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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Manlio  14/07/2008, in Interviste (4372 letture)
Nicola Biondo e Massimo Veneziani hanno, probabilmente, aperto una vera e propria voragine all'interno dei "meccanismi operativi occulti" che hanno caratterizzato il "Palazzo" durante i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro. Scrivendo un libro sulla figura di Tony Chichiarelli che ha, tra gli altri, due grandissimi pregi:
- l'aver scavato attorno ad una figura volutamente sino a questo momento trascurata
- l'aver messo insieme una ricostruzione della sua vita che dimostra che il falsario non ha solo prestato la sua manovalanza agli apparati dello Stato, ma in più di un'occasione, ha intersecato attivamente non solo il caso Moro ma anche altri delitti politici avvenuti nel nostro Paese.

Un atto di coraggio, quello di Biondo e Veneziani. Una vera e propria iniziativa politicamente "scorretta", che va al di fuori delle righe proprio perché oltre le cose già scritte spesso si celano molte risposte o, più semplicemente, la possibilità di porsi le stesse domande sotto un altro punto di vista.
Il falsario di Stato (edizioni Cooperfiles) è un libro da "gustare". Perché si legge tutto d'un fiato, perché non è un romanzo ma un tentativo, riuscitissimo, di raccontare una storia vera, partendo dalle fonti, ma senza le pretese di dover dimostrare qualcosa. Semplicemente, mostrare.
In questa intervista, alla quale gli autori hanno risposto congiuntamente, ho cercato di approfondire i "dietro le quinte" e di offrire al lettore uno strumento in più per conoscere meglio la storia di un falso delinquente.

Ultimo dettaglio non da poco, il libro è in corsa per il premio Scerbanenco per il miglior noir edito. Credo sia importante per tutti coloro che si occupano di queste vicende che un lavoro di questo tipo possa ricevere un premio che merita e possa portare attenzione su una figura come quella di Tony Chicchiarelli sulla quale ci sarebbe ancora molto da scoprire... Per chi lodesidera, questo è il link dove votare
http://www.noirfest.com/cerba.asp

1) In tanti anni nessuno è andato a fondo nella conoscenza del “personaggio” Chichiarelli. Semplice sbadataggine o volontà di non approfondire una storia “scomoda”?
"Il falsario di stato" è la prima biografia su Tony Chichiarelli. Altri studiosi si sono interessati a questo incredibile personaggio, finanche Giancarlo De Cataldo nel suo Romanzo Criminale ne individua il ruolo di frontiera a metà tra apparati dello Stato, Br e banda della Magliana. Noi abbiamo acceso un riflettore su Chichiarelli perché siamo convinti che la sua storia andava raccontata: perché interseca alcuni tra i più gravi delitti politici del nostro paese e poi perché la vita e la morte di Chichiarelli sono in un certo modo indicative della commistione tra mondo legale e illegale. E’ un perfetto personaggio da romanzo criminale, un eccezionale e dimenticato protagonista del nostro far west contemporaneo. Tony è un ragazzo sveglio, ambizioso e generoso che nasconde nello stesso tempo una personalità contorta e una mente votata al crimine: dalla seconda metà degli anni ’70 si lega ad alcuni personaggi che daranno vita alla banda della Magliana, come Danilo Abbruciati, ad estremisti di destra a confidenti dei servizi segreti e lui stesso inizia a definirsi un fiancheggiatore delle Brigate Rosse. Certo, ci sono degli esempi negativi: quelli di alcuni “studiosi” che affrontando il caso Moro e più in generale gli anni di piombo hanno appena sfiorato il personaggio Chichiarelli, evitando attentamente di parlarne. Queste amnesie non ci meravigliano provenendo da personaggi che nella loro ricerca si pongono un obiettivo a prescindere, quello di dimostrare che tutto è chiaro nella storia italiana e ciò che non lo è semplicemente lo ignorano, lo fanno scomparire. Il Falsario di Stato è la storia di uomini piccoli piccoli i cui nomi non compariranno mai nei manuali dei Licei e delle Università. Ed è un peccato, perché senza di loro, senza i loro gesti, molto della storia ufficiale, perde il suo senso profondo: diventa incompleta, ripulita e parziale..

2) Appare chiaro, dal vostro libro, che Chichiarelli disponesse di complicità “molto in alto” e che potesse permettersi, nelle sue azioni, un atteggiamento molto spregiudicato e che, per contro, non ritenesse di dover correre rischi particolari. Come mai?
Chichiarelli è insieme un bandito e un soldato. Un bandito che vive nel sottobosco criminale romano e un soldato che lo Stato usa per alcuni lavori sporchi. Sapeva di correre dei rischi altissimi e nello stesso tempo che in virtù dei suoi incarichi riservati era un intoccabile. Chi lo ha protetto possiamo solo provare ad immaginarlo. Noi abbiamo invece individuato i nomi di alcuni esponenti delle forze dell’ordine che, pur avendo elementi schiaccianti sulla sua condotta criminale, non lo hanno mai fermato. Documenti importanti sulla carriera criminale di Chichiarelli sono scomparsi. La stessa indagine sulla sua morte è stata archiviata: il giudice che ha indagato ha scritto “le zone d’ombra sono rimaste”.

3) Contatti con la Banda della Magliana, con i servizi, con informatori dei servizi, ed anche con personaggi coinvolti nel Golpe Borghese. Autore di due comunicati (il falso n. 7 ed il falso n. 10), si autodefinisce simpatizzante delle stesse Br. E forse entra addirittura in contatto con il memoriale. Potrebbe lo stesso Chichiarelli aver avuto un ruolo “cerniera” nella vicenda Moro?
Che abbia avuto un ruolo non c’è alcun dubbio. E non solo quello di abile falsario: Chichiarelli è un uomo d’azione che compra e vende armi, che frequenta ambienti dell’estrema sinistra romana, il bacino di reclutamento delle Br, e nello stesso tempo è in ottimi rapporti personali con uno dei capi della Magliana, quello che più di altri boss ha avuto un ruolo in molte faccende “politiche”, Danilo Abbruciati. E’ possibile solo coltivare l’ipotesi che Chichiarelli avesse rapporti diretti con alcuni brigatisti. Rimane il fatto che, secondo alcune nostre fonti nell’entourage del falsario, questi abbia avuto effettivamente contatti con le Br.

4) Nel 2004 Andreotti ha dichiarato che, durante la trattativa Vaticano-Br, il contatto delle Br cercò di accreditarsi preannunciando la pubblicazione del falso comunicato della Duchessa. E' possibile che Chichiarelli abbia giocato un ruolo anche in questa partita? Se sì, per conto di chi e con quale fine?
L’idea di legare il falso comunicato alla disponibilità della Santa Sede al pagamento di un riscatto in cambio della vita di Moro è stata di Andreotti. Sicuramente il Presidente ha buoni motivi per farlo. Un dato però è certo: il Presidente ha sempre taciuto un particolare e cioè di aver ricevuto il giorno prima della beffa del Lago della Duchessa una telefonata che preannunciava come un bluff quello che sarebbe stato il comunicato numero 7 scritto da Chichiarelli. Questo particolare viene alla luce solo per bocca dello stesso senatore a vita nel 2004. Per quanto riguarda la fazione che Chichiarelli ha servito nel redigere il falso comunicato è ormai noto che il padrino di quell’operazione è Steve Pieczenick, l’esperto americano chiamato da Francesco Cossiga al Viminale durante il sequestro Moro. L’americano ha affermato che quel comunicato fu una sua idea con l’obiettivo – dice –“ di lasciare che Moro morisse con le sue rivelazioni”. Se Pieczenick ammette di essere stato l’ideatore, Tony Chichiarelli ne è stato l’esecutore.

5) Secondo una perizia riportata nel libro, il primo comunicato in codice e il settimo comunicato Br (quello vero, non quello falso) sono opera della stessa mano. Questo fa immaginare che Chichiarelli possa aver svolto un ruolo tutt'altro che marginale nel caso Moro. Si può ipotizzare un Chichiarelli addirittura interno alle Br e non un "disturbatore" esterno?
Le perizie sono prodotti umani e come tali passibili di critiche e di errori.
Tony ha svolto un importante ruolo nel caso Moro: solo la manifesta timidezza intellettuale di alcuni nega questo dato di fatto. Non abbiamo certezze assolute sul fatto che Chichiarelli fosse “interno” alle Br. Alcuni indizi porterebbero a questa conclusione ma non bastano. Tony firma svariati documenti brigatisti, alcuni dei quali minacciano di rendere noto il memoriale e le modalità della scoperta del covo di via Gradoli. Segue e probabilmente conosce Mino Pecorelli, fa ritrovare una serie di documenti su alcuni progetti di attentato a note personalità, vende armi a destra e a manca, compie la più grande rapina mai realizzata in Italia e la firma con la stella a cinque punte: tutto questo lo fa su ordine di qualcuno. E’ scaduto il tempo per conoscere nomi e cognomi dei suoi padroni, dei mandanti. Possiamo solo collegare i fatti e cercare di interpretarli. Chichiarelli è stato un soldato che ad un certo punto doveva morire, forse perché aveva esaurito il suo lavoro e poteva ricattare qualcuno. La sua è una storia nera, di un ragazzo a suo modo romantico e generoso che attraversa come una meteora alcune tra le pagine più oscure della nostra storia. E’ rimasto sullo sfondo perché in fondo è rimasto un perdente, un servitore delle logiche distorte del Potere: ha contributo a scrivere un pezzo importante della nostra buffa e crudele storia Patria e non è molto edificante per il potere che la sua storia venga conosciuta.

6) Secondo voi a chi faceva realmente capo il falsario?
L’utilizzo di criminali da parte di uno stato in alcuni delicati affari è una costante in questo Paese e non solo. Non troveremo mai le prove per rispondere a questa domanda: l’importante è pero conoscere queste storie.

7) Ci sono degli elementi che pur essendo stati raccolti nella sua ricerca non è stato possibile inserire nel libro? Per motivi di “documentabilità” o per indicibilità?
Certo, capita a tutte le ricerche! Capita anche quando si scrive un romanzo, dover tacere alcune cose. Nel nostro caso basta dire che sono stati smarriti verbali di perquisizione nell’abitazione del falsario, è introvabile il testo del suo interrogatorio fatto dalla Polizia e sono stati smarriti alcuni reperti riguardanti il suo omicidio: abiti, proiettili e altro ancora.

