In occasione dell'ultimo anniversario della strage di Piazza Fontana, mi ha colpito un breve pezzo di Carlo Lucarelli apparso su L'Unità. Un pezzo lucido, ben argomentato alla maniera di Lucarelli. Eppure una cosa ha colpito, mi auguro, non solo me.
"STRAGI: PERCHÉ RACCONTARE"
"L'idea che per evitare i cambiamenti, oppure per guidarli – e comunque mantenere il potere - si possa ammazzare qualcuno. È un momento che va ricordato per molti motivi. Il primo è che ci dimostra come i cosiddetti misteri italiani non siano misteri ma segreti. Anche se i nove processi per la strage non hanno mandato in galera nessuno, le verità ci sono e in gran parte, a livello storico, si sanno. Non solo per piazza Fontana, ma anche per molte altre stragi. Quello che non sappiamo sta nei cassetti di qualcuno che ce lo tiene ancora segreto."
Lucarelli che ha impostato tutto un ciclo di trasmissioni, fatte molto bene dal punto di vista storico e ancor meglio da quello della capacità di divulgazione, sulla "mission" Misteri italiani, non parla più di misteri ma di un "grande segreto" che qualcuno custodisce in un cassetto (evidentemente l'immagine è metaforica e non vuol dire che vi sia un documento vincolato dal segreto quanto un segreto custodito da uno o più persone e che riguarda cose indicibili ancora adesso).
Ritengo che sia un segno importante del fatto che qualcosa sta per crollare. E mi auguro che abbia a che fare con tutto quanto lo Stato non ha ancora avuto il coraggio di dirci, sulle proprie strutture e sul proprio comportamento.
E forse Lucarelli ha voluto mettere le mani avanti ...
All'inizio del mese i giornali hanno riportato (>Leggi<) le dichiarazioni rammaricate dei figli del boss mafioso Bernardo Provenzano che chiedevano di non dover scontare le colpe del padre.
Chi ha letto "Vuoto a perdere" e segue regolarmente il sito, conosce bene una situazione ben diversa negli intenti ma che ha provocato ai figli del protagonista un mare di problemi. Il protagonista si chiamava Benito Cazora un Onorevole della DC che nel '78 era riuscito a trovare un canale utile per giungere alla liberazione di Aldo Moro e che da allora ha visto iniziare i guai per se e per la sua famiglia.
Quella che segue è una risposta alle richieste dei figli di Provenzano, ricca di amare considerazioni e di una rassegnazione che forse non lascia scampo a pensare che, invece, a chi opera per il bene dello Stato non è detto che non debba avere di che pentirsi.
Pubblico volentieri l'appello di Marco Cazora e rimando ad un dossier di approfondimento per chi ne volesse sapere di più. >Dossier<
Vorrei cambiare il mondo ma ho perso lo scontrino. di Marco Cazora
Vorrei cambiare il mondo sì, ma solo Dio può farlo anche se spesso l'uomo da solo fa di tutto per modificarlo riuscendoci perfettamente. Leggo le dichiarazioni dei figli del mafioso Provenzano, essi lamentano di non voler pagare le colpe del padre. Oggi ho 46 anni mi ritrovo senza lavoro ed in condizioni di salute non proprio ottimali, senza soldi, senza casa, sin qui nulla di strano una modalità di vita che appartiene forse a molti. La differenza risiede nel fatto che mio padre a differenza di Provenzano non è stato un mafioso ma un uomo di stato (di quale poi?), si chiamava Benito Cazora ed in qualità di assessore al Comune di Roma negli anni '70 ricevette concrete minacce di morte per aver abbattuto palazzi abusivi, gli fu rubata l'auto poi ritrovata bruciata e gli fu recapitato un biglietto che diceva testualmente “la prossima volta con te dentro”. Durante il rapimento di Aldo Moro si adoperò testardamente nel tentativo di salvarlo. Vengo a scoprire soltanto da poco che anche in quel caso fu minacciato di morte, attraverso documentazione della Digos dell'epoca come risulta solo di recente dagli atti della Commissione Pellegrino tramite telefonate e ripetuti pedinamenti. In entrambi i casi mio padre non fu tutelato e messo sotto scorta, cosa che oggi farebbero per molto meno e per chiunque. Oggi esistono ministri che vantano il disagio dell'essere sotto scorta per aver magari solo detto qualcosa contro le Brigate Rosse. Lavanderie a me non le hanno tolte, poiché mio padre non me ne ha lasciate, a me il lavoro lo hanno tolto perchè Cazora è un brutto cognome da portare, a me hanno tolto la casa in affitto mentre gli altri ne compravano anche 7, a me hanno tolto tutto ma non la dignità, non ci vivo ma perlomeno posseggo una cosa che oramai in pochi hanno. Vorrei cambiare i politici che hanno permesso tutto questo, vorrei cambiare i giornalisti che se ne fregano di parlare del nesso tra quanto fece mio padre e la mia situazione personale perchè ciò, dicono, non fa notizia, vorrei cambiare il popolo che legge ormai assuefatto e si comporta di conseguenza. Il problema è che non posso farlo non perchè tutto è più grande di me ma “semplicemente” perchè io per questo paese non esisto.
