo", ville con giardini patronali e palazzotti della borghesia romana. Targhe ottonate scintillano sui portoni : avvocati, commercialisti, un notaio recentemente decaduto nelle cronache, un chirurgo estetico in voga. Consulto il block notes e rifletto su come abbiano potuto trasportare il corpo, senza vita e crivellato dai colpi d'arma da fuoco, nel portabagagli di una Renault 4 evitando sballottamenti e perdite di sangue: il mio lapis non riesce a scrivere di seguito per cinque secondi, eppure l'autobus procede e frena lentamente per raccogliere una piccola folla di studenti. Sono stranieri, inglesi o meglio americani, urlano e si lanciano appuntamenti serali. [continua a leggere] E' rimasto un pertugio per sbirciare dal vetro la vettura è stracolma. Indovino il muso fascista del Palazzone delle Case Popolari, questo c'era eccome! Dominava dall'alto e se allungavi il collo potevi vedere il ferrobedò di Pasolini e il figlio di Tommaso che correva verso il Tevere. Sciamano via tutti insieme come sono arrivati, appena superiamo uno splendido parco del quale non memorizzo il nome. Penso che loro no non c'erano, non erano ancora nati. Siamo arrivati alla prima base della collina, c'è il Teatro Vascello e chissà che programmava in quei giorni maledetti. L'autobus si arresta completamente, il conducente impreca: la cosa è grave. C'è un tamponamento, una moto ed il centauro riversi a terra: si attendono soccorsi. Impossibile procedere o andare indietro. Impazzano i clacson, le sirene cominciano a ululare, salgono dall'ospedale S. Camillo. Ne approfitto per scendere, siamo fermi proprio all'angolo con una stradina che affaccia su due ville vagamente anni settanta. Mi affaccio ed è tutto finito: un fazzoletto di giardino, due bambini un pallone da calcio ed un gatto. Sono lontano mille miglia da Roma e dalle Brigate Rosse. Cristina è nata dopo il 9 maggio 1978, però forse i suoi genitori si conoscevano, avevano gia cominciato a "fare l'amore". Mi ha detto che lo chiederà alla madre appena sarà a casa, ride divertita: l'idea la intriga assai. Di Moro conosce poco, che è molto di più di quello che la maggior parte dei ventenni impareranno mai. Ho accettato di portarla, ha una borsa piena di obiettivi e macchinette fotografiche digitali. Mi ha convinto: "prendiamo qualche istantanea" ha detto, pixel spalmati su un monitor evocheranno fantasmi e demoni nascosti dalle probabili ristrutturazioni estetiche. Incrociamo Piazza S. Giovanni di Dio, ci sono i binari del tram come allora, l'autobus sobbalza e chissà come si sono guardati in faccia i due terroristi se davvero l'hanno attraversata: il pensiero corre all'uomo nel bagagliaio, l'adrenalina che sale mentre la mano stringe la calibro 9 che è fredda maledettamente gelida, anche se siamo a maggio ed è gia esplosa l’estate. Sale un uomo col borsello accessorio maschile in voga negli anni '70, questo potrebbe essere arrivato con la sua macchina del tempo ed aver parcheggiato nelle strisce blu dopo aver esposto il tagliando orario. Ci avviciniamo, siamo su Via dei Colli Portuensi i negozi si diradano scorgo in uno squarcio il Gazometro lontanissimo, Viale Marconi con le banche comode per essere rapinate una dietro l'altra, la Banda della Magliana aveva intuito. Improvvisamente spariscono i negozi e ci sono solo abitazioni, palazzi senza nessuno spazio commerciale, la corsia stradale si restringe c'è uno spartitraffico con la terra e qualche ciuffo d'erba che ce la mette tutta per uscire fuori. Consulto l'orologio, è quasi mezzoggiorno. A quest'ora Aldo Moro è gia fantasma. Siamo rimasti noi due e il conducente, la mia fotografa cerca disperatamente qualcosa che non trova dentro la sua borsa da Mary Poppins. Mi sono distratto e l'autobus piega violentemente a destra, altri due secondi ed avremmo buttato giu il muro e la targa di marmo con scritto Via Camillo Montalcini. Frena, ci lascia sul piazzale, l’autista scende e corre ad accendere la sigaretta che stringeva fra le mani da almeno un quarto d'ora. Chissà se il capolinea era proprio