8) Ritiene che Chichiarelli potesse lavorare non tanto per il servizio italiano quanto per una “sovra-struttura” dei servizi, sostanzialmente occulta, ed è per questo che non è stato possibile dare alla sua vicenda, nel corso degli anni, la giusta importanza e condurre adeguate indagini?
Non lo so. Noi siamo riusciti a dimostrare che Chichiarelli è stato un “falsario di Stato”. Questo è già un passo. La mia sensazione è anche che le indagini sulla sua morte non sono state all’altezza della complessità del caso.

9) Se è acquisita la conoscenza del falsario come autore materiale del falso comunicato n. 7, si è invece più volte ipotizzato che abbia potuto anche essere l’autore delle due fotografie scattate a Moro durante la prigionia. E che abbia mantenuto per se altri scatti originali. Cosa può esserci di vero in questa ipotesi?
Tony fa ritrovare acclusa alla rivendicazione “brigatista” della rapina alla Brink’s Securmark due frammenti di foto polaroid che ritraggono un drappo brigatista. In precedenza nel 1979 fa ritrovare un borsello che conteneva tra le altre cose una rivendicazione del delitto Pecorelli e due cubi flash per Polaroid. E’ il suo "modus operandi": far ritrovare degli oggetti che rimandano alla vicenda Moro. Io non credo che Tony sia stato all’interno della prigione delle Br, credo invece che sia stato molto vicino ad alcuni brigatisti. Il comunicato numero 7 poteva scriverlo qualsiasi normale falsario e in cambio avrebbe avuto un compenso. Tony no, lui continua per anni a lasciare messaggi minacciosi e sibillini come a dire: “io so come sono andate le cose a Moro, a Pecorelli”.
Per tornare alle foto che lui fa ritrovare: nessuna perizia è mai stata fatta su quei frammenti, non sono mai stati posti a confronto con le due fotografie che le Br scattarono a Moro e inviarono ai giornali

10) Recentemente l’esperto americano Pieczenik si è attribuito l’idea di dover realizzare un falso comunicato per far scattare la sua trappola alle Br. Secondo voi quale può essere il legame tra l’ideatore e l’autore materiale del comunicato?
Il legame è nei fatti. L’americano è l’ideatore di quell’operazione che Tony porta a termine e che poi continua per anni. La più grande beffa politica, quella del lago della Duchessa, ha nomi e cognomi. Che poi le reazioni politiche e quelle degli studiosi e dei mass media siano vicine allo zero, non importa. Speriamo che il nostro libro possa colmare in parte questa mancanza. Spesso passano alla storia i grandi generali e dei soldati nessuno si ricorda più. Tony è stato un soldato dimenticato di quella guerra, nobile e nerissima insieme, che lo Stato ha ingaggiato contro l’eversione in Italia tra gli anni ’70 e ’80. Per vincere quella guerra sono serviti anche i banditi, i criminali, i “pirati” come Danilo Abbruciati, Tony Chichiarelli e molti altri.

Per le domande 4 e 5 ringrazio Antonino Iovino che, tra i lettori, ha risposto al mio invito di porre alcune domande all'ospite dell'intervista.
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In un'intervista di Davide Frattini pubblicata dal Corriere della Sera il 14 agosto, l'ex leader dell'FPLP Bassam Abu Sharif (foto accanto), tra le altre cose, affronta la questione sollevata da Carlos in una sua intervista recente all'ANSA (leggi post) secondo la quale un "commando" di agenti del SISMI molto vicini ad Aldo Moro erano pronti a liberare, con un blitz, brigatisti in carcere per condurli a Beirut dove un aereo con, tra gli altri, il Col. Giovannone, li avrebbe trasportati in uno stato pronto ad accoglierli.
Il clamoroso blitz fallì a causa di unimprudenza proprio di Bassam Abu Sharif. Almeno secondo la versione di Carlos.

Leggiamo cosa ha dichiarato l'ex leader dell'FPLP al Corriere.

Ancora Carlos ha raccontato all'Ansa che l'ultimo tentativo del Sismi per salvare Moro è saltato per una sua «imprudenza » . Ci sarebbe stato un accordo per scarcerare alcuni brigatisti e portarli a Beirut.
«Avrei potuto salvare Moro. Nessuna imprudenza. Ho chiamato un numero, ho lasciato un messaggio dopo l'altro. Nessuna risposta. Davvero strano: una linea speciale e nessuno risponde ».

Qual è stato il ruolo del Fronte popolare nella trattativa con le Brigate Rosse?
«E' complicato. Posso dire che eravamo pronti a fare quello che veniva richiesto »

Quindi l'imprudenza di Bassam Abu Sharif sarebbe stata quella di telefonare ad un numero speciale per lasciare dei messaggi ma nessuno ha risposto? Quindi qualcuno era a conoscenza dell'operazione ma boicottò il canale di comunicazione...

La mia impressione è che vi fosse davvero una trattativa molto riservata (se era stata attivata una linea speciale) che coinvolgeva le forze palestinesi "amiche" di Moro e che la trattativa fosse ad ottimo punto. Tanto che il messaggio di cui parla Bassam Abu Sharif forse rappresentava l'ok definitivo per il via all'operazione. Ma qualcuno, evidentemente, non lo fece arrivare a destinazione.

La cosa che colpisce in queste poche righe è che Sharif non smentisce la vicenda del blitz (e non mi sembra poco!) e, soprattutto, che forze interne allo Stato e nemiche di Moro siano riuscite a bloccare anche questa possibilità per giungere alla liberazione del Presidente democristiano.
Come già erano riusciti a fare per la trattativa socialista, i tentativi di Cazora, la mediazione proposta dal Vaticano.

Ufficialmente, certo, non si poteva far nulla perchè equivaleva a dare alle BR quel riconoscimento politico che avrebbe mandato in rovina lo Stato (?). Ma non veniteci più a raccontare, per favore, che "non si poteva cedere al ricatto brigatista" quando in realtà se energie non sono state spese per cercare la prigione o per tentare strade umanitarie per salvare la vita a Moro molte, invece, ne sono state adoperate per bloccare ogni tentativo, anche minimo, in grado di aprire qualche crepa sul masso che era stato già posto, a scanso di equivoci, sul sepolcro di Moro prima ancora che i suoi assassini materiali arrivassero alla decisione di ucciderlo.
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Il '68 quarant'anni dopo

Prendendo spunto dal suo ultimo libro "'68, l'anno che ritorna"  (Rizzoli, 2008) ho provato a chiedere a Franco Piperno fondatore di Potere Operaio e leader del movimento romano, quale sia l'eredità positiva e negativa che il movimento di contestazione del '68 ci ha lasciato.
Oltre che per aver attraversato da protagonista gli anni della contestazione, Franco Piperno è anche noto per l'impegno civile che lo caratterizza nei dibattiti cui è chiamato a partecipare. Pur non avendo scritto molti libri è uno dei principali osservatori dei movimenti di resistenza critica al processo di globalizzazione che non si fonda sulla condivisione dal basso
. '68 l'anno che ritorna, è un testo che parte dall'esperienza sessantottina e dal suo significato nel tentativo di fare un bilancio politico, culturale e sociale di un sogno infranto di giovinezza e rivoluzione di chi, come lui, si è schierato dalla parte dei perdenti perchè i posti della ragione erano già tutti esauriti.


Sono passati 40 anni ma ancora c’è chi difende il ’68 attribuendogli il merito di aver reso possibili molte riforme sociali di cui godiamo tutt’ora, e chi lo attacca indicandolo come causa principale dei “disastri” che hanno attraversato l’Italia negli anni successivi e che in parte ci portiamo sino ad oggi. Quale è l’eredità positiva che il ’68 ci ha lasciato?
Franco Piperno: La critica alla modernità. Il ’68 proprio perché era un movimento di giovani intellettuali ha attaccato lucidamente il nucleo della sofferenza moderna che è l’astrazione della modernità. L’idea dei diritti dell’uomo e tutto il resto che ha messo su un imperialismo quanto mai chiuso e ideologico. Criticare i diritti dell’uomo tra le tribù indiane sopravvissute è totalmente ridicolo in quanto caratterizzate da una concezione della vita e dei legami sociali completamente diversi, poco basata sull’individuo e molto sul collettivo. Quello che ha elaborato l’Europa nel ‘700 è un’idea di divisione dei poteri di rappresentanza legata irriducibilmente alla stessa Europa. Faccio un esempio. La distinzione tra potere giudiziario e potere esecutivo è semplicemente che in Europa i nobili vengono sistemati a fare i giudici e invece il Re acquista questa capacità esecutiva che prima non c’era. Quindi si arriva alla rappresentanza che sono in realtà i borghesi del ‘700, il Re che è la tradizione della mano pubblica e poi i giudici che sono i nobili che sono privati degli altri poteri e gli si dà il potere di giudizio. Pensare che invece il risultato della scienza politica è valida per l’Oceania come per la Lapponia è talmente ridicolo e provinciale che più non si può.
Stiamo assistendo alle rovine di questo tentativo perché quello che sta accadendo con la globalizzazione è giusto la messa in evidenza della sua incapacità di funzionare. E ancora ne vedremo delle belle. Ma il ’68 ha fatto questo 40 anni fa, è talmente evidente che quando riprenderà una critica pratica alla nostra società saranno i magazzini del 68 a fornire gli strumenti e i sentimenti per affrontare questa guerra.

