Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Mario Sossi è uno dei casi in cui la celebrità arriva certamente più per merito di una disavventura personale che per i suoi trascorsi professionali. Chi tra i meno giovani non ricorda il suo rapimento da parte di un gruppo rivoluzionario denominato Brigate Rosse che ancora in tanti definivano sedicenti? E chi, tra quelli che hanno frequentato le posizioni più estremiste, non ricorda lo slogan “ Sossi fascista sei il primo della lista”? Tutte cose che a distanza di 35 anni dovrebbero far sorridere. E, invece, l’irriducibile Sossi prima dichiara che non ha la minima intenzione di conoscere e stringere la mano al suo carceriere Franceschini, poi si candida con il movimento di Alessandra Mussolini. Ma non si ritiene soddisfatto perché ritiene che la deriva a sinistra del Pdl sia sotto gli occhi di tutti, e che Forza Nuova sia l’unica soluzione per tenere fede ai valori della vera destra. Forza Nuova. Già. Formazione di estrema destra fondata nel 1997 da Roberto Fiore, personaggio che negli stessi anni in cui Franceschini rapiva e “processava” Sossi da sinistra, era tra i fondatori di Terza Posizione che agiva in opposizione (da destra) al MSI, la cui politica era ritenuta reazionaria. Un’organizzazione speculare alle BR che contrastavano da sinistra il PCI in quanto portatore di una politica troppo prudente giudicata riformista. Le notizie sono due. Una nuova ed una vecchia. Quella nuova è che la prima parte dello slogan degli extraparlamentari non doveva essere tanto azzardata e che Sossi a forza di spostarsi a destra rischia di risbucare a sinistra (per la teoria sulla circolarità della politica). Quella vecchia è che di questi tempi in cui in molti passano il tempo a contare le apparizioni in pubblico degli ex brigatisti, deve essere sfuggito il passato del fondatore di un partito che concorrerà alle elezioni europee e che nel 2008 era addirittura candidato alla Presidenza del Consiglio. Trattasi di persona condannata per banda armata in primo grado a 5 anni e in secondo a 3 e mezzo. Che ha trascorso un lungo periodo di latitanza all’estero e che infine non è andato in carcere perché è arrivata la prescrizione. Che dichiara di essere stato “attivo in senso radicale” nella destra e che “c’era anche la spinta romantica di una gioventù alla ricerca di una verità”. In definitiva, secondo Fiore “non si può criminalizzare quel periodo”. Intervista sul Corriere della SeraE, infatti, non sono i periodi ad essere criminalizzati ma, come dice lo stesso termine, i criminali, cioè chi commette dei reati. E la banda armata è un reato. Lo stesso reato che oggi rende complicato ad uno come Renato Curcio persino scrivere un libro. Figuriamoci se volesse presentarsi alle elezioni… Che fine hanno fatto le associazioni delle vittime del terrorismo? E’ questo uno dei modi per ricordarne la memoria ed il sacrificio? Qualcuno mi ha fatto notare che, intanto, andrebbe aggiornato lo slogan: “Sossi fascista, sei il secondo della lista”
Terzo appuntamento con la rassegna " Riparliamo degli anni '70". Un nome, una garanzia: Giuseppe Ferrara, un sovversivo rompiballe per un potere che non vuol parlare dei suoi problemi (mafia, P2, storia irrisolta, affari loschi) ma preferisce farci credere che il grande dramma italiano siano gli extracomunitari (basta guardarli per essere derubati o stuprati) o il pericolo islamico. Se Ferrara è sempre stato un sovversivo, la cosa ridicola (o tragica) è che lo è stato sia per i governi degli anni '70, sia per quelli degli anni '80-90, sia per quelli odierni, tanto da non far uscire un film come " Guido che sfidò le Brigate Rosse" forse perché, come dice Ferrara, "lo Stato sta dalla parte delle Brigate Rosse". Questo mi suona più strano e quasi quasi mi fa pensare che alla fine "la marca" può anche cambiare ma lo stabilimento di produzione è sempre lo stesso. Scusatemi il paragone markettaro (nel senso di persona di marketing...) Ferrara ci ha fatto vedere l'ultima mezz'ora del film e l'atmosfera in sala è stata toccante. Un anziano spettatore (e per questo più saggio di noi) che è giunto a Brindisi da Matera (wow) non ha trattenuto le lacrime nonostante pensava dopo tanti anni di poter guardare gli avvenimenti con maggiore freddezza. Il dibattito è stato meno lungo del solito, anche perché il film è stato eloquente, ha dato molte risposte e il pubblico ha voluto approfondire le vicende artistiche di un Maestro come Ferrara. Peccato per la defezione all'ultimo momento di Leo Caroli, la sua presenza avrebbe portato un contributo diretto per capire meglio anche come il sindacato ha affrontato in questi anni la vicenda e come si pone di fronte ai nuovi simpatizzanti dei brigatisti di trent'anni fa (definirli eredi mi sembra davvero azzardato). Ferrara ci ha parlato di un suo nuovo lavoro che definisce il "Gomorrino", perché parlerà di camorra. E ne parlerà a modo suo come ha già fatto per la mafia in "Giovanni Falcone" e "Cento giorni a Palermo". Il film ha un solo problema. I finanziamenti. Certo per chi può contare sui contatti giusti, è facile trovare i soldi per realizzare un mediocre film su cose note e stranote (basta leggere i libri e le interviste dei protagonisti che quelle stesse persone che prendono i soldi per fare il film vorrebbero far zittire). Per uno come Ferrara, però, le cose sono diverse perché quando si è contro, si è contro. Io sono pronto a scommettere che i soldi per il suo progetto sulla camorra non li troverà mai. E se li troverà succederà come per il film su Guido Rossa. Dovrà organizzarsi un suo giro di proiezioni, contanto su tanti (per fortuna) amici disposti a veicolare il suo verbo. Anche questo è il nostro strano Paese.