Oggi è il 12 dicembre, e non è un giorno qualsiasi.
Nel 1969, infatti, un grave atto il cui destinatario era certamente “il processo di democratizzazione” che nel nostro Paese stava avvicinando la sinistra, Socialista prima e comunista dopo, alle sfere più alte del potere. Tale progetto vedrà la sua punta più alta nel “Governo di Solidarietà” che il 16 marzo del ’78 fu votato da Camera e Senato, presieduto da Giulio Andreotti ma costruito con pazienza e abilità politica da Aldo Moro rapito quella stessa mattina da un commando delle Brigate Rosse.
Si dice che tutto iniziò proprio quel 12 dicembre quando alle 16.37 una bomba esplose nei locali della filiale di Piazza Fontana della Banca Nazionale dell’Agricoltura causando 17 vittime alle quali si aggiunsero 3 giorni dopo Giuseppe Pinelli (anarchico sospettato di essere tra i mandanti e che si sarebbe suicidato lanciandosi nel vuoto dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi alla Questura di Milano) e il 18 maggio ’72 Luigi Calabresi (che si vorrebbe “giustiziato” dagli ambienti della sinistra eversiva per ordine dei suoi mandanti Sofri, Bompressi e Pietrostefani, leader di Lotta Continua, come “colpevole” della morte di Pinelli e sulla cui vicenda tra poco si scoprirà la realtà dei fatti).
In pochi hanno dato rilievo alla notizia dell’anniversario e dubito che sia stato per l’emergenza maltempo che da un decina di giorni sta provocando danni e morti nella penisola. Credo che si tratti più di quella patologia della mancata memoria storica che affligge il nostro presente e che ci porta a ricordare tutti i protagonisti delle numerose edizione del Grande Fratello ma a cancellare o, laddove questo non è possibile, insabbiare i principali eventi della nostra storia dopo l’unità del 1860 a partire dal fenomeno del brigantaggio per arrivare alle recenti vicende luttuose legate alle presunte guerre contro il terrorismo islamico.
Per evitare che simili drammi si ripetano, nelle celebrazioni dell’anniversario del 12 dicembre a Milano è stata proposta la nascita di una “Casa della Memoria” per le vittime delle stragi.
Due immagini dell'interno della Banca dell'Agricoltura dopo l'esplosione
La memoria può essere individuale o collettiva, ma è per sua natura molteplice. C’è la memoria dei vinti e degli sconfitti, degli innocenti e dei colpevoli. Non è possibile, solamente attraverso la memoria, giungere a scongiurare il ripetersi del passato. Anzi. Tante memorie servono forse ad aumentare la confusione che offre una ghiotta opportunità alla strumentalizzazione. E la strumentalizzazione può essere usata sia per influenzare a proprio vantaggio i fatti del presente ma anche per cancellare le proprie responsabilità (individuali o collettive) del passato.