Il “68” ha portato con se elementi negativi che hanno prodotto effetti visibili anche nella nostra società?
F.P.: Certo. Molti, come succede nei momenti di grande cambiamento. Intanto l’elemento della violenza che ferisce non solo chi la patisce ma anche chi la pratica. Penso alle ferite interne, ovviamente, ai mutamenti di carattere e della sofferenza che è implicita nella violenza sociale, non in quella criminale che ha altre radici ed è sempre limitata nel tempo. Qui si è trattato di un fenomeno di massa. Poi, come accade nelle sconfitte, è che la sconfitta non è semplicemente il fatto che tu “non sei riuscito” ma anche che interiorizzi questo e passi dall’altra parte! Ci sono pentiti di vario genere che occupano posti rilevanti. Fortunatamente in Italia, come in Giappone in Germania non sono tanti. In Francia ce ne sono certamente di più. Ma quello è di nuovo un aspetto della sofferenza dal punto di vista dell’anima sociale per cui quelli che hanno tentato di migliorare le cose o di farne una radicale trasformazione, oggi inneggiano a Di Pietro e alla legge all’ordine. Quello è un dolore, non è solo il fatto che uno si sia pentito. E’ semplicemente che Lanfranco Pace è stato con Berlusconi e in questo stare con Berlusconi ci sentiamo tutti coinvolti, come accade quando un tuo amico commette una sorta di tradimento delle sue idee, idee che una volta vi avevano resi amici.
Poi si potrebbe continuare col fatto che la reazione al ’68, tanto in Italia quanto all’estero, ha comportato un peggioramento delle libertà, ma questo è tipico di ogni rivoluzione sconfitta. Il ’68 ha provocato tanto male ma nessuna trasformazione avviene usando i guanti.

La fabbrica è stato uno dei terreni di scontro che studenti e militanti di Potere Operaio hanno utilizzato per battersi al fianco degli operai nelle lotte per il salario, per i diritti sul lavoro, ecc. Come è cambiata la fabbrica dal ’68 ad oggi?
F.P.: Di fatto la fabbrica si è computerizzata ed è venuto meno l’elemento di fatica fisica del corpo che era un fondamento importante per la presa di coscienza degli operai. La fabbrica si è come denaturata non solo nel senso quantitativo ma soprattutto perché la nuova tecnologia fa si che l’intervento dell’operaio (ma non so se è più possibile chiamarlo così. Forse dovremmo dire dell’impiegato…) sia del tutto ausiliario rispetto alle macchine. Questo comporta anche la scomparsa dell’innovazione operaia che era, in fondo, la base dell’orgoglio collettivo degli operai. Nella vecchia fabbrica l’operaio cercava in tutti i modi di risparmiare gesti per diminuire la fatica e questo richiedeva una capacità oltre cha manuale anche intellettuale. Tutto funzionava nel senso che gli operai cercavano trucchi per risparmiare lavoro, i capireparto annotavano questi trucchi. Dopo di che il nuovo protocollo dei gesti operai nella fabbrica fordista aveva interiorizzato questa scoperta operaia. Quella che Arquati con una bella espressione chiama “l’innovazione operaia”. Questo non è più possibile perché se pensiamo ad una fabbrica che costruisce laser il rapporto dell’esperienza dell’operaio è totalmente insignificante perché, contrariamente alla vecchia concezione della fabbrica, un operaio non sa neanche cosa è un laser e non riesce a dominare intellettualmente l’oggetto che costruisce. E questo in realtà va di pari passo con il ridimensionamento del bisogno di lavoro e quindi il bisogno di lavoro diventerà impellente per coloro che vogliono arricchirsi mentre per gli altri, poiché la società chiede meno lavoro, può essere un’occasione di estrema emarginazione o di un rapporto diverso col reddito. La società oggi è abbastanza ricca da garantire il necessario. Le crisi che noi abbiamo sono crisi di eccedenza che dipendono anche dai nostri consumi, che aumentano sempre di più e necessitano di migliori stipendi, comportano un riproporre senza fine lo stesso modello con le macchine che ci intasano. L’altra possibilità, naturalmente, è un altro modello di consumo, un altro rapporto con la merce che non è un concetto di austerità ma una cosa di qualità diversa. E’ più importante preservare la struttura delle nostre città dell’interno, al sud, che sono realizzate con l’idea della “città con gli orti” come Gerusalemme. C’è una vecchia idea mediterranea dove l’auto consumo è un elemento importante e non marginale o addirittura folkloristico. Mangiare un pomodoro raccolto dal proprio orto, per chiunque l’abbia fatto, non ha alcun rapporto col pomodoro che compriamo al supermercato. L’immagine vera di questo è Napoli, considerata città povera per cui la Comunità Europea manda miliardi di euro che servono per costruire le reti di consenso, a dare una specie di salario sociale a coloro che stanno col Governatore o con l’anti-Governatore. La conseguenza di questa situazione è che i rifiuti ricoprono gli esseri viventi. La quantità di consumi è così sproporzionata che la povertà di Napoli appare un problema fittizio ed il problema vero è un cattivo consumo collettivo. Come qualcosa che attraversa le persone dove ci sono alcuni innocenti e altri colpevoli. Siamo in una situazione nella quale dobbiamo cambiare abitudini e questo cambiamento di abitudini ha un carattere sovversivo perché ha la possibilità di sottrarsi al mercato. Non abbiamo bisogno di tutte queste merci, il bisogno è costruito artificialmente e per questo dà luogo a delle cose abissalmente contraddittorie. Attraverso i canali umanitari diamo dei soldi all’Africa per aiutare le popolazioni a non morire di fame. Poi mettiamo dei dazi sui prodotti agricoli che provengono dall’Africa per proteggere i nostri pseudo-agricoltori. Ma il modo più giusto di aiutarli non sarebbe vendere i loro prodotti ad un prezzo concorrenziale che loro ti offrono? Ma questo vorrebbe dire modificare gli equilibri politici in Francia dove gli agricoltori hanno un peso importante nella società. Siamo di fronte ad una gigantesca irrazionalità. Quello che crea sofferenza è l’astrazione che viene dall’avere definito alcuni concetti vuoti che si autonomizzano. Forse una rappresentazione più efficace ancora rispetto a quella di Napoli è data dal traffico. L’automobile all’inizio è stata un elemento di libertà del corpo per lo spostamento. Poco tempo fa ho letto una statistica del comune di Roma che dice che nel 1914, quando le auto era molto poche, si percorrevano da 15 a 18 Km in un’ora. Attualmente l’auto percorre in media circa 3 Km l’ora e se consideriamo che a piedi, con passo normale, se ne percorrono più di 4 è evidente che il traffico è diventato una trappola.
Però è difficilissimo, paradossalmente non tanto per il ricco che forse è anche più disponibile, dire al povero che deve andare a piedi perché la prende come una regressione sociale. E questo è un dato oggettivo, generalizzato, lo si ritrova anche nei piccoli paesini dai caratteri ancora medievali completamente intasati da macchine.

Per concludere, una domanda sulla politica attuale. Che ruolo può avere oggi la sinistra e cosa comporterà il fatto che la sinistra cosiddetta “antagonista” non abbia più rappresentanza istituzionale?
F.P.: Solo del bene. Intanto è evidente che c’è una crisi non nella sinistra radicale ma nella sinistra. Basta guardarli: dai Socialisti a Rifondazione sono dei rappresentanti in cerca di chi rappresentare. Hanno sempre fatto il mestiere di “rappresentanti”. E’ tutta una cosa storta fin dall’inizio. Mentre viceversa ci sono dei militanti che si sentono come orfani. Il punto è che bisogna pensare in una condizione di post-sinistra, non è riproponibile il modello statalista e soprattutto non è riproponibile l’idea della sinistra che i problemi si risolvono aumentando la ricchezza. I problemi di ridistribuzione della ricchezza non sono legati alla quantità di ricchezza ma alle relazioni tra le persone. Noi potremmo star meglio con una produzione persino diminuita rispetto a quella attuale. E’ tutta una cosa diversa, in cui si tratta di ricostruire una cultura ed una sensibilità. Probabilmente da questo punto di vista il volontariato, anche quello cattolico, è molto più vicino ad un altro modo non statalista ma comunitario di porre il problema ad un superamento della dimensione della nazione che è stato l’altro aspetto centralistico della nostra storia. Noi poi l’abbiamo preso pari pari dai francesi senza ereditare però da loro il rigore nella concezione dell’amministrazione pubblica. Il mio amico Deleuse un giorno mi disse che il guaio italiano è che l’Italia è stata concepita come un intreccio tra la capacità organizzativa piemontese e la fantasia napoletana. Poi però è andata a finire che la capacità organizzativa ce l’hanno messa i napoletani e la fantasia i piemontesi. Puoi pensare che disastro…
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Da qualche giorno a questa parte, precisamente da quando Mario Calabresi  (figlio del commissario Luigi ucciso il 18 maggio '72 a Milano) ha pubblicato un articolo sulle vittime del terrorismo su Repubblica, si è animato sui giornali nazionali un interessante dibattito sul "caso Calabresi" e sul fatto se il suo omicidio possa essere considerato un atto di terrorismo o un "delitto politico". Adriano Sofri ha infatti risposto all'articolo di Mario Calabresi e da li si sono susseguiti un discreto numero di interventi...



Ho provato a mettere insieme una rassegna stampa con tutti gli articoli (leggi...) pubblicati dai diversi quotidiani per sostenere il dibattito che la prima risposta di Sofri ha generato.

Stavolta non voglio fare commenti data la complessità dell'argomento.
La mia impressione, da osservatore esterno, è che stia per succedere qualcosa che potrebbe avere a che fare con la vicenda.

Qualcosa, evidentemente, di molto grosso.
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Di Manlio  24/09/2008, in Storia (6532 letture)
Mio zio paterno, Antonio Castronuovo, è sempre stato attivo in politica e ricordo ancora, quando da bambino mi recavo al "paese" a casa di mia nonna, le sue interminabili liste di libri di politica, i quotidiani sempre sotto il suo braccio (a mo' di baguette) e le sue discussioni con il prete del paesino di 800 anime e l'allora sindaco democristiano. Era segretario della locale sezione di Carbone (Pz) paese del quale divenne sindaco nel '90 per opera di una riedizione di quel compromesso storico che solo 12 anni prima aveva portato tanti problemi alla nazione.

Spesso, soprattutto in estate, lui non c'era e mia nonna mi diceva che era andato in viaggio nell'est europeo per "studiare". Io ero troppo piccolo per interessarmi di quelle cose ma mi chiedevo cosa potesse avere da studiare a 30 anni  e perché non lo facesse in Italia.