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Il secondo incontro della rassegna " Riparliamo degli anni '70" è andato abbastanza bene. Purtroppo la contemporanea mostra su Fellini ha sottratto un po' di persone che via mail avevano dato conferma della loro presenza. Il ringraziamento per l'amico Giorgio Guidelli non ha confini. L'ho già detto in sede di presentazione dell'evento. Ha fatto una follia, un tour de force che forse non si farebbe neanche per una "morosa". Una faticaccia che però ha offerto a tutti noi la possibilità di conoscere ed ascoltare un grande divulgatore, uno che per passione ruba le notti al proprio sonno perché, quando al giornale ha terminato l'ultimo articolo di cronaca per l'edizione del giorno dopo, spesso passa la notte in redazione a cercare nell'archivio o a scrivere per i suoi lavori sugli anni '70. Ed il grazie va anche per una clamorosa bomba che ci ha portato sul caso Peci, una di quelle che se fosse stata detta al TG1, il direttore sarebbe stato costretto alla pensione anticipata Il sempre presente e propositivo Pino De Luca ha ben immortalato la giovane immagine di Giorgio in un post per il suo blog Diario di bordo. Io credo che Giorgio Guidelli avrà apprezzato e ci avrà perdonati se il non numeroso pubblico non è stato all'altezza di altre occasioni, ma la competenza e la dialettica che è derivata dall'incontro mi auguro lo abbiano ripagato. Naturalmente l'invito per tutti è di restare "sintonizzati" sulle sue parole seguendo il suo seguitissimo blog Parole di piombo sul sito del giornale per il quale lavora. Avremo modo di sentirlo ancora e di avere notizia del suo prossimo, esplosivo lavoro.
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Ieri sera alla bella trasmissione di Serena Dandini " Parla con me" era presente la scrittrice Anna Negri, che presentava il suo romanzo "Con un piede impigliato nella storia". Anna Negri è persona di grandi capacità e talento. Basta dare un'occhiata all sua voce su WikipediaForse per questo mi ha colpito molto una sua frase, pronunciata con aria particolarmente seccata, a sottolineare una citazione (forse l'ennesima) che la Dandini ha fatto in relazione al padre, forse più famoso di lei, Toni Negri. Anna Negri ha commentato un'affermazione della Dandini con un " ma non si riesce a fare un'intervista senza nominarlo quell'individuo là?". La Dandini, in evidente imbarazzo, ha voltato pagina e ha iniziato a parlare del libro. Toni Negri ha una grande personalità, una forte presenza, a detta di chi ci ha parlato (come Aldo Grandi che è stato con lui in contatto per il libro " La generazione degli anni perduti. Storie di Potere Operaio") si crede ancora il centro della rivoluzione mondiale. Forse è per questo che una figlia non da meno per talento ed intelligenza può sentirsi soffocata da tanta personalità? O forse, come tutti i figli di personaggi celebri, non ne può più di essere continuamente ricondotta al padre?
Nell’ambito della rassegna culturale “ RIPARLIAMO DEGLI ANNI ’70” si terrà venerdì 24 aprile alle ore 18.00 presso la sede della testata giornalistica online Brundisium.net in via Colonne 46 la presentazione del libro “Operazione Peci, storia di un sequestro mediatico” di Giorgio Guidelli, giornalista de “Il Resto del Carlino”, giovane studioso del fenomeno eversivo. In un’epoca mediatica come quella in cui viviamo, Guidelli è stato il primo che a distanza di 24 anni dai fatti, ha ricordato un evento così tragico denunciando l’elemento spettacolare ricercato e voluto a tutti i costi da Giovanni Senzani, artefice e mente dell’azione. Diretta web a questo link L’ossessione dei mass media ed il tentativo di piegare i mezzi di comunicazione di massa ai propri obiettivi hanno fatto si che l’azione contro il fratello del pentito numero uno si tramutasse in barbarie indiscriminata, sintomo di una degenerazione ormai fuori controllo. Con il suo lavoro Giorgio Guidelli ha fatto riemergere il ricordo sbiadito di fatti che tutte le TV avevano rifiutato persino di narrare per un recupero del passato sentito come esigenza del presente. Una serata importante per saper guardare e interpretare i fatti di ieri mantenendo sempre un occhio di riguardo per quello che sarà. Il rapimento di Roberto Peci è contestualizzato nella vicenda che ha come protagonisti i “fratelli Peci”, due ragazzi marchigiani che partendo dalle lotte sociali della loro provincia decidono di fare le prime azioni dimostrative contro obiettivi politici. I più eclatanti sono una irruzione nella sede della CONFAPI ed una nella sede della DC di Ancona. Patrizio, il fratello più grande, fa il salto e si trasferisce a Torino diventando brigatista a tutti gli effetti, uno del vertice. Benché abbia scritto un libro recentemente riedito ( Io, l’infame) i dubbi sulla sua figura non sono ancora del tutto svaniti. Stefano Grassi, nel suo “ Dizionario sul caso Moro”, ricorda come Patrizio Peci abbia svolto il servizio militare nei Carabinieri, i dubbi sulla teoria del “doppio arresto” e del suo utilizzo come infiltrato dal 15 dicembre 1979 al 19 febbraio 1980 (data ufficiale del suo arresto) non sono stati chiariti anche a causa del fatto che le versioni raccontate dai protagonisti sulla dinamica dell’arresto, non coincidono. E poi nella tragedia di Roberto Peci c’è Giovanni Senzani, le cui coincidenze nei contatti con persone riconducibili ai Servizi Segreti sono state ricordate nella stessa sentenza per il Processo per il rapimento di Roberto Peci.. Insomma. Ce ne sarà per parlare di altri meccanismi particolarmente “intoccabili” di quegli anni.
Il primo degli otto appuntamenti che vedranno protagonisti gli anni '70 e che ho voluto chiamare " Riparliamo degli anni '70 - Rassegna storico-divulgativa per conoscere la storia degli anni di piombo" ( scarica locandina) è stato, per livello di partecipazione e per contenuti, davvero ad alta intensità. Confesso che non ci aspettavamo (assieme alla testata giornalistica Brundisium.net) tanto entusiasmo e un pubblico attento e molto competente. Il Gen. Vincenzo Manca (Senatore nella XIII legislatura, vice Presidente della Commissione Stragi dal 1996 al 2001 ed autore di svariati saggi sulle principali tragedie nazionali) ha trasmesso tutta la sua determinazione e passione ad un pubblico puntualissimo ed esigente.