La verità, al contrario, è unica, incontrovertibile. E la verità è la sola medicina preventiva per una società perché porta all’individuazione dei colpevoli e alla possibilità di escluderli dalle scelte future di un Paese. Solo che per non arrivare alla verità sono percorribili più strade. E in Italia la più praticata è quella del complotto, dei misteri, del minestrone tra fatti e ipotesi che rende tutto falso e tutto vero a seconda dei punti di vista.
E per giungere alla verità è necessario far cadere i segreti, fondamenta solide su cui poggiano i pilastri delle nostre istituzioni. In molti lo sostengono da tempo e sono contento che anche Carlo Lucarelli abbia avuto il coraggio di parlarne su L’Unità del 12 dicembre affermando che “i cosiddetti misteri italiani non siano misteri ma segreti […] Quello che non sappiamo sta nei cassetti di qualcuno che ce lo tiene ancora segreto”.
E la buona notizia di questo 39° anniversario dei morti di Piazza Fontana è che il segreto che ci ha impedito di conoscere la verità su quella strage (fino alle morti di Pinelli e Calabresi) ma anche sulle altri stragi degli anni ’70 come Piazza della Loggia (Brescia 28 maggio 1974) e il Treno Italicus (4 agosto 1974) è venuto meno. Nei primi mesi del 2009 emergerà tutto e l’opinione pubblica potrà finalmente sapere e giudicare. Non sarà una verità piacevole ed in molti non sapranno accettarla. Molti altri dovranno rimangiarsi libri e parole scritte a vanvera, ed emergeranno chiari i vari tentativi di strumentalizzazione ed i perché essi siano resistiti quasi 40 anni.
Ecco perché stasera ricordo quell’anniversario con fiducia, a differenza degli anni passati.
Per chi volesse approfondire la vicenda di Piazza Fontana, ho preparato una piccola rassegna stampa che è possibile >scaricare qui<. Se, invece, volete leggere l’inchiesta de giudice Salvini potete >scaricarla qui<.
Altro non posso aggiungere, se non che non vedo l’ora di poter anche io leggere e capire.
Sul sito di Repubblica di qualche giorno fa è apparsa una curiosa notizia.
Il segretario regionale del Movimento sociale-Fiamma Tricolore della Basilicata, Vincenzo Mancusi, ha proposto un piccolo aiuto finanziario (1.500 €) alle famiglie che avranno nel corso del 2009 un figlio e che decideranno di chiamarlo Benito o Rachele. La condizione è semplice: i soldi dovranno essere usati per il nascituro (per comprare culla, vestiti o alimenti). La stessa cifra sarà destinata anche ai bambini nati da genitori extracomunitari.
E' un pensiero sicuramente utile e sarà apprezzato da quanti avendo in cantiere un figlio decideranno di chiamarlo come suggerito da Vincenzo Mancusi per onorare le radici profonde del partito.
Un'importante condizione posta è che la nascita del bimbo sia compresa in uno dei seguenti comuni lucani: Calvera, Carbone, Cersosimo, Fardella e S. Paolo Albanese.
Ad un osservatore superficiale potrebbe sembrare che la scelta sia stata effettivamente dettata dal rischio di spopolamento cui sono sottoposti tali ridenti località. Qualcun altro avrà potuto pensare che la scelta sia stata dettata da motivi finanziari (per comuni grossi, dato l'elevato consenso che il partito riscuote in Basilicata, si rischierebbe di non avere troppe risorse per far fronte alle richieste).
Ma gli osservatori più attenti avranno notato che il vero motivo della scelta è che in tal modo il partito conta di conquistare quella che da decenni è una delle roccaforti nemiche. Il comune di Carbone.
Certo. Io l'ho capito subito. Poichè Carbone era una delle sedi più temibili della >Gladio Rossa<, è chiaro che Mancusi a questo punto sta cercando di convertire figli di ex gladiatori rossi ad una tradizione profondamente italiana.
Mi viene da pensare che quasi quasi mi spiace che mio zio Antonio (famoso dirigente della Gladio Rossa ) non possa avere più figli. Chissà cosa si sarebbe inventato. Escludendo Joseph (nome già dato dal padre al fratello maggiore al ritorno dalla campagna di Russia) magari l'avrebbe chiamato Vladimir, Stalingrado o Fidel che accoppiato con il cognome non sarebbe stato male.