Solo recentemente ho scoperto quale era il vero scopo dei suoi viaggi ed in particolare di uno a Sofia nell'ottobre del 1973, poco dopo l'incidente (attentato) cui era stato vittima il segretario del partito Berlinguer.
Tenetevi forte (e soprattutto si tengano forte coloro che monitorizzano il sito quotidianamente): Antonio Castronuovo si recava nei paesi dell'est per addestramenti clandestini, incaricato dai dirigenti filo-bulgari dell'epoca che, sostanzialmente, facevano capo ad Armando Cossutta.

Questa estate ho provato ad approfittare dell'esperienza e della cultura politica di mio zio, in una classica riunione di famiglia tutt'altro che clandestina. Gli ho chiesto cosa ne sapesse della Gladio Rossa, per avere una sua opinione, derivante anche dall'aver vissuto così in "diretta" quegli anni. La sua risposta mi ha sconcertato.
"Come, non lo sai che ero un gladiatore rosso che si andava ad addestrare nei campi bulgari?".

In un primo momento pensai di aver capito male, ma il suo sguardo non sembrava contemplare lo scherzo.
Poi ha cambiato espressione e con un sorriso che tratteneva a stento una forte risata ha aggiunto: "Hai letto il libro di Giovanni Fasanella sull'attentato a Berlinguer? Bene lui ha trovato il modo di insinuare, in maniera chiara e che lascia pochi dubbi, che un mio viaggio a Sofia nel '73 lasciasse sottintendere la partecipazione ad un campo di addestramento per gladiatori rossi..."

Scusa, scusa. Come? L'ennesimo scoop del giornalista di Panorama o una svista clamorosa?

Tornato a casa,
rimproverandomi di essermi perso la "perla", mi sono procurato il libro in questione e me lo sono letto con calma. Nell'edizione uscita in allegato con L'Unità nel 2006, a pagina 40 ho appreso allibito:
"[Cossutta] organizzava "viaggi-scambio", caldeggiando una degna accoglienza anche per una serie di oscuri dirigenti di sezioni di ogni angolo d'Italia, che presentava come "compagni che svolgono un'importante funzione". Quale fosse la natura dell'importante funzione di Umberto Pinna, segretario della sezione Serrenti di Cagliari o di Antonio Castronuovo, segretario della sezione Carbone di Potenza (per citare solo due dei personaggi che compaiono nelle lettere), Cossutta non lo specificava. Si trattava di militanti della cosiddetta Gladio Rossa, inviati nei paesi dell'Est per dei corsi di addestramento?"

Una prima osservazione mi è venuta da un termine preciso, 'oscuro', che può essere utilizzato sia per indicare il fatto che una persona non sia sotto la luce dei riflettori (quindi un po' nascosto dalla grande platea) ma anche e soprattutto per indicare una persona ambigua che ha da nascondere qualcosa. Mi ricorda quanto mi raccontò l'Avv. Guiso in un nostro colloquio ribadendomi quanto disse in Commissione Stragi:
L'8 maggio il "Corriere della Sera" pubblica un articolo in cui io da illustre cassazionista divento oscuro avvocato di provincia e Tobagi mi dice, in sostanza: "Caro Giannino, ti stanno preparando il piattino. Ti vogliono fermare"

Sono davvero sconcertato da tanta semplificazione.
Oltretutto essendo mio zio regolarmente in vita e assolutamente non in clandestinità  (nonostante avrebbe dovuto esserlo con un passato del genere) Fasanella avrebbe dovuto, come minimo, provare a contattarlo per avere una sua versione. Non che fosse obbligato, intendiamoci, ma se avesse voluto davvero portare un contributo di conoscenza e non di rimescolamento delle cose credo sarebbe stato il minimo.
Allora ho provato io a chiedere a lui qualcosa, anche perché credo la faccenda sia grave in quanto una simile leggerezza avrebbe potuto potrebbe portare a conseguenze poco piacevoli, considerando che c'era un'indagine in atto da parte della magistratura.

Come accennato in precedenza, mio zio approfittava dell'estate per andare a visitare paesi comunisti ed in genere si appoggiava a compagni delle sezioni del nord che erano più attive rispetto alla sua realtà lucana. Era una pratica diffusa all'interno del PCI, una tappa obbligata per chi volesse fare vita politica attiva e critica. In quel periodo si trovava a Milano e, tramite i militanti della locale sezione che frequentava, venne a sapere che il partito stava organizzando un viaggio di scambio-culturale a Sofia e che cercavano un compagno lucano disponibile ad aggregarsi. Lui fece qualche telefonata in segreteria regionale ma nessuno dei militanti lucani all'epoca aveva il passaporto. Nessuno, tranne lui, che avendo abitudine a viaggiare ne era in possesso.
A quel punto decide di sfruttare l'occasione e di aggregarsi alla comitiva. Una delegazione di 7 compagni di varie sezioni italiane, guidata da Antonio Papalia, segretario della Federazione di Padova.



La "russa" Moskovic, Balilla d'oltre cortina

La visita durò circa due settimane e gli italiani furono portati in giro per fabbriche, scuole, uffici del partito, sempre con grande seguito e controllati in ogni movimento: basti pensare che i bulgari utilizzavano le famose auto Moskovic e i sette italiani erano divisi in tre auto su ciascuna delle quali c'era un interprete ed un compagno bulgaro di accompagnamento. Il corteo si apriva e chiudeva con un'altra auto.
Mio zio, per le sue attività di studio che ancora lo caratterizzano e lo impegnano per quasi tutta la giornata, era solito fare diverse domande. Ad alcune di esse, ritenute "scomode" nell'ambito dei rapporti tra i partiti, il capo delegazione dopo averle etichettate come "spegiudicate" impedì all'interprete di formularle ("Compagno Castronuovo, evitiamo queste domande poco opportune...").

Insomma, mi sembra di aver capito che l'unico addestramento che si trovò a fare lo zio, fu quello nell'utilizzo adeguato della forchetta sicuramente perso a causa del cibo bulgaro che non era certamente all'altezza dei mitici "maccheroni al sugo" di mia nonna!
Di quel viaggio, lo zio conserva un dettagliato diario che ogni sera compilava al rientro in albergo. Una quantità sostanziosa di appunti che mi auguro un giorno possano far capire alla solita cricca di storici e giornalisti alla ricerca di facili scoop che i viaggi-scambio dell'epoca erano una cosa seria e che c'erano dei militanti di base che li frequentavano arricchendo il proprio bagaglio culturale e portando delle voci critiche verso ciò che non ritenevano giusto nell'applicazione dell'ideale comunista.

Che poi potesse esistere una Gladio Rossa e che militanti comunisti potessero recarsi "clandestinamente" nell'Est europeo, questo è un altro discorso.
Ma ritengo che, poichè tali personaggi non erano stupidi, gli addestramenti non fossero organizzati con tanto di lettera ufficiale e di materiale che sarebbe diventato, un giorno, patrimonio dell'archivio storico del partito che, almeno ufficialmente, non conosceva simili "entità parallele". La presenza di carte "ufficiali" secondo me sarebbe solo la dimostrazione che se ci fosse stata una organizzazione paramilitare del PCI, magari in collegamento con equivalenti strutture della terza internazionale, come minimo la direzione centrale del partito ne era a conoscenza e l'approvava. E quindi, anche il candido Berlinguer, non era esente da colpe.

E, anzi, a sentire i racconti dei vecchi militanti, il PCI era una cosa seria e, soprattutto, unitaria. Non esistevano le correnti ma solo delle visioni personali diverse tra i dirigenti della segreteria centrale. Chiunque fosse in disaccordo con la linea ufficiale del partito, ne era automaticamente fuori. Se ci sono stati dei dirigenti o dei militanti di primo piano che si sono mossi lungo strade poco "chiare" lo hanno fatto esclusivamente sotto il tacito consenso della direzione che, vuoi per calcolo vuoi per impossibilità, non avendo espulso i responsabili ne ha consentito l'operato.
Se c'è stata una Gladio Rossa o se ci sono stati legami stretti tra militanti del PCI e brigatisti, sfatiamo il mito che il tutto sarebbe avvenuto in maniera clandestina e occulta al partito. Quando ho chiesto ad alcuni senatori dell'epoca cosa ne pensassero delle rivelazioni che l'ex direttore dell'Asinara Cardullo ha confidato proprio a Fasanella (il senatore triestino definito "il vecio", ritenuto da Cardullo ai vertici delle Br) ho solo ricevuto conferme che dei contatti e delle idee del collega di partito, tutti erano a conoscenza.
Perché nessuno è mai intervenuto?

E allora è più giusto, per l'onore della verità, andare a "pescare nel mucchio" rimescolando i fatti e creando nuova confusione o iniziarsi a chiedere seriamente quale sia stato il vero atteggiamento del PCI nei confronti di quei movimenti e quegli anni e quali comportamenti siano stati decisi e portati avanti alle "Botteghe Oscure"?
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Viviamo in un momento “topico”, non c’è dubbio. E confuso. Molto confuso.

Da alcuni mesi le associazioni delle vittime del terrorismo e delle stragi sono impegnate in una battente campagna contro le Istituzioni e l’opinione pubblica con lo scopo di ridurre la portata delle parole (siano esse interviste televisive, libri, dibattiti o semplici presentazioni di libri) degli ex militanti delle formazioni di lotta armata che, secondo i familiari delle vittime, troverebbero troppo eco su organi di stampa e televisioni. E che questa censura (perché di questo si sta parlando) sarebbe un modo per rispettare la memoria delle vittime che hanno pagato con la vita le scellerate scelte omicide di quei militanti violenti.

Anche l’uscita di film tutto sommato di second’ordine che raccontano gli anni della lotta armata vissuti dalla parte dei militanti, sono diventati l’ennesima strumentalizzazione politica e giornalistica che, come sempre, non risolve nessun problema ma contribuisce all’inasprimento degli animi e del clima già molto teso data la gravità e la vicinanza temporale di quegli eventi.

Ed un clima più aspro porta, inevitabilmente, a comportamenti e provvedimenti “eccezionali” che impediscono ad uomini liberi che hanno pagato i loro debiti nei confronti della giustizia, come Valerio Morucci o Renato Curcio, di svolgere le proprie attività di scrittore o di sociologo al pari di altri cittadini.
E, naturalmente, anche loro, spesso, sollevano legittime richieste di vedere rispettati i propri diritti di cittadini.