Tante domande, anche molto tecniche, tanti ricordi da parte di chi Moro ha avuto l'onore di conoscerlo e due testimonianze di eccezione.
Lilli D'Amicis, che ha moderato la serata, che ha partorito a La Spezia mentre il marito COMSUBIN era impegnato (quasi clandestino) nella ricerca della prigione di Moro. Aggiungo io: ed era uno dei capo-squadra dell'Operazione Smeraldo. L'ing. Luigi Ferlicchia , allievo politico di Moro ed oggi Presidente della Federazione dei Centri Studi "Aldo Moro e Renato dell’Andro", ha raccontato della telefonata che in sua presenza, Renato Dell'Andro fece alla Signora Moro per informarla che il Ministro della Giustizia Paolo Bonifacio aveva firmato la grazia per Paola Besuschio e che adesso mancava solo la firma del Presidente Leone. Credo sia una nuova dimostrazione che, anche se complicati, tragici, lontani, difficili da capire, gli anni di piombo siano attraversati da un desiderio comune: quello di voler capire e voler chiudere. Ma a giudicare dalle divisioni politiche e dal clima acceso che contraddistingue il dibattito politico, non credo che vi siano i presupposti istituzionali per poterli superare. Semplicemente, perché non lo si vuole fare, perché non conviene né alla destra, né alla sinistra. Eccovi il video con un estratto della serata che é durata, complessivamente, oltre due ore.
Non è mia abitudine parlare di libri in questo spazio perchè di recensione di libri ce ne sono a bizzeffe online. E con i misteri fini a se stessi, come saprete, non vado molto d'accordo perchè ritengo che molte cose siano semplicemente verità nascoste che più o meno persone conoscono e che nessuno ha intenzione di rivelare per primo. Allora succede che le cose emergano per caso, nel corso di inchieste che nulla c'entrano con le carte emerse. Accade così che nel 1996 grazie alla determinazione del giudice Guido Salvini che indagava sul terrorismo nero, lo studioso Aldo Giannuli scoprì in un deposito sulla via Appia a Roma degli scatoloni pieni di documenti dell'Ufficio Affari riservati. L'esistenza di 'Anello' o 'noto servizio' stava tutta in un documento nel quale si apprendeva che esso era nato per volontà del Generle Roatta (ex capo del SIM, il servizio segreto fascista) con un unico compito: ostacolare l'avanzata delle sinistre, ad ogni costo e con qualsiasi mezzo. Stefania Limiti, giornalista e studiosa, è partita da quel documento per ricostruire la storia di 'Anello'. si è subito capito che il 'noto servizio' è stato coinvolto in eventi determinanti della nostra storia: la fuga del nazista Kappler dell'ospedale militare del Celio, la liberazione, grazie ad un accordo con la camorra, dell'assessore democristiano Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br, la trattativa del Vaticano con le Brigate Rosse per la liberazione di Aldo Moro. La Procura di Roma ha chiuso l'inchiesta su 'Anello' ritenendo che è in dubbio vi siano illeciti penali ma che non sono emersi riscontri. Verrebbe da dire: "e che ve li devo fornire io, i riscontri?". Strano modo di lavorare per una Procura che ipotizza degli illeciti ma non si pone il problema di verificarne esistenza e gravità. Per fortuna che un'altra Procura, quella di Brescia che ha indagato sulla strage di Piazza della Loggia è intenzionata a fare chiarezza. Ed infatti, proprio di 'Anello' s'è parlato nella prima udienza del processo per la strage. E' un libro inchiesta, ed è per questo che ho deciso di parlarne. Perchè l'inchiesta è forse l'unico modo che oggi abbiamo per svelare gli ancora tanti segreti che affliggono la nostra democrazia. Incompiuta perchè il troppo sangue versato è spesso stato versato invano, incompiuta perchè in molti, in questo Stato, hanno ancora di quel sangue sporche le mani. L'inchiesta è accurata: un attento lavoro dell'autrice sui documenti arricchito da un ricco apparato di note. Lo storico Giuseppe De Lutiis ha curato la prefazione mentre il giornalista Paolo Cucchiarelli la post-fazione. Due garanzie quando si parla di servizi segreti e terrorismo nero. Nessuno aveva mai guardato nei cassetti fino in fondo, nessuno ha mai cercato di capire meglio il 'noto servizio' forse il principale strumento dello stato parallelo. Questa inchiesta ha cominciato a farlo, ma è solo l'inizio. «Questo libro - spiega Stefania Limiti - è il frutto di un'inchiesta giornalistica. Ho messo insieme pezzo per pezzo di un grande puzzle. Anello, come ha scritto anche il professor De Lutiis nella prefazione, ha alterato gli equilibri politici e avvelenato la democrazia. Mi auguro che da qui si possano scoprire tutti gli agganci politici avuti» Ecco, cara Stefania. E' proprio questo il problema, come ben sai. Il tuo lavoro, probabilmente, potrà dare il via a quel percorso di ricerca delle responsabilità dello Stato che non sono solo di impreparazione o dovute alle 'deviazioni' di singole strutture. No, sono ben altre. Sono dirette, sono da mandante consapevole. Occorrerebbe iniziare a spiegare ai familiari delle tante, troppe vittime, per quale Stato i loro cari sono morti. Dubito che sia lo stesso Stato che credevano di servire. Per approfondire: Articolo di Andrea Purgatori su Vanity Fair I lanci di agenzia sul lavoro di Stefania Limiti Intervista di Alessandro Forlani a Stefania Limiti