Sottopongo ai lettori una dichiarazione di Bruno Berardi (figlio del maresciallo Rosario ucciso dalle Br nel '78 e presidente dell'associazione Domus Civitas) a proposito del volantino che le "presunte" Br hanno fatto trovare sulla vetrata di entrata dell'emittente televisiva Primocanale di La Spezia
Berardi (Domus Civitas): "Il ritorno delle Brigate Rosse?"
"Chiediamo per l’ennesima volta di non prendere sottogamba queste minacce". Secondo un volantino trovato nella redazione di una TV di La Spezia firmata nuove BR hanno minacciato il ritorno della lotta armata.
"Noi della Domus Civitas stiamo dando l’allarme da tempo, difatti non è possibile che ex terroristi per nulla pentiti continuino imperterriti a predicare la lotta di classe, in lungo e in largo nel nostro Paese, con la benedizione delle Istituzioni e dei massmedia": con queste parole Bruno Berardi, presidente di "Domus Civitas", l'associazione che lotta per difendere i diritti delle vittime di terrorismo e mafia, commenta il volantino firmato BR trovato nella città ligure.
"Chiediamo per l’ennesima volta di non prendere sottogamba queste minacce - dice Berardi -, perchè molti di questi ex terroristi non si sono affatto arresi e possono ancora nuocere al nostro Paese, facendo da pessimi esempi per i giovani".
"Dovrebbero parlare le vittime che hanno pagato con il sangue dei loro cari la leggerezza che hanno avuto negli anni di piombo le Istituzioni, proprio come sta avvenendo adesso", conclude.
Non prendere sottogamba le minacce attaccate con lo scotch trasparente su una vetrina di una emittente locale? Non sembrerebbe il modo di comportarsi del pericolo numero 1 in Italia in fatto di terrorismo.
Scusi Berardi, se non le reca troppo disturbo, potrebbe ricordarci i nomi e le circostanze dei terroristi per niente pentiti che continuano a predicare la lotta di classe in lungo ed in largo nel nostro Paese?
In una lettera aperta a Francesco Caruso >>Leggi<<, il Presidente Emerito Cossiga ha parlato ancora una volta del caso Moro attribuendo la responsabilità della "politica della fermezza" al PCI.
Ecco il passo citato nell'articolo:
"Ma vi è ancora chi ignora che la "politica della fermezza" nel caso Moro fu voluta anzitutto dal Partito Comunista. La Democrazia Cristiana avrebbe certamente e subito trattato con le Brigate Rosse e in cambio della libertà e della vita di Moro avrebbe riconosciuto le Br come soggetto politico e liberato tutti gli appartenenti alla lotta armata che erano in prigione. Ricordo bene quando Berlinguer e Pecchioli vennero da me, ministro dell'Interno, a protestare perché il Governo aveva agevolato i tentativi della Dc di colloquiare e trattare con le Br tramite la Croce Rossa e poi "Amnesty International", minacciando la caduta del Governo se si fosse continuato su questa strada."
Dunque, Presidente, vorrebbe farci credere che la DC si sarebbe sbracata fino al punto di mandare alla malora qualsiasi residuo di dignità delle Istituzioni pur di riavere indietro uno dei suoi leader ma che non era disposta ad accettare, come contropartita, una crisi di Governo?
Erano forse questi i principi cristiani cui si è ispirata per quasi 50 anni la visione del potere del partito che ha gestito i ruoli chiave delle nostre Istituzioni? O, forse, il PCI è stato un ottimo alibi per giustificare quello che tutti, con i comportamenti, hanno fatto e cioè non salvare Aldo Moro?
La Fiat 130 su cui viaggiava Aldo Moro il 16 marzo del '78 e l'Alfetta di scorta che lo seguiva erano custodite, prima della recente demolizione, presso il museo della Motorizzazione Civile di Roma. Ma la R4 che rappresentò la prima "bara" di Aldo Moro che fine aveva fatto? Strano ma vero, era stata restituita al legittimo proprietario Filippo Bartoli e dimenticata nella periferia romana abbandonata al proprio destino in un deposito utilizzato anche come pollaio. Fino a quando il giornalista del Resto del Carlino Giorgio Guidelli si è messo sulle sue tracce e l'ha ritrovata >>Leggi l'articolo<< ricavandone anche un bello ed emozionante libro dal titolo "L'auto insabbiata" .