In un contesto già di per sé complicato costruito su equilibri deboli, ci mancava che anche “gli ospiti” delle patrie galere (per utilizzare un eufemismo…) sentissero la necessità di dire la loro e di “battere cassa”. E così oggi, leggiamo sul più importante quotidiano italiano diretto da Paolo Mieli, che anche Rita Algranati l’ultima brigatisti arrestata (coinvolta nell’agguato di via Fani ma da questa vicenda assolta perché scagionata dagli ex compagni che hanno raccontato in sede giudiziaria lo svolgersi dell’azione) ha qualcosa da denunciare. (>>leggi<<)
E lo fa, non a caso, subito dopo l’estradizione negata dal presidente francese Sarkozy nei confronti dell’ex brigatista Marina Petrella motivata, è opportuno ricordare alla Algranati, da motivazioni umanitarie legate alle condizioni di salute in cui versa la sua ex compagna di militanza costretta ad alimentarsi attraverso un sondino.

Nonostante abbia sottolineato di provare un certo “fastidio per il protagonismo di molti ex brigatisti" la Algranati, in sostanza, giudica inammissibile dover espiare in carcere la pena cui è stata condannata per appartenenza alle Brigate Rosse. Adesso, infatti, lei è un’altra persona rispetto a quella che 25 anni prima aveva abbandonato spontaneamente le Br non condividendone più la linea.
Se il carcere, si chiede l’ex brigatista, ha una finalità rieducativa ed essendosi lei “rieducata” da sola costruendosi una nuova vita, che senso ha la sua reclusione? Solo per permettere a qualcuno di sentirsi oggi risarcito, di essere ripagato dalla sua sofferenza?

Fermo restando che la Algranati sapesse perfettamente che la possibilità di essere arrestata (pur se a mezzo di un “atto illegale” a suo dire) non era pari a zero, se davvero avesse voluto fare una scelta di nuova vita avrebbe avuto il dovere civile e morale di chiudere il suo conto con la giustizia al tempo giusto, non fuggendo all’estero ma tornando in Italia e dimostrando al Paese di aver chiuso quell’esperienza e di volerla superare.
E ancora oggi avrebbe una grande opportunità per poter dimostrare ciò: ad esempio raccontando qualcosa in più sul ruolo del suo compagno Alessio Casimirri (unico brigatista del commando di via Fani a non aver scontato neanche un minuto di carcere) e della loro fuga in Nicaragua che, a quanto si dice, ha goduto di non poche agevolazioni…



Una foto d'epoca di Alessio Casimirri

Se le sue considerazioni sulla detenzione sono apparse del tutto gratuite, le riflessioni successive sull’esperienza della lotta armata, sulla sua conclusione e sul suo superamento sono quanto mai pertinenti.
Sono stati i pentiti a consentire allo Stato di avere la meglio sulle organizzazioni di lotta armata, secondo una logica di convenienza e di premialità che ha permesso a persone che si erano macchiate di crimini efferati e destinate a condanne di diversi ergastoli, di scontare pochissimo carcere e di potersi ricostruire una vita in poco tempo. Questi discutibili successi avrebbero dovuto portare uno Stato diverso da quello nostro ad avviare un percorso di chiusura politica di quegli anni, per cercare di comprendere che la violenza politica è diversa dalla violenza comune perché nasce da motivazioni che vanno comprese a fondo per poter essere chiuse definitivamente e superate. Ed in questo percorso errato, secondo la Algranati, molti ex militanti portano una responsabilità personale perché si sono allineati alla “verità giudiziaria” limitandosi a riconoscere la propria sconfitta.

Una chiusura politica di quell’esperienza equivarrebbe a troncare nettamente ogni legame di continuità tra le Br degli anni ’70 e coloro che ancora oggi pensano di poter raccogliere in eredità un progetto fuori da qualunque realtà. E non sono né il carcere a vita, né la repressione e neppure l’accanimento giudiziario a fermare questi giovani ma, casomai «la comprensione - conclude la Algranati - che s'è trattato di un fenomeno politico fallito e improponibile. Di questo bisognerebbe discutere, ma non mi pare interessi nessuno».

Al termine dell’intervista, Giovanni Bianconi ha chiesto a Rita Algranati perché nel frattempo non dice qualcosa sul caso Moro. «Di quella vicenda penso si sappia tutto quel che c'è da sapere […] Anche dal punto di vista umano, la morte è una tragedia per tutti, e tutte le morti sono una tragedia. I dettagli non aggiungono nulla».
Ah, si? E perché non prova a convincere di questo il Gen. Mario Fabbri o il Dr. Carlo Parolisi, i funzionari del SISDe che erano riusciti ad avvicinare Alessio Casimirri e che, proprio quando avevano iniziato a tessere una possibilità di dialogo si videro sabotare i propri sforzi a causa di un “dipendente infedele” (come lo definì lo stesso Fabbri di fronte al giudice Ionta) che operò una fuga di notizie e produsse un articolo su “L’Unità”che spaventò Casimirri proprio quando era nato, tra i tre, un rapporto di reciproca fiducia?
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In un’intervista apparsa oggi sul quotidiano “Il Giornale”, Sabina Rossa (senatrice e figlia del sindacalista Guido Rossa ucciso dalle Br il 24 gennaio del ’79) si è concessa alcune riflessioni realistiche ed equilibrate sull’attualità legata agli “anni di piombo” che vanno dal comportamento del Presidente francese Sarkozy sull'estradizione richiesta dall'Italia per Marina Petrella alla possibilità di concedere la libertà condizionata ad uno degli assassini del padre Vincenzo Guagliardo.
Una posizione di grande lungimiranza ed un grande esempio di tutela dello Stato di diritto. Un chiare esempio di quale sia la strada da intraprendere se si vuole davvero chiudere con quel passato. Anche se, su alcune posizioni, mi sento di dover "correggere" la senatrice...

Ma procediamo con ordine.

La decisione di Sarkozy di non concedere l’estradizione della Petrella per motivi umanitari ha irritato la senatrice del PD perché il Presidente francese «ha mostrato una sfiducia assoluta nelle nostre istituzioni e nel nostro sistema giudiziario. È grave. […] Davvero qualcuno crede che in Italia le sue condizioni di salute si sarebbero aggravate?».

In linea di massima il ragionamento di Sabina Rossa è corretto. Ma, per dirla tutta, la motivazione addotta dal primo cittadino francese è apparsa ai più come una scusa, una toppa cucita in fretta per acquietare le pressioni che da più parti del Paese transalpino giungevano al Presidente.
A me sembra che la credibilità del nostro sistema Paese (con particolare riferimento alla macchina della giustizia) sia stata messa più volte alla prova ma che si siano sempre adottati più pesi e più misure. Negli anni ’90 sono state molte le richieste che i nostri Governi hanno sporto verso gli Stati Uniti per ottenere l’estradizione di Silvia Baraldini. La risposta degli americani è sempre stata “picche” perché pensavano che la Baraldini, con i benefici di legge previsti dal nostro ordinamento, avrebbe fatto poco, quanto niente, carcere. E, quindi, un’accusa molto grave nei confronti del nostro Paese: quella di rischiare di rimettere in circolazione pericolosi terroristi che potrebbero arrecare nuovi danni alla collettività. Nessuno, mi sembra, abbia denunciato che il nostro alleato insinuasse che nel nostro Paese la giustizia fosse “governata” da Pulcinella…
Nel caso dell’Achille Lauro, l’Italia decise di processare il terrorista palestinese perché la nave si trovava sul nostro territorio e Craxi non concesse agli americani di poter “prelevare” il leader dell’FPLP George Habbash che gli americani non vedevano come mediatore della vicenda ma come colluso con l’autore del reato.
I maligni ricordano che la realtà delle cose è fatta di compromessi, di scambi...


In relazione al fatto che le ragioni delle vittime degli anni di piombo siano offuscate dalle verità degli ex terroristi Sabina Rossa contesta «“una spettacolarizzazione mediatica che è più interessata agli ex terroristi, perché fanno notizia...[…] Anche la politica spesso ha scelto la scorciatoia della spettacolarizzazione. È comodo, è più facile, crea meno problemi a tutti »
Infatti qui il problema non è tanto quello di stabilire se vi debba essere un “misuratore qualitativo di ragione” negli organi di comunicazione, ma rivedere nel complesso il ruolo dell’organo stesso. Ovvero: informazione o vendite (e quindi audience che vuol dire mercato che porta la pubblicità)?
Nella maggior parte dei casi io non credo che Alberto Franceschini o Valerio Morucci (per fare due nomi a caso) abbiano bussato alle redazioni dei giornali o delle trasmissioni televisive chiedendo di essere intervistati. Credo che sia avvenuto il contrario. E non mi sembra che vi siano stati casi in cui l’ospite abbia offeso la memoria di qualche sua vittima (o della propria organizzazione).
Piuttosto, e ha fatto bene la Rossa a sottolinearlo, in alcuni casi tali situazioni si sono rivelate una grande opportunità per la politica di semplificare la complessità dei problemi che ci portiamo dietro da trent’anni. E da qui al corto-circuito mediatico, il passo è breve.

Sabina Rossa commette, secondo me, un errore quando parla di «ribaltamento della macchina informativa» come passo «necessario per illuminare gli angoli più bui della memoria».
In che senso? Mi aspettavo che criticasse chi produce informazione perché presta attenzione prima agli aspetti di marketing e poi a quelli del “dovere civile”. Ed invece il ribaltamento riguarda, forse, l’ottica con la quale gli ex brigatisti dovrebbero esternare. «Gli ex terroristi non hanno ancora detto tutto. Non dicono la verità. Mantengono volutamente zone d’ombra. […] Perché proteggono ancora qualcuno ».
A questo punto le considerazioni sarebbero davvero tante e se non sono bastati convegni, libri, storici e sociologi a fornire una risposta definitiva alla vicenda, non si illude di poterlo fare il sottoscritto con le proprie capacità limitate sia in termini intellettivi che di spazio.
Per semplificare (perché sempre su un Blog siamo e non possiamo scambiare un post per il capitolo di un libro) direi di procedere per domande. E le vorrei porre alla Senatrice Rossa, e a tutti i politici che hanno la volontà di affrontare criticamente la storia politica di quella che chiamiamo, forse con un eccesso di buonismo verso noi stessi, la Prima Repubblica.