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Il Sen. Vincenzo Manca è stato per 5 anni vice presidente della "Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi". Ha lavorato assieme al presidente Giovanni Pellegrino e, insieme, hanno portato l'organismo parlamentare a dei risultati importanti. Il trentennale del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è stata l'ennesima occasione persa per poter parlare della vicenda a distanza di trent’anni potendola affrontare come un avvenimento lontano cercando di far emergere nuovi elementi utili alla ricerca della verità condivisa. In molti si attendevano dalla ricorrenza nuovi contributi, nuovi saggi, un nuovo impulso verso un’analisi più completa verso la ricerca di responsabilità ancora tutte da chiarire. La risposta editoriale all’evento è stata imponente, quasi impossibile tener conto delle pubblicazioni e difficile seguire le tante trasmissioni che si sono avvicendate nell’etere soprattutto a cavallo del 16 marzo 2008. Ma novità, niente. Tutti allineati sulle responsabilità note e sull’impossibilità da parte dello Stato di giungere ad una conclusione positiva. Il Senatore Manca ha avuto il merito di proporre una riflessione intensa e critica sui percorsi giudiziario, parlamentare, saggistico, e pubblicistico che la ricorrenza ha proposto al Paese, nel tentativo di accendere “documentalmente” fasci di luce su molte ambiguità, contraddizioni, ritrattazioni. Ne è uscito fuori un lavoro diverso dagli altri perché esposto con chiarezza, linearità e oggettività. Le speculazioni “complottistiche” hanno lasciato il posto all’analisi delle carte e queste, secondo Manca, portano di fronte ad un’unica pista: il “nodo fiorentino”, ovvero quell’area di consenso ed appoggio di cui le BR hanno fruito nei giorni del sequestro e che è stato il vero “cuore pulsante” dell’intera operazione. 1) Cinque anni di vice-presidenza nella Commissione Stragi cosa le hanno lasciato? E quale contributo hanno lasciato al Paese?Nei cinque anni di attività parlamentare svolta presso la Commissione Stragi, ho vissuto esperienze straordinarie ed illuminanti relativamente ai contesti ed alle ragioni che hanno fatto vivere al nostro Paese momenti tragici. Ciò non vuol dire, tuttavia, che nell’ottica dei risultati formali dell’organismo in argomento, i singoli tasselli del lavoro svolto siano stati tutti “positivi”, dovendo considerare non solo i non pochi pregiudizi (personali, ideologici e di partito) di alcuni Commissari sulle vicende oggetto di indagine (su quella di Ustica, in particolare), ma anche le aprioristiche preclusioni di alcuni ambiti politici ai fini di una condivisione di indirizzi “indagativi” e di valutazioni dei riscontri bipartisan. Il tutto non poteva non lasciare il “segno” nelle persone con onestà intellettuale ed in particolare in chi, come chi scrive, sia cresciuto, formato ed educato, nelle Istituzioni, nel vedere prioritariamente il bene di queste ultime e del Paese e non solo quello di questa o di quella forza politica, ben sapendo peraltro che i partiti spesso curano soprattutto il risultato immediato in termini di consenso e di interesse di parte, mentre le Istituzioni ed il Paese conservano inalterata la loro “mission”, cioè il bene della collettività e dei “valori” base della vita del cittadino. La seconda parte della domanda meriterebbe una risposta molto articolata. Provando a dare solo dei flash, ritengo di poter affermare che, così come ho scritto in più di un mio saggio, la “valorizzazione” di tutto il materiale raccolto dalla Commissione Stragi può portare ad una “lettura” nuova, attendibile ed a volte “inattesa” di molte pagine della recente storia del nostro Paese: cosa che sembrerebbe non desiderata da ambienti interessati o quantomeno valutata come non prioritaria. 2) La ricorrenza del trentennale ha portato alcune interessanti novità relative alle ultime ore della vicenda Moro. La grazia firmata da Leone e strappata, il “piano a reticolo” del Ministro Cossiga che la notte dell’8 maggio fa circondare dall’esercito un settore di Roma per pressare i brigatisti, il segretario di Moro, Sereno Freato, che vola con l’aereo di Berlusconi da Tito, l’iniziativa di Benito Cazora e del suo incontro del 7 maggio in via della Camilluccia 551 con persone che si dichiarano pronte ad un blitz per liberare Moro... Indicazioni che vanno tutte in un’unica direzione: l’8 maggio tutto era pronto per la liberazione di Moro, ma qualcosa intervenne in extremis e la trattativa andò a monte. Non ce ne sarebbe abbastanza per aprire una nuova commissione d’inchiesta o un nuovo processo?Indubbiamente,m nelle ore che hanno preceduto l’assassinio dello statista pugliese si sono verificati fatti e circostanze coinvolgenti più soggetti, più ambiti e più città. Se è vero, infatti, che può essere attribuito un elevato grado di verificabilità all’ipotesi che lascia all’autonomia delle BR l’iniziativa del sequestro e della sua sanguinosa conclusione, è altrettanto vero che, nella gestione della prigionia e della tragica fine dell’on. Moro e per quanto attiene alla ricerca del covo ove era tenuto quest’ultimo, coagirono forze, competenze ed “incompetenze” diverse che finirono poi con il favorire l’avvitarsi della vicenda verso l’epilogo che tutti sappiamo. Va ricordato infine il pensiero di molti studiosi, secondo cui l’uccisione dell’on. Moro dopo 55 giorni di prigionia va interpretata come l’espressione di una “necessità di auto-conservazione” per i tre protagonisti, vale a dire: le BR, l’on. Moro e lo Stato italiano. 