qui?? Poi penso no, non c'era e recito a mente dal “Manuale del perfetto brigatista, norme di sicurezza e stile di lavoro”: (...) la casa deve essere scelta con particolare cura: la STRADA deve prestarsi ad un facile controllo da parte del militante e ad un controllo scoperto da parte del potere; cioè possibilmente non deve essere vicina a bar, luoghi pubblici di vario genere: negozi, istituti, magazzini, fermate d'autobus ecc." La villa pubblica prospicente ha il parco che degrada verso la Portuense. E’ riportata nei giornali dell'epoca come “prato con sterpaglie”, ma era gia Villa Bonelli. L'atmosfera è sospesa, sembra di essere a Catania. Un Tomasi di Lampedusa, annoiato e vestito di bianco, potrebbe vergare il suo diario seduto su un divano di vimini. Il traffico di Roma è un rombo lontano che posso scorgere dall'alto se strizzo gli occhi. Il carcere del popolo è rimasto quello che abbiamo scrutato su fotoingrandimenti e vecchi documentari televisivi. C'è un muraglione che protegge il giardino, arriva fino al marciapiede. Una carrucola al secondo piano ed una corda che penzola, operai romeni portano via i calcinacci da un appartamento. Tutta la costruzione è una fortezza minacciosa in cima ad una montagna. Si intravedono le sbarre alla porta finestra che conduce in giardino. L’appartamento ha un soggiorno spazioso ed illuminato, facciamo qualche scatto con il palazzo come sfondo. Sono stanco e contrariato mi sembra che non ci sia assolutamente altro da vedere, nulla che non sia stato scritto verbalizzato e digitalizzato. Cristina si muove rapida: avvita uno zoom, qualcuno dall'ultimo piano fa gestacci. L'anniversario ha reso la strada troppo celebre e oggi non siamo i primi a curiosare. Seguo il muro dell’edificio abbracciandolo, sono praticamente a pochi centimetri dalla casa: se con un pugno potessi bucare la parete entrerei nella prigione di Moro, nella stanza del Presidente. Trevirgolaventiquattro metri quadri sono uno spazio troppo piccolo per uscirne senza i segni che l’anatomopatologo ha cercato invano. Rifletto sconsolato che i terroristi hanno mentito anche su questo. Forse il Prigioniero non ha scorto la luce che filtrava dalla porta a vetri del giardino ma ha visto la finestra, l'unica che si affaccia a sud dove mani intelligenti hanno collocato una scrivania, c’è un libro aperto. Riesco addirittura a leggere il titolo, è un manuale scolastico di terza elementare. Uno scolaro consuma le ore dove è passata la Storia. Alzo gli occhi e fisso i vetri. Intuisco quello che nessuna delle foto che guarderemo la sera stessa fino a notte fonda è riuscita a fissare se non come sincopi digitali, riflessi di uno specchio che non riesci a interpretare. Una mano di bambino ha incollato sui vetri due pupazzi, un personaggio di cartoon, una automobilina e un pesciolino. Hai scritto dalla tua prigione: "Se ci fosse luce...". Abbraccio la mia fotografa stremata che nel frattempo è crollata sul divano, le rimbocco il plaid e siedo sul pavimento davanti a lei. La luce dell’alba bussa alle imposte, le soffio in un orecchio: "Ti racconto il 16 Marzo 1978 e chi era Aldo Moro, un giorno lo spiegherai a tuo figlio".
Sul sito di Repubblica di qualche giorno fa è apparsa una curiosa notizia.
Il segretario regionale del Movimento sociale-Fiamma Tricolore della Basilicata, Vincenzo Mancusi, ha proposto un piccolo aiuto finanziario (1.500 €) alle famiglie che avranno nel corso del 2009 un figlio e che decideranno di chiamarlo Benito o Rachele. La condizione è semplice: i soldi dovranno essere usati per il nascituro (per comprare culla, vestiti o alimenti). La stessa cifra sarà destinata anche ai bambini nati da genitori extracomunitari.
E' un pensiero sicuramente utile e sarà apprezzato da quanti avendo in cantiere un figlio decideranno di chiamarlo come suggerito da Vincenzo Mancusi per onorare le radici profonde del partito.
Un'importante condizione posta è che la nascita del bimbo sia compresa in uno dei seguenti comuni lucani: Calvera, Carbone, Cersosimo, Fardella e S. Paolo Albanese.