  • Siamo sicuri che conoscere militanti che hanno avuto ruoli marginali in azioni irrilevanti per la storia del nostro Paese sia finalizzato alla giustizia e non invece ad una velata ombra di giustizia sommaria che aleggia dietro ciascuno di noi?
  • Siamo sicuri che non ci siano in circolazione militanti che hanno avuto ruoli importanti nelle rispettive organizzazioni e che oggi non sono persone di second’ordine della nostra società?
  • Siamo sicuri che conoscere i nomi di ex brigatisti sia l’unica via d’uscita o, piuttosto, sia come recitare un Padre Nostro, tre Ave Maria e chi s’è visto s’è visto?

E quindi, la domanda finale che mi pongo io, è quella che da tanti anni storici e ricercatori non legati da un fine politico dovrebbero sollevare per scuotere le coscienze di tutti i cittadini:

siamo davvero sicuri che attraverso la scelta di non parlare gli ex brigatisti tutelino gli ex compagni rimasti illesi dalle inchieste giudiziarie e non invece il ruolo di persone ambigue che avrebbero dovuto combatterli e che invece ne hanno fatto strumento personale di guerra non ortodossa?

Ma come uscire da tutto ciò? La soluzione sudafricana, invocata da molti, "verità in cambio di impunità" potrebbe essere uno strumento efficace? Sabina Rossa non ha «ancora un’opinione definitiva». Ma di una cosa è certa: «la giustizia è un bene collettivo. Lo dico anche alle vittime come me: non può essere desiderio di vendetta privata» e anche se la maggior parte degli ex brigatisti sono fuori dal carcere « se si sono fatti vent’anni di sangue, per me è una pena congrua. Sono contraria al fine pena mai».
Condividere o meno queste ultime affermazioni non può che essere una scelta personale, ma rappresenta sicuramente la prova della volontà di andarla a cercare, almeno, la verità. Che poi la si possa trovare con il sistema sudafricano, sono scettico. Per un motivo elementare.
Può funzionare solo ad una condizione: che chi ha perso, chi è stato sconfitto dall’avanzare di una scelta democratica si sia fatto da parte e, perseguito dalla parte che ha avuto la meglio, abbia di fronte a sé l’alternativa dell’esilio o della galera a vita. In queste condizioni, quando il taglio con il passato è stato netto, allora è possibile rinunciare ad un legittimo desiderio di “vendetta” in cambio della chiarezza sul proprio passato. E questo serve anche per evitare che tale passato ritorni.

Ma chi parlerebbe di qualcuno che ha “guadato il fiume”, anche se non dovesse subire nessuna conseguenza giudiziaria?
Ed in queste condizioni come accertarsi che si sia detta proprio tutta la verità?
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Da molto tempo il dibattito sulla chiusura politica degli anni ’70 sembra essersi concentrato sul decidere chi, tra ex militanti di lotta armata e familiari delle vittime del terrorismo, abbia più diritto a parlare. E, soprattutto, con quali modalità.
Negli ultimi giorni, il rifiuto dell’estradizione dell’ex brigatista Marina Petrella e la concessione di libertà vigilata concessa dal Tribunale di Sorveglianza all’ex militante dei NAR Francesca Mambro, hanno riacceso le polemiche e, diciamolo pure, gli slanci demagogici di coloro che, fino al giorno prima, si erano dimenticati che in Italia, 30 anni fa, si sono verificati eventi storici e politici tragici e le cui conseguenze ancora ci portiamo appresso perché nessuno ha mai considerato sul serio l’ipotesi di dover chiudere quel pezzo di storia che ancor oggi divide buona parte del nostro Paese.

E’ opportuno ricordare come ai primi del mese di agosto Giovanni Berardi, figlio del maresciallo ucciso dalle BR, chiese l’intervento del Ministro della Cultura Sandro Bondi per impedire che un film che raccontava la nascita delle BR e che vedeva, tra i protagonisti gli ex brigatisti Franceschini, Ognibene e Paroli, non fosse divulgato al grande pubblico in quanto offendeva la memoria delle vittime. Berardi chiedeva anche come fosse possibile che un film del genere fosse stato realizzato con finanziamenti pubblici.
Il risultato di questo “blitz” è stato triplice: da un lato esporre ad una grande pubblicità il film, da un altro agitare lo spauracchio della censura ed in ultimo, ma più grave, arrivare a preconfigurare un clima da censura preventiva ove qualcuno possa decidere quali film siano “moralmente” degni dei contributi pubblici!

In un’intervista su Il Corriere della Sera del 17 ottobre 2008, un’altra familiare delle vittime delle BR, Sabina Rossa ha esternato il suo pensiero lanciando una sfida democratica e civile. Superare il dolore senza per questo dover offendere nessun familiare: sia ridata la libertà all’assassino di mio padre perché 28 anni di carcere sono una pena congrua ed il ravvedimento del condannato è certo.

E cosa succede in questa seconda puntata della stessa telenovela?
Colpo di scena. Questa volta in pochi hanno applaudito ed in molti hanno fatto finta di niente. Eh si, perché stavolta la vittima oltre ad essere vittima è anche Senatrice e pur parlando a titolo personale è pur sempre una del “Palazzo”. E le sue dichiarazioni rimbombano nelle stanze del potere come un ceffone in faccia alla “mercificazione” del dolore che tanto è piaciuta ai media e alla classe politica in occasione del recente trentennale dell’uccisione di Aldo Moro.
Ma nei confronti di una Senatrice, occorre agire con intelligenza. Pur non potendo utilizzare la prima pagina di un giornale o un servizio di apertura al TG di prima serata, la risposta è giunta immediata, strisciante e politicamente dura. Molto dura.

La RAI aveva prima invitato Sabina Rossa alla trasmissione Domenica In che dopo molte resistenze, aveva accettato di parlare della sua posizione. Ma la stessa RAI ha poi fatto dietrofront giustificando la sua decisione in base alla circolare che vieta la presenza dei politici nei programmi di intrattenimento.
Ma come? E la partecipazione del Ministro Renato Brunetta nella puntata del 5 ottobre 2008?
La Commissione di Vigilanza della Rai aveva approvato nel lontano 2003, un documento sulle garanzie del pluralismo nel servizio pubblico ne quale si suggeriva:

“La presenza di esponenti politici nei programmi d’intrattenimento va normalmente evitata e deve - comunque - trovare motivazione nella particolare competenza e responsabilità degli invitati su argomenti trattati nel programma stesso, configurando una finestra informativa”.

Se ne dovrebbe dedurre, pertanto, che Sabina Rossa non mostri “particolare competenza” della materia in questione (in effetti ha solo perso un padre e fatto un’inchiesta che ha portato ad un libro di successo…) e non sia contraddistinta da un senso di responsabilità (come se le sue parole avessero esaltato l’impresa di Guagliardo e che la sua liberazione fosse giustificata da motivazioni politiche…)
Tutto questo è semplicemente ridicolo!

Ma non è finita qui. La presa di posizione pubblica l’ha portata avanti il penalista ed ex Presidente della Camera Luciano Violante che ha sentenziato: «È una presa di posizione molto rispettabile, però lo Stato può decidere in modo autonomo. Credo sia un pò pesante far decidere la scarcerazione di un condannato per omicidio dai parenti della vittima, si aggraverebbe troppo il peso su di loro»
Ma come? Prima si invoca il ravvedimento e la volontà di aver preso coscienza del proprio errore espiando il proprio pentimento di fronte ai destinatari del dolore provocato chiedendo perdono, poi quando la comprensione si compie questo potrebbe rappresentare un peso troppo grande per le (piccole? deboli?) coscienze dei parenti della vittima?

Mi chiedo cosa ci riesca a capire il cittadino che non segue le vicende. Probabilmente ne avrà tratto un tale senso di confusione che lo avrà portato diritto al disinteresse ed alla semplificazione. E la strumentalizzazione è compiuta!

Patrizio J. Macci del quale potete leggere un "particolare" racconto su via Montalcini (leggi) mi segnala che sempre ieri su Repubblica, sulla fortunata rubrica  “L’Amaca” il giornalista Michele Serra prova ad “uscire dal coro”: il principio che muove le parole di Sabina Rossa è civile e ragionevole perché si fonda dietro il valore riabilitativo della pena. La dimensione privata del dolore deve essere distinta da quella pubblica della Giustizia. La scelta di Sabina è fuori dalle demagogie.

Ma, caro Serra, purtroppo anche quando la “ragione ha ragione” essa può essere strumentalizzata. E ne abbiamo appena scoperto il meccanismo.


L' AMACA (Repubblica — 17 ottobre 2008)
Beh, ogni tanto capita ancora di imbattersi in uno straccio di motivo per sentirsi orgogliosamente di sinistra. Per esempio le parole e i pensieri di Sabina Rossa, parlamentare del Pd, figlia dell' operaio comunista Guido Rossa ucciso dai brigatisti nel ' 79. Chiede che uno degli assassini del padre venga scarcerato dopo 28 anni di carcere. Lo chiede perché 28 anni sono tanti, e soprattutto perché crede fermamente in un principio molto civile oltre che molto ragionevole: il valore riabilitativo della pena. In più, Sabina Rossa mantiene a debita distanza la delicatissima, privatissima materia del perdono, così spesso oggetto di indecenti traffici mediatici, di chiacchiere mielose, di dibattiti tanto inconsistenti quanto invadenti. La giustizia è ambito pubblico, le emozioni e il dolore ambito privato. La compostezza di Sabina è ammirevole, ma non cade dalle stelle. Proviene da una cultura civile e da una concezione della legge che nel suo caso ha radici familiari. Si riconoscono una misura, un senso di responsabilità, un' assenza di demagogia che sono le migliori virtù democratiche. Tanto è vero che, da qualunque parte le si voglia prendere, le sue parole non possono essere strumentalizzate né dalle vittime né dai carnefici, né dai forcaioli né dai garantisti. Semplicemente: la ragione ogni tanto ha ragione. E riesce a chiudere il cerchio.
MICHELE SERRA
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Di Manlio  20/10/2008, in Attualità (6048 letture)
Sembra si sia innescata una spirale. Ed il dibattito sugli ex militanti di lotta armata, le vittime, le associazioni e la nostra società, si allarga a nuovi interventi. Sabato sera nella puntata di TG2 Dossier Storie è andato in onda un servizio che, partendo dalla solita mancata estradizione dell’ex brigatista Marina Petrella ha affrontato il più generale tema del poco spazio fornito invece alle famiglie delle vittime. Il giorno dopo, su Repubblica, Silvana Mazzocchi ha realizzato il classico gol in contropiede intervistando niente di meno che Patrizio Peci il quale, tanto per gradire, sta per mandare in libreria una riedizione del suo famoso “Io, l’infame” che nel 1983 fu il suo primo atto di dolore per il grande pubblico. Luca Telese riprende sul suo sito l'argomento e su Il Sole 24ore un articolo di Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter assassinato nel maggio dell’80 da una banda di imbecilli capeggiata da Marco Barbone (altro pentito che ha scontato pochissimo carcere), analizza i differenti punti di vista sul rapporto tra terrorismo e cinema.