3) A trent’anni da una vicenda è realistico attendersi che non vi siano grossi ostacoli nella ricerca della verità. Cosa l’ha delusa nel trentesimo anniversario dell’affaire Moro?Va premesso che, nella vicenda Moro, la celebrazione dei vari processi penali (protrattasi per ben 30 anni, con vari gradi di giudizio, con diversi protagonisti, in diverse sedi e con un impegno massiccio di uomini e di mezzi) ha portato all’individuazione dei “colpevoli materiali” e non dei “mandanti”, né degli “ispiratori” del crimine, chiarendo nel contempo molti equivoci, ricostruendo buona parte dei tempi e dei modi della vicenda e trovando veritiere, in molti parti di rilievo (e non in tutte ...), le dichiarazioni degli imputati e le confessioni dei pentiti. Premesso allora tutto questo, va evidenziato che, nel 30° anniversario della morte di Aldo Moro, c’erano da attendersi passi in avanti quantomeno in fatto di individuazione dei “mandanti” e degli “ispiratori” del crimine. E’ vero che sono stati scritti molti saggi, sono stati fatti convegni e sono state programmate cerimonie celebrative, ma è anche vero che si è ripetuto il ritornello di tesi senza prove, colpevolizzando ora l’uno ora l’altro ambito, soprattutto straniero, e basandosi sempre su logiche senza basi probanti. Di contro, in nessun lavoro si è accennato, si è sviluppato e si è messo a fuoco l’unico “nodo” di verità che si può considerare come il più importante risultato raggiunto, per la specifica vicenda, nel corso dei lavori della Commissione Stragi – 13^ Legislatura, vale a dire il “nodo fiorentino” che è “corredato” non solo da forti evidenze di responsabilità in documenti che sono agli atti della Commissione, ma anche da interessi vari (in più ambiti) a non vederlo svelato. E ciò nonostante l’appello del Presidente della Repubblica (l’on. Oscar Luigi Scalfaro) fatto in sede istituzionale il 9 maggio del 1998, gli inviti di vertici di Governo e degli stessi familiari dell’on. Moro. E’ bene comunque annotare che questo aspetto specifico trova spazio in molte pagine del mio ultimo saggio (“Aldo Moro, un profeta disarmato”,ed. Koinè), specificando anche che ciò è avvenuto dopo aver constatato – rimanendone deluso – che la saggistica e la pubblicistica avevano evitato di trattarlo. 4) Al termine della sua attività, la Commissione Stragi diede disposizione di procedere alla pubblicazione integrale dei documenti acquisiti e di renderli disponibili a chiunque ne avesse richiesta la visione privi di ogni vincolo di segretezza. Eppure, ancora oggi, esistono molti faldoni classificati o, comunque, non disponibili. Come mai?Confermo che la Commissione, dopo aver considerato che il materiale raccolto era di notevole importanza per una valutazione complessiva della storia più recente del nostro Paese, nella seduta del 22 marzo 2001 deliberò di autorizzare “la pubblicazione immediata ed integrale di tutti gli elaborati prodotti da gruppi o da singoli Commissari, ... in ciò ritenendo indubbi l’utilità ed il senso complessivo dell’esperienza della Commissione”. Specificò, inoltre, che dovevano essere pubblicati tutti gli altri atti e documenti, ad eccezione però di quelli acquisiti con la classifica “segreto” o “riservato”, per i quali l’Ufficio di Segreteria avrebbe provveduto all’inoltro delle relative richieste di declassifica per verificare la permanenza del vincolo del regime di pubblicità. Da tutto ciò deriva che la perdurante presenza di “faldoni classificati o, comunque, non disponibili” derivi dal fatto che non è stato ancora acquisito il non-vincolo del regime di pubblicità da parte degli enti originatori: fatto questo che comunque andrebbe approfondito per evitare che qualcuno non “declassificasse” senza validi e persistenti motivi. 5) Nel bel libro “Abbiamo ucciso Aldo Moro”, Steve Pieczenik ha raccontato la sua esperienza in Italia a fianco del Ministro Cossiga e della sua strategia volta a prendere tempo, manipolare le BR per spingerle ad effettuare l’unica mossa utile per lo Stato: assassinare Aldo Moro. Ed il comunicato del “Lago della Duchessa”, del quale Pieczenik si sarebbe dichiarato l’ispiratore, rappresentava il brusco stop che l’americano diede alle BR in relazione alle trattative in corso. Il tutto sarebbe avvenuto con la costante informazione a Cossiga ed Andreotti che si presero la responsabilità politica di attuare questo piano. Una rivelazione del genere avrebbe scatenato un terremoto politico in un Paese normale. Come mai in Italia è sostanzialmente passata inosservata?A questa domanda, ammesso che tutti i “passaggi” siano veri, mi sento di rispondere solo in un modo: nel nostro Paese la “rivelazione” di cui si parla nella domanda è sostanzialmente passata inosservata in quanto si risente, in quasi tutti gli ambienti, delle patologie presenti da noi e che, nell’insieme, costituiscono quello che io definisco “il caso Italia”, il caso di un Paese, cioè, che, pur ricco di cultura, di storia, di arte e di umanità, è stato tenuto prigioniero per anni e anni da ideologie utopistiche e soprattutto dal sopravvento dell’interesse privato su quello collettivo e da uno scarsissimo senso dello Stato e delle Istituzioni. Va aggiunto che il Paese, a volte ed anche per effetto di quanto prima specificato, è stato messo in gravi difficoltà, dall’impreparazione e dall’inefficienza di settori della Pubblica Amministrazione e degli Apparati dello Stato, per non parlare del fatto che la politica italiana è stata per anni coartata dalla complessità della sua collocazione geo-politica, dalla realtà interna, nella perdurante impossibilità di superare (conciliandolo o assorbendolo) il dualismo in essa presente e cioè: rivoluzione-riformismo, governo-opposizione, occidente-oriente, pubblico-privato. Su questo argomento ci sarebbe tanto altro da dire e che, comunque, ho cercato di riassumere nell’ultimo mio saggio, prima citato, dedicando un capitolo proprio al “caso Italia”. 