Ad un osservatore superficiale potrebbe sembrare che la scelta sia stata effettivamente dettata dal rischio di spopolamento cui sono sottoposti tali ridenti località. Qualcun altro avrà potuto pensare che la scelta sia stata dettata da motivi finanziari (per comuni grossi, dato l'elevato consenso che il partito riscuote in Basilicata, si rischierebbe di non avere troppe risorse per far fronte alle richieste).
Ma gli osservatori più attenti avranno notato che il vero motivo della scelta è che in tal modo il partito conta di conquistare quella che da decenni è una delle roccaforti nemiche. Il comune di Carbone.
Certo. Io l'ho capito subito. Poichè Carbone era una delle sedi più temibili della >Gladio Rossa<, è chiaro che Mancusi a questo punto sta cercando di convertire figli di ex gladiatori rossi ad una tradizione profondamente italiana.
Mi viene da pensare che quasi quasi mi spiace che mio zio Antonio (famoso dirigente della Gladio Rossa ) non possa avere più figli. Chissà cosa si sarebbe inventato. Escludendo Joseph (nome già dato dal padre al fratello maggiore al ritorno dalla campagna di Russia) magari l'avrebbe chiamato Vladimir, Stalingrado o Fidel che accoppiato con il cognome non sarebbe stato male.
Ieri sera sono andato a vedere lo spettacolo teatrale scritto da Corrado Augias e Vladimiro Polchi "Aldo Moro: Una tragedia italiana" a Lecce, presso i Cantieri Teatrali Koreja.
Lo spettacolo è in tour dalla scorsa primavera, occasione del trentennale del rapimento del Presidente della DC.
Non me ne avevano parlato bene, ma nonostante ciò sono andato al teatro, anche con entusiasmo e convinzione.
La mia delusione non è stata dettata dalla qualità dei contenuti, che reputo eccellente. E del resto la firma di Augias in tal senso era una garanzia assoluta.
No. Quello che mi ha deluso sono state le scelte relative all'approccio politico e all'idea drammaturgica.
Mi spiego.
La scelta politica è davvero riduttiva. La narrazione degli eventi, infatti, confluisce nella domanda finale sul "Polis o Pietas" mutuata dall'Antigone di Sofocle. Ripercorrendo gli avvenimenti e le lettere di Moro nelle diverse fasi della prigionia sembra, secondo Augias, che davvero l'essenza di tutto sia la contrapposizione tra fermezza e trattativa. Ormai non ci crede più nessuno che non vi furono trattative. Le trattative ci furono eccome, a diversi livelli e tra diversi interlocutori. Il problema è che qualcuno rincorreva le trattative per boicottarle. E al termine prevalse la forza di chi, una volt che pensava di essersi liberato di Moro, non aveva nessuna intenzione di ritrovarselo vivo.
La scelta drammaturgica, invece, mi ha lasciato sconcertato. Lo spettacolo inizia con un'abbondante serie di filmati che riguardano l'agguato di via Fani. Prosegue con una voce narrante che illustra gli eventi al pubblico. Tra voce narrante e immagini, si inserisce la figura di Aldo Moro che legge le lettere più significative. Se fosse stata una puntata di Enigma, sarebbe stata da antologia. Una specie di "La notte della Repubblica" di Zavoli in un bignami che scandisce perfettamente gli avvenimenti e li contestualizza nella vicenda.
Ma diavolo, siamo al teatro, non in TV! La comunicazione teatrale è diversa, la gente non va al teatro per un'opera di divulgazione, ma per cogliere la rappresentazione artistica di un evento. Le possibilità di comunicazione del teatro sono state completamente ignorate (e qui la colpa non può essere di Augias ma di chi si è occupato della trasposizione del testo in forma teatrale) e ne è venuto fuori un "programma di divulgazione di alto livello" che se fosse andato sulla terza rete sarebbe rimasto un pezzo da antologia. Sarebbe bastato inserire dei dialoghi, ad esempio un brigatista che comunciava a Moro cosa avveniva all'esterno e Moro che commentava e cercava di stendere le sue lettere dando indicazioni al suo interlocutore brigatista affinchè l'effetto del messaggio fosse il più efficace possibile.