Guidelli è tornato nell'abitazione del Sig. Bartoli il 9 maggio scorso in occasione della prima giornata nazionale dedicata alla memoria delle vittime del terrorismo per mostrare alle telecamere quello che a parere di tutti può essere un simbolo della nostra memoria. Ma l'auto non c'era più!
E' successo che a seguito del clamore suscitato dall'articolo e dal libro di Guidelli, Filippo Bartoli ha riconsegnato l'auto al cognato in quanto la medesima era di proprietà della ditta edile a lui intestata. Su sito della Televisione della Svizzera Italiana (RTSI.ch) è possibile visionare il TG del 9 maggio ed il servizio dedicato al nuovo tentativo di Guidelli di mostrare al mondo l'importante reperto. Ho voluto riporatre sul blog l'audio del TG in caso di difficoltà tecniche di collegamento al sito dell TV Svizzera.
Due cose sembrano certe. Il cambiamento di atteggiamento del Sig. Bartoli e della moglie (sorella della persona che avrebbe preso in carico l'auto) che addirittura minaccia di chiamare la Polizia. Il Sig. Bartoli ha anche ricordato di aver ricevuto una telefonata dalla Questura che lo invitava a "chiudere la questione così...". Per la precisione Guidelli, sul suo taccuino, ha appuntato il termine "bruciarla".
Dall'altro lato appare molto strano che a seguito del ritrovamento e con la tecnologia oggi a disposizione, nessun magistrato abbia provveduto ad una nuova perizia. Una nuova analisi scientifica condotta sull'automobile potrebbe raccontare nuovi particolari o, quanto meno, confermare elementi noti dando inequivocabile conclusione ad una serie di speculazioni che nel corso di 30 anni si sono susseguite. Del resto, nell'ambito della vicenda Moro, la situazione non sarebbe nuova. Nel '94 a seguito del ritrovamento di un nuovo proiettile nel bagagliaio dell'alfetta di scorta, si era proceduto con una nuova perizia balistica per appurarne la provenienza. Al contrario di ciò che ipotizzavano i cosiddetti "dietrologi" (e cioè che fosse la prova di una settima arma brigatista) i periti Domenico Salza e Pietro Benedetti dimostrarono che tale colpo fu sparato da un'arma già nota e sequestrata e che, causa un errato caricamento in quanto non adatto ad essa, ne fu anche motivo di inceppamento.
Come mai, allora, nessun magistrato ha ritenuto di dover sottoporre la R4, appena ritrovata, ad una nuova perizia tecnica? E come mai, invece, l'auto è nuovamente sparita?
Domenica 2 novembre la giornalista Breda Marzio ha pubblicato su "Il Corriere della Sera" alcune rivelazioni inedite che il Presidente della Repubblica Giovanni Leone le avrebbe confidato in occasione della sua intervista del 1998.
Il particolare che ha colpito maggiormente riguarda il fatto che egli si fosse adoperato molto per giungere alla salvezza di Aldo Moro e che questo gli sia costato la pesante campagna diffamatoria nei suoi confronti e le dimissioni anticipate di sei mesi rispetto alla scadenza naturale del mandato presidenziale.
In particolare, Leone, ricorda:
"Quando finalmente si riuscì a saperlo [in quale carcere si trovava la Besuschio, ndr] e a contattare l'interessata, si scoprì che qualcuno l'aveva già raggiunta e convinta a rifiutare la firma alla richiesta di grazia. Il ministro della Giustizia, leggi alla mano, si mostrò sconsolato. Ma Leone lo rianimò rapidamente dicendo che, pur in mancanza di un'apposita norma, destinata ad essere proposta e approvata molti anni dopo, egli si sarebbe assunto ugualmente la responsabilità di concedere la grazia. Vuol dire - confidò pressappoco a Bonifacio - che creeremo noi il precedente che manca."