6) Uno degli aspetti sui quali si è saputo di meno in tutti questi anni, riguarda il ruolo che la cosiddetta “area toscana” avrebbe ricoperto nella vicenda Moro. Quale pensa sia stato il suo coinvolgimento e, soprattutto, per quale motivo non è stato possibile avviare adeguate indagini?L’argomento “area toscana” nella vicenda Moro (che io preferisco chiamare “nodo fiorentino”) è il punto centrale di quest’ultima. Sono convinto sia che questa sia la strada “nuova” (perché mai presa in considerazione nei vari dibattimenti) e “risolutiva” (per spiegare gli “intrecci” pertinenti alle vere “intelligenze” che hanno gestito la vicenda) e sia che essa costituisca il punto di approdo più qualificante dall’attività svolta dalla “Stragi” nella XIII Legislatura (1996-2001). In poche parole e sulla base di documentazione probante (e non sulla scorta di tesi basate sulla “fantasia” ...), il “nodo fiorentino” si presenta come la chiave di lettura principale per conoscere chi ha “diretto” la vicenda, che non è di certo Moretti. Quest’ultimo, oltre ad essere “il braccio operativo” dell’Organizzazione, si è di sicuro limitato a portare la documentazione, sull’interrogatorio subito dal politico in prigione, da Roma al luogo della periferia di Firenze (e viceversa), dove il Comitato Esecutivo delle BR, secondo quanto è stato ragionevolmente accertato, si riuniva per “gestire” il tutto (sequestro, prigionia ed assassinio dello statista pugliese). Parimenti deve ritenersi ragionevolmente probabile vedere i brigatisti toscani come “parte integrante del quadro delle responsabilità” (cosa finora esclusa dalla Magistratura e sempre volutamente “trascurata” dagli organi di informazioni ...), aggiungendo, infine, che esiste un “accertamento giudiziario” relativo alla partecipazione al Comitato rivoluzionario della Toscana del professor Giovanni Senzani, già nella primavera del 1978 e non, come si è sempre creduto, prima e dopo tale anno. A questo proposito merita riflessione quanto riferito alla Commissione Stragi da due magistrati al tempo impegnati nella Procura di Firenze nelle indagini sull’attività del brigatismo toscano. Il primo, il Dottor Gabriele Chelazzi, ha definito il Professor Senzani: “sin dal 1977 del Comitato toscano, il leader, il capo ed il vertice”, aggiungendo che è proprio “sulla base di questo che la Corte di Assise di Firenze (lo) ha condannato”. Il secondo, Dott. Tindari Baglioni, invece, rispondendo ad una mia domanda con cui chiedevo “se erano più preparati gli apparati istituzionali o le BR”, ha affermato: “la mia risposta, con una battuta, potrebbe esser che avevamo gli stessi consulenti, cioè Senzani” (vds. 60° resoconto stenografico 21 marzo 2000, pag. 3085). In precedenza lo stesso Magistrato, sempre a proposito della “preparazione dei terroristi”, aveva affermato (vds. Citato documento, pag. 3082): “l’ideologo era Senzani che faceva il consulente per il caso Moro”, per poi precisare subito dopo che era portato a dire ciò perché, all’epoca, gli era stato detto che il Prof. Senzani era un esperto di terrorismo ed era anche un uomo delle Istituzioni”. Per quanto attiene alla parte della domanda sul motivo per cui non è stato possibile avviare adeguate indagini sul “nodo fiorentino”, la risposta può essere data solo dalla Procura di Roma, alla quale è stato inviato, nella primavera del 2001, un rapporto, a firma di Giovanni Pellegrino e mia, con il quale si prospettava quanto risultato alla “Stragi” a proposito del Comitato toscano delle BR e del Prof. Senzani. Giovanni Pellegrino, in una lettera scrittami nell’estate scorsa e riportata nel mio saggio su Aldo Moro, al proposito di questo argomento ha asserito: “Tutto ciò che segnalammo con un rapporto alla Procura di Roma sul nodo fiorentino del caso Moro ha avuto come unico effetto quello di indurre la Procura a chiudere ogni indagine sul sequestro e sull’omicidio”, per poi così concludere la sua missiva: “... noi lavoravamo seriamente, ma per questo dovevamo essere fermati e comunque non seguiti.” 7) Nell’agosto del ’98 giunsero in Commissione Stragi molti faldoni contenenti «atti di elevata classifica» da «considerarsi di vietata divulgazione». Il 29 maggio del 99, il Presidente Pellegrino dichiarava al Messaggero “Siamo vicini ad una svolta, so cose che non posso dire e che non direi neppure in seduta segreta alla commissione stragi”. E’ passato oltre un decennio. Lei era a conoscenza di quei contenuti? E’ possibile almeno rivelare a quali aspetti della vicenda facevano riferimento quelle parole?Non ricordo i particolari cui si accenna, né i contenuti dei faldoni giunti nell’agosto del 1998 in Commissione “Stragi”. Non credo però che abbiano portato a risultanze che non siano state già rese note in nostri elaborati, o nei miei saggi o in quelli di Pellegrino. Se può interessare, mi ricordo ora solo di 8 faldoni di documenti giunti dal Sismi sulla figura e sull’attività eversiva di Giangiacomo Feltrinelli. Questo materiale è pervenuto a noi il 4 dicembre 2000 e non nel 1998. 