Mah. Non vorrei essere stato troppo severo. Forse sono condizionato da un coinvolgimento nella vicenda che eleva di molto le mie aspettative, forse non era serata. Ma mi piacerebbe avere il parere di altri che hanno assistito allo spettacolo.
Mentre ero seduto, anche se non mi annoiavo (come qualcun altro mi ha detto di se a fine serata), ho pensato al bellissimo monologo di Giorgio Gaber "Cosa non mi sono perso". Per godere delle cose che si perdono, è necessario sapere in anticipo quanto si soffre.
Tipi strani in giro ce ne sono tanti e da quando ho scritto il libro me ne sono passati davanti non pochi. Di aneddoti da raccontare ne avrei tanti perchè ad ogni presentazione c'è sempre qualcuno che vuoi per protagonismo, vuoi perchè non ha molto da fare si dedica allo sport più amato dagli italiani: il pettegolezzo.
E se succede ad uno scrittore NO-SELLER come il sottoscritto posso immaginare cosa capiterà agli autori più popolari. Ma questa la voglio raccontare perchè temo sia troppo esilarante. Tenetevi forte: il sottoscritto è uno stipendiato dalla CIA. E naturalmente non perchè sia dipendente della Confederazione Italiana degli Agricoltori.
E' andata così.
Stasera mi ha chiamato un lettore con il quale siamo diventati abbastanza amici e, riuscendo a trattenere a stento le risate, mi ha raccontato un episodio che gli è capitato recentemente assistendo ad una proiezione del documentario "Il sol dell'avvenire" a Roma.
Era arrivato con largo anticipo e prima della proiezione stava dando un'occhiata al mio libro, che aveva portato con se nella borsa. Quando si è avvicinato un altro spettatore che, indicando il testo, inizia un dialogo. Racconto quello che i due si sono detti, per come mi è stato riferito.
Spettatore: "Conosci quel libro?" Amico: "Beh, direi di si" Spettatore: "L'hai letto'" Amico: "Si..." Spetttore: "Ti è paciuto?" Amico: "Si..." Spettatore: "Secondo me è di parte" Amico: "Credo che qualsiasi libro sia di parte. Non credo possa essere considerato un difetto. Stai dicendo una cosa lapalissiana..." Spettatore: "Ma tu lo conosci l'autore?" Amico: "No, perchè tu lo conosci?" Spettatore: "Certo. Ed è un amico degli americani" Amico: "Prego?" Spettatore: "Si, è pagato dalla CIA. Gli danno 8.000 (!) euro al mese, capisci?" Amico: "Ah, si certo, capisco. Beh ora ti saluto che mi sa che è arrivato un mio amico con cui avevo appuntamento"
Ho chiesto all'amico di descrivermi il personaggio. Giovanile, alto, pochi capelli ed una vistosa chierica. Chissà se avrò mai il piacere di conoscerlo. Non fosse altro per dirgli che, nel caso la CIA decidesse di stipendiarmi, sicuramente mi ricorderò di lui e avrò modo di dividere i proventi con la formula dell'80-20: 80% a me, 20% a lui. Una provvigione del 20% mi sembra decisamente generosa. O no?
Ieri sera alla bella trasmissione di Serena Dandini "Parla con me" era presente la scrittrice Anna Negri, che presentava il suo romanzo "Con un piede impigliato nella storia".
Anna Negri è persona di grandi capacità e talento. Basta dare un'occhiata all sua voce su Wikipedia
Forse per questo mi ha colpito molto una sua frase, pronunciata con aria particolarmente seccata, a sottolineare una citazione (forse l'ennesima) che la Dandini ha fatto in relazione al padre, forse più famoso di lei, Toni Negri.
Anna Negri ha commentato un'affermazione della Dandini con un "ma non si riesce a fare un'intervista senza nominarlo quell'individuo là?".
La Dandini, in evidente imbarazzo, ha voltato pagina e ha iniziato a parlare del libro.
Toni Negri ha una grande personalità, una forte presenza, a detta di chi ci ha parlato (come Aldo Grandi che è stato con lui in contatto per il libro "La generazione degli anni perduti. Storie di Potere Operaio") si crede ancora il centro della rivoluzione mondiale.
Forse è per questo che una figlia non da meno per talento ed intelligenza può sentirsi soffocata da tanta personalità? O forse, come tutti i figli di personaggi celebri, non ne può più di essere continuamente ricondotta al padre?