Proviamo a mettere insieme il mosaico…

Benedetta Tobagi, nell’inserto culturale della domenica del Sole 24ore rilancia il tema del rischio che le storie del passato possano alimentare, raccontate oggi, un alone di romanticismo soprattutto se il ruolo di un ex come Sergio Segio viene interpretato da un “figo” come Riccardo Scamarcio. A risponderle è il produttore del film, Andrea Occhipinti, che sottolinea come in realtà sia la storia a contare e non le scelte artistiche che, trattandosi di prodotto commerciale, devono essere compiute secondo principi legati più all’economia che alla morale. In merito all’istituzione proposta dal Ministro Sandro Bondi di una commissione che valuti le opere per decidere se possano aspirare ad usufruire dei finanziamenti pubblici è il Direttore Generale per il Cinema del Ministero dei Beni Culturali Gaetano Blandi a rassicurare tutti noi. Nessuna censura preventiva, solo una scelta etica: aderire alle parole del Presidente della Repubblica Napolitano pronunciate in occasione della prima giornata nazionale delle Vittime del Terrorismo. Il Ministero ha semplicemente chiesto alle associazioni cosa ne pensassero dei diversi film (non dal punto di vista artistico), a parlarne con autori e produttori che per conto loro si sarebbero impegnati a non dare spazio agli ex terroristi in occasione delle presentazioni pubbliche dei loro lavori.
Le solite cose all’italiana, mi verrebbe da pensare. Una questione di facciata, cambiarsi l’impermeabile senza curarsi delle mutande sporche…


Dall’intervista di Silvana Mazzocchi
«Ormai sono un´altra persona, che vive e fa cose diverse, che ha una famiglia, un figlio».
Il diritto alla normalità Peci lo dà per scontato. In base alla sua collaborazione e al suo ravvedimento. A giudicare dalle proteste pervenute (cioè zero) sembra che da tutti questo suo diritto gli sia da tutti riconosciuto.

«Sono quello che sono. Ma chi mi ha accettato ha riconosciuto la mia buona fede, sempre, dalla lotta armata alla dissociazione. Tutte scelte trasparenti, compiute senza condizionamenti».
Strano questo suo richiamo alla trasparenza ed all’autonomia… La sua buona fede se la sarebbe portata dietro in tutte le proprie scelte. E’ proprio questo che deve avergli fatto ricevere un trattamento di favore, evidentemente.

«Se ho accettato di scrivere una parte nuova del mio libro è stato solo per dimostrare che si può cambiare veramente vita e diventare un altro. Che si possono avere degli affetti e perfino qualche bene materiale. Volevo dimostrare che è possibile farcela».
Ricapitoliamo. Se a lui, di questi tempi, è offerta la chance di ripubblicare un libro, fare una lunga intervista su uno dei principali quotidiani nazionali deve essere proprio per questo. Dimostrare che è possibile rifarsi una vita. Ma le famiglie delle vittime, di questo, cosa ne pensano?
Certo avere affetti e beni “materiali” per uno che non è passato dai permessi, dal lavoro esterno, dalla semi-libertà e poi dalle richieste al Tribunale di Sorveglianza, è molto più semplice. Se poi ha avuto un piccolo aiutino da parte dello Stato è ancora più semplice…

«Non si può perdonare quello che non ha senso. E forse è per questo che i parenti delle vittime non riescono a spiegare mai, a chi non lo ha conosciuto, il senso del lutto. Non puoi perdonare la perdita irrevocabile, soprattutto quando sai che non c´era motivo, soltanto odio e ferocia animalesca in chi ha premuto il grilletto».
Non è molto chiaro se Peci parli più da terrorista o da familiare di una vittima. In ogni caso confesso che mi piacerebbe conoscere il parere delle associazioni su questo particolare aspetto, sempre ammesso sia possibile criticare il punto di vista del Pentito.

Dall’articolo di Luca Telese
Come prima cosa è bene ribadire come non sia stato Peci a sconfiggere le Br. Stando ai numeri l'80, l'81 e l'82 sono stati anni tragici dal punto di vista dei lutti e dell'efferatezza degli attacchi. Moretti è restato libero per oltre un anno dopo l'arresto (il primo? il secondo?) del febbraio dell'80 di Peci e Micaletto. Le Br Senzaniane si distinsero per una ferocia che le Br ‘operaiste’ dell'inizio e persino quelle ‘militariste’ Morettiane non avevano ancora dimostrato. Quindi il fatto che Peci sia stato premiato per aver consentito la sconfitta dell'Organizzazione è un falso mito, che però torna comodo per giustificare premi e protezione di cui ha goduto...
Più in generale, i pentiti non sono stati la causa della sconfitta della lotta armata, ma l’effetto. Le organizzazioni hanno iniziato a sfaldarsi perché è mancata loro quella sensazione di avere le masse al proprio seguito, di coltivare consenso. Una sconfitta interna dovuta alla distanza che separava la società civile dalle analisi e dalla scelta di concentrare tutto sullo scontro frontale, militare, contro il ‘nemico’.

Telese ci ricorda come Peci abbia passato in carcere meno tempo rispetto a quello trascorso alle scuole elementari, la qual cosa oltre che stupire dovrebbe far inorridire molte persone. E che tutt'ora vive in una condizione di semi-clandestinità protetto da ufficiali dei quali è possibile solo citare il nome in codice!
Ma scusate, di chi dovrebbe preoccuparsi oggi Patrizio Peci? Nel 1987 le Br dichiarano esaurita la loro esperienza, dalla fine del secolo scorso tutti i militanti delle Brigate Rosse sono liberi o semi-liberi e hanno intrapreso nuove vite. Le nuove leve del brigatismo sono tanto isolate dalla realtà quanto inconsistenti che difficilmente uno come Peci avrebbe potuto rappresentare per loro un obiettivo.

Noto poi che Telese è un ingenuo ottimista: sperare che Peci possa dire qualcosa che non siano le solite verità di comodo degli ex brigatisti è come, per un tacchino, credere di essere un semplice invitato a pranzo il giorno del ringraziamento…
Ma come, Peci? Uno che nonostante tutte le protezioni e i benefici di legge di cui ha goduto, non ha detto una sola cosa di rilievo sul caso Moro? Semmai sono stati dopo gli altri ad “adeguarsi” all’incipit fornito dal pentito. Si, ufficialmente perché non vi ha partecipato e perché le poche cose di cui era al corrente le aveva sapute da Raffaele Fiore (brigatista della colonna torinese, uno dei quattro “aviatori” di via Fani). Salvo, poi, dichiarare di essere stato in possesso di manoscritti originali di Aldo Moro e descrivere alcuni dettagli dell’agguato di via Fani come se ce li avesse ancora sotto gli occhi.

A raccontare per la prima volta la storia del pentimento di Peci, è stato l’allora comandante delle guardie carcerarie dello Speciale di Cuneo, Maresciallo Angelo Incandela. In un’intervista del 1994 sul Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione del suo libro Agli ordini del Generale Dalla Chiesa, Incandela ricordò come lo spietato Peci fu aiutato nel suo pentimento da "alcune quaglie ripiene, due etti di prosciutto crudo, due paia di slip e calzini nuovi più un fumetto di Tex, di Topolino e un numero della Settimana enigmistica. Farà ridere, ma la strada alla sconfitta del terrorismo italiano è stata aperta anche da un peccato di gola".
E tanto per non lasciare nulla al caso, sempre domenica 19 ottobre il quotidiano Il Giornale riprende, appesantendolo, il concetto: «Nessuno - avrebbe confermato Incandela - ha mai detto la verità su questa storia. Ma quale pentimento, quello non ha retto all'isolamento e dopo quattro giorni è crollato. Lo scriva, mi raccomando: non esiste un pentimento dell’anima, ma una tentazione della gola. È questa la verità vera».

Il Maresciallo, nell’intervista, si dice ispirato da quarant’anni dai valori dell’ordine e della disciplina, definendosi «umile servitore dello Stato». Devono averlo recentemente abbandonato questi valori a giudicare dall’arresto nel 2008, alla tenera età di 73 anni, con l’accusa di essersi “posto al centro di un’articolata rete di rapporti clientelari con funzionari pubblici e privati, anche di notevole livello, realizzando con essi un continuo scambio di “favori”, finalizzato a reciproca utilità” (fonte CuneoCronaca.it).

Mah, non per alimentare una interpretazione dietrologica dalla quale mi ritengo distante anni luce. Ma secondo me, sulla vicenda Peci, non ce l’hanno raccontata giusta. E, soprattutto, non ce l’hanno ancora raccontata tutta.
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Di Manlio  20/10/2008, in Interviste (5768 letture)

Giorgio Guidelli è un giovane giornalista del Resto del Carlino che ha già pubblicato tre libri sugli anni di piombo, il primo dei quali "Operazione Peci, storia di un sequestro mediatico" una vera e propria rilettura di uno dei capitoli più efferati dell’intera storia brigatista (il sequestro-assassinio di Roberto Peci, fratello del grande pentito Patrizio, ad opera delle Brigate rosse-Partito della Guerriglia). Il rapimento fu un tentativo di Giovanni Senzani, stratega e ideologo di punta dell’ultima stagione brigatista, di utilizzare e servirsi dei mass media per accreditare se stessi, attraverso il delitto. Per realizzare questo lavoro, Guidelli ha dovuto analizzare una montagna di carte processuali e questo gli ha consentito di diventare l'esperto più accreditato di quella vicenda tragica ed al tempo stesso non completamente chiarita. Ad esempio, basti citare che il giornalista non è riuscito a recuperare le versioni integrali dei 7 comunicati emessi dalle Br durante i 55 giorni del sequestro Peci essendo disponibili solo i loro estratti utilizzati nelle aule del Tribunale.