8) In una recente intervista andata in onda su GR Parlamento, il segretario politico di Moro Sereno Freato, ha raccontato come, in realtà nella gestione della strategia che voleva Moro morto più che il consulente americano siano stati due poliziotti dell’antiterrorismo tedesco venuti a Roma ad avere grosse responsabilità. Il rapimento, secondo Freato, fu gestito nello stesso modo della vicenda Schleyer quando il governo tedesco braccò i militanti della RAF, costringendoli a spostare più volte l’industriale tedesco rapito, per poi metterli all’angolo e spingerli ad uccidere il prigioniero. Fu lo stesso Moro in una delle sue lettere a domandarsi se non ci fossero ingerenze “americane o tedesche” che impedivano l’evoluzione delle trattative. Nelle acquisizioni della Commissione Stragi esiste traccia di poliziotti tedeschi e di un loro ruolo all’interno della vicenda Moro?A me non risulta che in Commissione Stragi esista traccia probante di un ruolo svolto da poliziotti tedeschi all’interno della vicenda Moro. 9) Il terrorista venezuelano Carlos, nel mese di giugno ha raccontato all’ANSA del tentativo in extremis di liberare alcuni brigatisti dal carcere (da parte dei nostri servizi militari, una fazione evidentemente vicina all’On. Moro) come contropartita per la liberazione di Moro e che i garanti dell’operazione avrebbero dovuto essere il col. Giovannone e l’FPLP. Il blitz fu impedito a causa della “soffiata” di un membro dell’OLP che avvertì la stazione Nato in Libano. La conseguenza fu che Moro fu ammazzato e gli uomini del SISMI protagonisti dell’iniziativa furono allontanati dal servizio. Nel mese di agosto, il dirigente OLP chiamato in causa, Bassam Abu Sharif, ha precisato che non ci fu alcun sabotaggio ma solo il fatto che una linea telefonica riservata messagli a disposizione per dare il via all’operazione, restò muta alle sue chiamate… E’ credibile il racconto dello “sciacallo”? Perché si sarebbe dovuta attuare un’operazione così rischiosa quando sarebbe bastato molto meno per salvare la vita di Moro?Il terrorista venezuelano Carlos doveva essere sentito in audizione (tramite rogatoria in Francia, dove dall’agosto 1994 era ristretto nel carcere di massima sicurezza parigino de la Santé) con l’obiettivo di ascoltare, da uno dei più grandi protagonisti ancora in vita del terrorismo internazionale, i retroscena di alcuni fatti che hanno stravolto non solo le vicende continentali, ma anche quelle italiane nel periodo 1972-1982. Tra i punti concordati con il detenuto venezuelano c’era anche quello relativo all’insieme di contatti e di relazioni tra l’OLP e le BR. Erano state fissate le date dell’audizione: 16 e 17 ottobre 2000 presso il Palazzo di Giustizia di Parigi. Poi, senza una valida spiegazione, tutto è naufragato! ... 10) Cosa impedisce, politicamente e storicamente, di fare chiarezza su un periodo ormai abbastanza lontano temporalmente parlando che ormai, a “guerra fredda” conclusa, rischia solo di essere un freno alla compiutezza del nostro sistema democratico? O forse certe logiche strategiche ed operative esistono ancora ed è per questo motivo che “conoscere il passato” potrebbe voler dire “smascherare il presente”?La risposta è ampia e complessa. Provando a dare solo dei cenni, dobbiamo tener presente che, ancora oggi, settori della sinistra italiana non sono ancora pronti ad ammettere gravi colpe del passato, come qualche parte del centro e della destra (che ama ancora servirsi di spettri dell’armadio altrui) vuole ancora tener vive, per servirsene all’occorrenza, le accuse sui trascorsi terroristici dell’avversario politico. Al tutto va aggiunta l’immaturità e/o qualunquistica indifferenza di molti strati della nostra società nei riguardi della verità sul passato, con il risultato scontato non solo di rimanere orfani della “memoria “ storica del Paese, ma anche e soprattutto di conservare il presente e il futuro in stato di continua vulnerabilità per il ritorno di errori e di devianze già appalesatisi, cogliendoci quasi sempre di “colpevole” sorpresa ... Per quanto mi riguarda, io continuerò a battermi per sensibilizzare gli ambiti competenti onde giungere quanto prima possibile ad una “memoria condivisa”, ben sapendo che ciò sarà fattibile se ci sarà la volontà di “valorizzare” l’enorme e preziosa quantità di documenti giacenti negli archivi parlamentari ed ivi depositati dalla disciolta Commissione Stragi. Se tali passi saranno fatti, si sarà in grado di dare vita anche a contromisure normative, amministrative, organizzative, sociali e politiche idonee a non farsi “sorprendere” in futuro da lutti, da tragedie e da vulnus istituzionali. Se non si fa nulla o si fa solo finta di farlo o di volerlo fare (nonostante le “giornate della memoria” del 9 maggio di ogni anno), saremo un grande popolo con una grande storia ed una grande cultura, ma non saremo uno Stato moderno ed efficiente, carico, come potremmo essere, di prestigio internazionale, di rasserenante sicurezza interna, di vera identità, di piena libertà, di autentica democrazia e di forte orgoglio nazionale. La classe politica sarà degna di questo nome se avvertirà tali esigenze e soprattutto se lotterà sempre e dovunque per onorare la ricerca della verità. Al proposito, Aldo Moro mirabilmente sentenziò: “Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra un atomo di verità ed io sarò comunque un perdente”. Se anche il semplice cittadino terrà nell’animo tale ammonimento, sarà allora come continuare a mantenere in vita lo statista pugliese, memori come dovremmo essere del pensiero di Benedetto Croce, secondo cui una grande figura non muore mai del tutto fino a quando, in noi vivi, il suo ricordo non si è dissolto.