E' passato una anno da quel 30 maggio in cui Grazia Di Donna, giornalista dell'ADNKronos è stata stroncata da un infarto a soli 49 anni. Persona speciale, davvero, per chi ha avuto il privilegio di conoscerla. Persona disponibile con tutti, al contrario di altri suoi colleghi che pur ricoprendo incarichi molto meno prestigiosi sono molto bravi nello sport nazionale del "chi se la tira di più".
Ma quando telefonai alla redazione dell'ADNKronos, nella quale lei lavorava dal 1980 e dove ricopriva l'importante ruolo di caposervizio della redazione Interni, mi fu passata senza problemi e fu pronta ad ascoltarmi. Poi lesse il mio libro, appena uscito (era il 2007), le piacque, discutemmo di molti aspetti, ci confrontammo ed ebbi la sensazione che mi stesse mettendo al suo stesso livello. Lei, che di esperienza ne aveva davvero ed io, che ero l'ultimo arrivato e lo sono tutt'ora.
Grazia e' stata per anni la cronista di punta dell'agenzia, seguendo i principali avvenimenti di cronaca giudiziaria e le maggiori inchieste sul terrorismo, (l'attentato al Papa, le Brigate Rosse, la strage di Ustica, Gladio, l'affaire Mitrokhin, l'inchiesta su Telekom Serbia, per citare solo le vicende più note al grande pubblico.
C'eravamo sentiti pochi giorni prima, con Grazia, perchè stavamo valutando assieme alcune analisi. Poi i miei impegni lavorativi mi avevano costretto a rimandare alcuni propositi e quando nel novembre scorso decisi di ricontattarla, prima di chiamarla telefonicamente mi feci un giro online per vedere se aveva scritto qualcosa di nuovo che mi era sfuggito. Fu così che appresi la notizia e, ricordo, il mio pomeriggio lavortivo finì li. Il resto fu un girovagare di pensieri, ricordi (piccoli) e immagini. Il giorno dopo chiamai un amico comune per chiedere conferma e per sapere qualcosa di più. Non mi aveva avvisato perchè la cosa lo sconvolse molto a livello umano, era persona di cui si fidava e, mi disse "ora mi sento molto più solo".
Fu allora che realizzai davvero cosa avevamo perso. E spero che da lassù possa provare un po' di quella felicità che per tutta la sua vita ha regalato alle persone che hanno avuto il dono della sua compagnia.
In questi giorni mi è capitato di parlare spesso con altri appassionati di storia degli anni ’70.
Persone che sacrificano il proprio tempo libero e le proprie famiglie per cercare di capire meglio cosa ha attraversato l’Italia nei cosiddetti “anni di piombo”.
E al centro di quegli anni, come tutto a se richiamare, il caso Moro. Ciascuno la vede a modo suo. Ciascuno interpreta gli stessi elementi in mille sfumature diverse. Ciascuno ha l’abilità di riuscire a convincerti che i suoi elementi “reggono” nella propria ricostruzione.
Nelle interminabili discussioni, si salta di palo in frasca, si parte da via Fani per giungere alle aree limitrofe a Roma, per tornare a via Fani e finire al materialismo storico applicato alla classe operaia delle grandi fabbriche degli anni ’70. Mi sembra di essere una rana, che salto dopo salto, percorre le sponde del lago come un improbabile canguro reatino.
Ma mi sembra anche di essere in una grande caccia al tesoro in cui qualcuno, da un livello superiore, dirige gli indizi e si diverte ad osservare come si allontanano dalla meta i partecipanti, utilizzando la nota legge di Truman “Se non li puoi convincere, confondili”. Ma solo perché il gioco prevede un unico vincitore che, come premio, avrà il privilegio di accedere a tale esclusivo livello.
E per rappresentare questa sensazione non mi è venuto di meglio che il trovarmi in un campo di gigli che impregnano l’aria con un profumo che non è un profumo, intensi come un olezzo che non è una puzza ma che ti resta dentro per un tempo indefinito. Eleganti, dal fusto eretto, dalle importanti proprietà medicali e che, nell’iconografia religiosa rappresentano la purezza.
Ricordiamoci, però, quanto Shakespeare sottolineò sui gigli: “Quando marciscono i gigli mandano un puzzo più ingrato che quello della malerba”.
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