L'approfondimento della vicenda ha portato Guidelli ad un secondo lavoro "Terra di piombo" nel quale il giornalista ha ripercorso gli anni che hanno segnato le Marche dal 1976 al 1982 attraverso lotte, incontri clandestini, disordini passando da luoghi, personaggi e situazioni nella regione che fu culla delle Brigate rosse. Guidelli è anche il protagonista del ritrovamento della R4 nel cui bagagliaio fu rinvenuto il cadavere di Aldo Moro in via Caetani. Nel 2007 ha pubblicato un terzo libro "L'auto insabbiata" nel quale racconta la storia di quest'auto ancora trattenuta dal proprietario dell'epoca Filippo Bartoli.

Il fenomeno della lotta armata lo ha fino ad ora visto come un osservatore e studioso sempre più attento. In quest'intervista ho cercato di stimolare Giorgio a delle riflessioni soprattutto sulla vicenda Peci e sul perchè essa non possa ancora considerarsi un capitolo chiuso della nostra storia.





Mario Moretti e Patrizio Peci. Due capi brigatisti, entrambi marchigiani, che hanno determinato l’ascesa e la sconfitta delle BR. In che rapporti erano i due all’interno dell’Organizzazione?

Generazione di fenomeno. Brigatista. Diciamo che uno ha tirato la volata all'altro. Con analogie impressionanti: tutti e due della provincia di Ascoli, tutti e due studenti sui banchi dell'Iti Montani di Fermo, tutti e due leader, tutti e due con ruoli chiave: il primo di grande regista, il secondo di attore e al contempo distruttore in qualità di pentito. Una cosa è certa: quando Patrizio se la svignò dalle Marche, corse a Milano dai compagni guidati dal conterraneo Moretti e di lì, ispirato dalle gesta del capo di Porto San Giorgio, spiccò il volo per Torino, dove divenne uno dei maiores della colonna piemontese. Tra l'altro, facendo un passo indietro, e cioè negli anni del comitato marchigiano, specie nel '76, i contatti tra il comitato esecutivo e gli organi periferici, come quello marchigiano, dovevano essere frequenti. E quindi anche i rapporti tra Moretti e Peci. Per il resto non doveva esserci dialettica, se non altro per il fatto che Moretti era un teorico, mentre Peci una mano calda


La vicenda del pentimento di Peci è piuttosto controversa. C’è chi addirittura ha ipotizzato un “doppio arresto” e quindi la storia di un pentimento “costruito a tavolino”. Possiamo dire di sapere tutto, oggi, sul più illustre pentito delle BR?

No, non si sa ancora tutto. E quello che si sa, non si ha il coraggio di dirlo. La storiografia del brigatismo e degli anni di piombo accredita versioni di comodo, supportate da un giornalismo superficiale e da indagini di studiosi poco inclini a scavare nella verità. Poi, purtroppo, c'è la solita omertà di Stato. Nessuno, ultimamente, ha voluto rivelare o scrivere. Quando si parla dell'argomento, si incontra un'ostilità strana e a tratti inquietante. A livello nazionale e, soprattutto, marchigiano


Il Generale Bozzo in una recente intervista radiofonica rilasciata ad Alessandro Forlani per il GRParlamento della RAI, ha ricordato come Patrizio Peci fu individuato già nel ’77 perché amico della figlia di un parlamentare che era controllata dai carabinieri. Le foto degli incontri della ragazza giunsero a Milano e lì gli uomini del gruppo di Dalla Chiesa, al momento non attivo, riconobbero Patrizio Peci tra le persone immortalate. Poi però, secondo Bozzo, il contatto fu perso. Le sembra un comportamento verosimile per chi faceva dell’antiterrorismo un’attività di elevata professionalità?

Apprendo qui di questo episodio. Per la risposta, vedi quella precedente…

Patrizio Peci ha scontato pochissimo carcere e, dopo essere stato per un periodo all’estero, è stato premiato con una nuova identità avendo la possibilità, non indifferente, di potersi costruire una nuova vita. Attualmente possiede un’attività commerciale in Piemonte. E’ stato l’unico dei pentiti a ricevere così tante agevolazioni. Perché fu il primo, perché il suo contributo fu il più determinante, o per una sorta di premio-indennizzo per una collaborazione più complessa del “semplice” pentimento?

Credo proprio la terza ipotesi. E credo anche che ci sia molto di più. E che quel di più, chi sapeva, se lo sia portato nella tomba

Quale vendetta per le delazioni di Patrizio Peci, le Br di Giovanni Senzani rapiscono e processano il fratello Roberto. La vicenda rappresentò il tentativo di risposta mediatica con la quale le Br volevano fornire la loro risposta allo Stato (denunciando le presunte complicità dei nuclei anti-terrorismo di Dalla Chiesa con l’operazione arresto-pentimento) e ad eventuali altri potenziali delatori (fornendo una prova di cosa aspettava loro in caso di pentimento). Quale è la sua lettura del rapimento e dell’uccisione di Roberto Peci?

La versione ufficiale è quella di una vendetta trasversale. Mafiosa. Del tipo: tu parli, io uccido un tuo parente per rappresaglia e così sei avvisato. La versione delle Br è quella di aver punito il tradimento di Roberto, di annientare i cosiddetti agenti della controrivoluzione. Il fatto curioso è che la campagna Peci nasce con certe intenzioni e finisce con altre. Nasce cioè con l'intenzione di intimidire e non di uccidere. E invece si chiude con un'esecuzione. Filmata, addirittura. Perché? E perché, parallelamente, il sequestro Cirillo, ugualmente gestito dal Fronte delle carceri, si chiude invece con la salvezza dell'ostaggio? In fondo la vicenda dei Peci, forse molto più di quella Cirillo, poteva essere decisiva nella partita tra Stato e Br. Come è possibile, quindi, che Cirillo sia stato salvato e Roberto Peci no? Ruota qui attorno il mistero della campagna Peci. Una verità processuale è stata già scritta, ma il resto…


In via Gradoli furono repertati diversi documenti tecnici sulle attrezzature per la video registrazione. Del resto lo stesso Buzzati seppe da Moretti che in occasione del sequestro Moro era stato installato un impianto di videoregistrazione. In effetti, la forza mediatica del “processo Peci”, fu enorme e immaginiamo cosa sarebbe stato il sequestro Moro (in termini di spettacolo e quindi di propaganda per le Br) se fossero stati divulgati “filmati della prigionia e dell’interrogatorio”. Ritiene possibile che anche 3 anni prima le Br avessero puntato ad un’operazione mediatica ma che, a differenza di Peci, furono costrette a rinunciare alla pubblicazione del materiale video?

E' possibile. Eccome. Le analogie tra i due sequestri, anche se a distanza di tre anni, sono evidenti. Ed è possibile che alla testa di quelle operazioni si trovassero alcune stesse menti. Quello che cambiava era il rischio rapportato all'ostaggio. Forse i sequestratori ritennero che divulgare un filmato con Moro sarebbe stato troppo pericoloso per l'Organizzazione. O forse chi voleva divulgarlo, allora, si trovò in netta minoranza all'interno delle stesse Br. D'altra parte, tre anni più tardi, il film con Roberto Peci fu ritenuto un'assurdità nell'Organizzazione. E gli stessi brigatisti condannarono la spettacolarizzazione della morte

Cosa ne pensa della “denuncia” con la quale Senzani tentò di far scoprire le carte ai carabinieri indicandoli come responsabili di avere “comprato” l’infiltrazione di Patrizio Peci?

Senzani era uno stratega raffinato. Conosceva a menadito i meccanismi dello Stato e i suoi apparati…

Peci era certamente un capo brigatista sin dal ’79 e, con molta probabilità, lo era già dall’epoca del sequestro Moro tanto che non sono pochi coloro che hanno ipotizzato un ruolo attivo di Peci nella vicenda del rapimento del Presidente democristiano. Prova ne è che erano nella disponibilità di Peci (notizia ANSA) scritti autografi di Moro resi nel corso dei 55 giorni. Lei ritiene che Patrizio Peci possa aver avuto un ruolo attivo nel sequestro Moro?

Può essere. E questo potrebbe aver pesato, a mio avviso, nel suo successivo ruolo di 'delatore' speciale. So per certo che persino alcuni fiancheggiatori considerati pesci piccolissimi ebbero ruoli impensabili nell'operazione Fritz

Considerando che l’unico argomento del quale Peci non ha mai parlato, se non per sommarie informazioni, è proprio il sequestro Moro, lei ritiene che un suo eventuale coinvolgimento sia in qualche modo legato al pentimento ed alle delazioni?

Potrebbe essere. Lo dicevo anche prima

Da studiosi è difficile non notare alcune incredibili somiglianze tra il caso Moro ed il caso Roberto Peci. Entrambi i rapimenti durarono 55 giorni, entrambi i prigionieri furono sottoposti a “processo popolare”, i comunicati delle Br di Senzani durante il rapimento Peci furono 7 (e si sa che il 7 è un numero in relazione al caso Moro), entrambi i prigionieri furono assassinati con 11 colpi al petto. Solo il frutto di macabre coincidenze o messaggi trasversali ben precisi?

Se non messaggi trasversali, analogie riconducibili a regie più o meno simili. Su quelle bisognerebbe indagare di più

Si parla di un suo prossimo imminente lavoro che conterrà non poche novità su quelle vicende. Può darci qualche anticipazione?

Dopo anni di ricerche, una fonte ha iniziato a sgorgare. Speriamo che sia abbondante. E che nascano buoni frutti...
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