La firma fu solo rimandata alle 12 del 9 maggio perché Leone confidava anche nei segnali di apertura che si prevedeva potessero provenire dalla riunione del Consiglio Nazionale della DC. Ma il tutto fu inutile perché fu rinvenuto il cadavere di Aldo Moro a pochi passi dalle sedi di DC e PCI.
Leone si chiese:
"mi convinsi che i brigatisti fossero al corrente di quel che stava maturando e, non volendo la liberazione di Moro, avessero affrettato quella mattina l'assassinio"
Una convinzione non nuova, un'ipotesi già ampiamente presente nella pubblicistica.
Pongo una riflessione che non mi sembra da poco. Ma se i brigatisti non volevano la liberazione di Moro, perché ridursi all'ultimo minuto rischiando di trovarsi sul piatto una grazia firmata o un'apertura della DC? Non sarebbe stato più comodo anticipare a scanso di equivoci o di scherzi da prete?
Io credo, invece, che nelle ultime ore i brigatisti siano arrivati molto vicini alla liberazione dell'ostaggio ma che alla fine, a causa di un sabotaggio che intervenne nella tratativa, la contropartita che si trovarono di fronte non consentiva più alcun margine e furono costretti ad accettare la morte del presidente della DC.
Licio Gelli, Maestro Venerabile della Loggia P2 e adesso divulgatore di storia su OdeonTV, ha dato una nuova prova di grande moralità e di quanto per lui la verità sia un principio inderogabile.
Nell'ambito di una indagine nella quale il "Venerabile Presentatore" era indagato per eversione sovversiva dello Stato e associazione mafiosa", Gelli ha declinato l'invito avvalendosi della facoltà di non rispondere. Evidentemente deve aver considerato l'operato dei giudici al solo fine di screditare la Sua Immagine di star televisiva attribuendogli due banali reati di opinione.
Sarà che ormai la gente è abituata a veder utilizzare la bilancia della moralità con pesi e misure diverse a seconda delle situazioni. L'ANSA che ho letto poco fa, personalmente, mi ha lasciato senza parole.
MAFIA: PM PALERMO INTERROGANO LICIO GELLI, LUI NON RISPONDE (ANSA) - PALERMO, 5 NOV - I Pm della Procura di Palermo hanno interrogato Licio Gelli, nell'ambito dell'inchiesta su mafia e massoneria. L'ex maestro venerabile della loggia P2 si è avvalso della facoltà di non rispondere. Gelli, infatti, è stato sentito come «indagato di reato connesso archiviato». Negli anni scorsi era stato coinvolto nell'indagine «Sistemi criminali» in cui era indagato per «eversione sovversiva dello Stato e associazione mafiosa». La Procura ha ritenuto di sentire Gelli perchè sarebbe stato in contatto con alcuni indagati dell'inchiesta che nel giugno scorso ha portato all'arresto di imprenditori, massoni e boss che avrebbero «ritardato» processi in Cassazione. All'interrogatorio, che si è svolto nella caserma dei carabinieri di Arezzo, hanno preso parte il procuratore aggiunto Roberto Scarpinato e i sostituti Fernando Asaro e Paolo Guido. Il maestro venerabile della loggia P2, Licio Gelli, sarebbe stato uno dei punti di riferimenti di alcuni degli indagati dell'inchiesta su mafia e massoneria coordinata dalla procura di Palermo. Il dato emerge dalle indagini svolte di carabinieri negli ultimi mesi. Gelli, infatti, avrebbe ricevuto nella sua villa alcuni esponenti massoni che risultano coinvolti nell'indagine «Hiram». Il maestro venerabile, oltre ad essere stato indagato dai pm di Palermo in passato, era già stato interrogato anche dal giudice Giovanni Falcone nell'ambito di una inchiesta su un traffico di armi. All'epoca Gelli venne sentito come testimone e rispose su un assegno bancario finito agli atti dell'inchiesta condotta allora da Falcone.
Alla conferenza stampa di presentazione della trasmissione "Venerabile Italia" >ascolta<Licio Gelli ha avuto modo di parlare di politica e di attualità passando dalle stragi, a Berlusconi alla riforma Gelmini. Insomma, come potrete capire, ce n'è per tutti i gusti ed il linguaggio è quello del "Venerabile": diretto e audace.
Sul Piano di rinascita democratica: «l’unico che può andare avanti è Berlusconi: non perchè era iscritto alla P2 ma perchè ha la tempra del grande uomo che ha saputo fare, anche se ora è in momento di debolezza perchè usa poco la maggioranza parlamentare [...] tutti si sono abbeverati al Piano di rinascita democratica, tutti ne hanno preso spunto. Mi dovrebbero pagare i diritti, ma non fu possibile depositarli alla Siae». Sul Presidente della Camera Fini: «Avevo molta fiducia in Fini perchè aveva avuto un grande maestro, Giorgio Almirante. Oggi non sono più dello stesso avviso, perchè ha cambiato». Sulla riforma Gelmini: «In linea di massima sono d’accordo con la riforma Gelmini perchè ripristina un pò di ordine [...] Il maestro unico è molto importante perchè, quando c’era, conosceva l’alunno. [...] l’abbigliamento è importante perchè l’ombelico di fuori non dovrebbe essere consentito». Sulle manifestazioni di piazza: «le manifestazioni non ci dovrebbero essere, gli studenti dovrebbero essere in aula a studiare. Nelle piazza non si studia; se viene garantita la libertà di scioperare dovrebbe essere tutelato anche chi vuole studiare, e molti in piazza non ne hanno voglia. Dovrebbe essere proibito di portare i bambini in piazza perchè così non crescono educati» Sulle stragi: «Le stragi ci sono sempre state e ci saranno sempre perchè non c’è ordine: infatti sono arrivate dopo gli anni ‘60. Se domani tornassero le Br ci sarebbero ancora più stragi: il terreno è molto fertile perchè le Br potrebbero trovare molti fiancheggiatori a causa della povertà che c’è nel paese. Le stragi sono frutto di guerra tra bande»
Quest'ultima considerazione ci conforta sulla qualità della trasmissione perché frutto di un raffinato ragionamento intellettuale e di un articolato pensiero storico. Complimenti, davvero.
Tra le associazioni delle vittime delle stragi, al momento (sabato 01 novembre), nessuna sembra aver avuto voglia di contraddire il Maestro. Solo l'associazione delle vittime di via dei Georgofili (Firenze) ha ritenuto opportuno di non subire queste idiozie.
Giovanna Maggiani Chelli ha replicato: «Il signor Gelli quando afferma ‘le stragi ci sono sempre state’, dice una cosa gravissima perchè se sa qualcosa di più di quello che sappiamo noi parli visto che è alla fine della sua vita, altrimenti taccia perchè il suo qualunquismo ci offende [...] Non è vero che quando esplosero le bombe del 1993 in questo paese mancava l’ordine. Le forze di polizia funzionavano eccome [...] Gelli non sa nulla di ciò che voglia dire patire una strage. Ci risparmi l’ironia becera e spicciola. Dopo di che non si schieri con nessuno, in difesa di nessuno o dovremmo pensare davvero che questa sua uscita pubblica nel giorno dei Santi abbia un secondo fine».
La politica ha pensato bene di cogliere al balzo l'opportunità offerta da Gelli per la solita raffica di dichiarazioni autoreferenziali. Dalla richiesta da parte dell'opposizione di una presa di distanze di Berlusconi, all'accusa del PDL di pescare nel torbido. Persino Baudo e Bonolis. Ed un botta e risposta Cossiga-Rosy Bindi. >Rassegna Agenzie<
Una precisazione. Parlo di 'dichiarazioni idiote' perché ritenere che le stragi siano state l'opera di guerra tra bande criminali equivale a dire che la fame nel mondo c'è perché non ci sono sufficienti negozi. Oltretutto non è possibile ritenere che le stragi ci siano state perché c'erano le BR, per il semplice fatto che esse sono nate dopo Piazza Fontana. Ma se il pensiero di Gelli corrispondesse alla realtà dei fatti, allora vuol dire che lui per bande non intende "rossi" contro "neri" ma fazioni contrapposte dello stesso Stato che hanno utilizzato uno strumento di morte per contrastare l'avanzata dell'avversario politico.
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