Piazza Vettori, Firenze. Tre di notte dell’11 aprile. Una forte esplosione sveglia i residenti. Una grossa bomba carta appesa alla maniglia di una sede di Forza Italia provocando un foro di circa 20 centimetri nella porta a vetri dell'ingresso principale. I responsabili non entrano nei locali ma s limitano a rubare 4 bandiere esposte all’esterno. Non sono state lasciate scritte, né ci sarebbero al momento rivendicazioni. Sull’episodio, ovviamente, indaga la Digos che sta valutando se le telecamere presenti nella zona possano aver ripreso qualche fase dell'attentato. Al momento, in base alle prime indicazioni, la Questura sarebbe orientata a inquadrare l'atto come un gesto dimostrativo. I commenti sono stati immediati e molto duri. Denis Verdini (coordinatore) ha parlato di «gesto sciagurato che apre la campagna elettorale nel peggiore dei modi, ma chi pensa di intimidirci ha sbagliato bersaglio». Riccardo Nencini (presidente del Consiglio regionale) è sulla stessa linea. Il ministro Altero Matteoli l’ha definito un «gesto da imbecilli» mentre il Pdl fiorentino si è detto preoccupato. Sedi Forza Italia erano state prese di mira anche in passato a San Severo di Foggia (febbraio) e alla Garbatella (luglio 2007). La stessa vetrata della sede era stata danneggiata con una pietra anche nel settembre del 2008. Secondo Maurizio Lupi, responsabile organizzativo del PDL, "Le intimidazioni, anche se rappresentano il gesto isolato di qualche fanatico, sono sempre una sconfitta per la nostra democrazia. Quanto successo nella notte a Firenze non è certo il modo migliore per iniziare la campagna elettorale. Ho molto apprezzato la ferma condanna del presidente Nencini e mi auguro che le forze del centrosinistra e le istituzioni tutte si impegnino per evitare pericolose derive". Una sola considerazione. Il centro-sinistra? Scusi, Lupi, ma da cosa deduce che i responsabili siano in qualche modo elettori del PD? Il gesto di un deficiente resta il gesto di un deficiente e basta. Magari un deficiente che ha avuto dei problemi personali con uno dei responsabili della sede. Quando, e questo è auspicabile, il deficiente viene individuato può essere anche che emerga che sia un deficiente di “centro-sinistra” ma invocare adesso un intervento istituzionale della controparte politica vuol dire strumentalizzare la situazione, gridando all’emergenza terrorismo. E poi non credo sia scontato che il neonato PDL abbia nemici solo nella sinistra…
Ho incrociato Manolo Morlacchi lo scorso anno, quando seppi del suo libro “ La fuga in avanti” dall’amico Giuliano Boraso che lo definì “ progetto non allineato”. La definizione mi incuriosì molto e decisi di leggere subito il libro nel quale Manolo ha voluto raccontare, a distanza di anni, la storia dei Morlacchi, famiglia proletaria che ha attraversato, per così dire, tutte le fasi del movimento operaio dello scorso secolo. Un punto di vista che mi incuriosiva molto, quello di Manolo. Non protagonista ma nemmeno estraneo alle vicende degli anni settanta, perché bambino in grado già di comprendere e di applicare alle cose il filtro del giudizio. Con una grande capacità letteraria, alternando il racconto al documento, ha saputo raccontare le vicende dei genitori e personali senza mai cadere nella retorica o nella giustificazione fine a se stessa ma sapendo rivendicare le scelte di vita e politiche di Pierino Morlacchi ed Heidi Peusch e il loro ruolo di genitori che si sono sempre preoccupati di crescere i figli con affetto nel rispetto delle proprie scelte di vita. Il tutto nel pieno rispetto delle scelte degli altri e dei dolori provocati. Mi è sembrato un interessante punto di vista dal quale partire per analizzare le contraddizioni di una generazione, lasciando da parte le mistificazioni e le dietrologie ma mettendo in primo piano il percorso dei singoli dentro il contesto storico-sociale-politico di un’epoca con la quale non siamo ancora in grado, come nazione, di chiudere i conti. Come valuti, a 30 anni di distanza, l’esperienza di tuo padre?Non posso che guardare con enorme ammirazione alle scelte compiute da mio padre, da mia madre e da centinaia di altri compagni più di trent’anni fa. Al di là delle questioni politiche, mi piace sempre ricordare l’enorme esempio di umanità che i miei genitori sono stati capaci di trasmettere a me e tanti altri. Un esempio che ho cercato di far trasparire dalle pagine de “La fuga in avanti”, utilizzando prima di tutto episodi legati alla quotidianità, ai rapporti famigliari, alla dignità umana. Parliamo del PCI dell’inizio degli anni ’70. Perché per molti giovani rappresentò una delusione?La delusione rispetto al PCI nasce e si sviluppa ben prima degli anni ’70. Già alla fine degli anni ’50 iniziano a maturare posizioni critiche verso il partito. Critiche che nascevano da sinistra e che scaturivano del percorso riformista imboccato dal PCI prima ancora che finisse la seconda guerra mondiale. Chi contestava il PCI agli inizi degli anni ‘60 lo faceva riferendosi alla Cina di Mao, al Vietnam, a Cuba, all’Algeria e alle lotte di liberazione anticolonialiste. Guardava, insomma, a tutte le esperienze rivoluzionarie che ancora puntavano al superamento del capitalismo e non al suo miglioramento ed alla convivenza con esso. Il PCI, citando a memoria le stesse BR de “L’ape e il comunista”, aveva ormai imboccato la strada che lo trasformerà da “partito della classe operaia dentro lo stato, a partito dello stato dentro la classe operaia”. Da una di queste fratture nacque nel quartiere Giambellino di Milano il gruppo “Luglio ‘60”. Fu in questo gruppo che condussero la loro militanza alcuni compagni che in seguito aderirono alle Brigate Rosse, tra essi mio padre. E’ ormai notorio che una componente significativa delle prime BR proveniva proprio dalle fila del partito comunista italiano. Credo si possa affermare in modo molto chiaro che la principale ragione della delusione dei giovani verso il PCI fu la sua scelta riformista e l’abbandono di una strategia rivoluzionaria. In occasione del funerale di tuo padre nell’orazione funebre si legge, a proposito dei diversi percorsi dei militanti rivoluzionari, “alcuni hanno barattato la loro dignità con le briciole che la borghesia lascia cadere a terra dalla tavola sempre più imbandita dello sfruttamento, della violenza e della guerra”. Il baratto è stato più un segno di debolezza personale, di forza dell’avversario o di sconfitta definitiva? E, soprattutto, quanto hanno inciso quei baratti nella lettura di quegli anni?Il “baratto” a cui si riferisce l’orazione funebre, se vogliamo, è ancora più drastico e radicale. Non si collega semplicemente al tradimento o alla dissociazione di coloro che aderirono all’esperienza della lotta armata. E’ all’intera classe operaia che si rivolge l’accusa. Non vi è mai stata nella tradizione a cui mi riferisco e negli insegnamenti ricevuti alcuni inclinazione ecumenica verso “la classe”. Citando Marx, “il proletariato è rivoluzionario o non è nulla”. Certo di mezzo ci sono anche i percorsi dei militanti rivoluzionari. E forse il loro baratto è anche frutto di debolezza, paura, sconfitta personale e collettiva. Ma non serve a comprendere e descrivere quegli anni. Diversa cosa sono le apologie della sconfitta che hanno caratterizzato i lavori di ricostruzione compiuti dagli ex militanti, poi pentiti o dissociati. In quel caso ci troviamo nel campo di coloro che per ricostruirsi una verginità sociale hanno dovuto, per l’appunto, barattare la loro dignità raccontando una storia dettata da altri. Certo, questo tipo di ricostruzione ha trovato una vasta platea anche grazie a tutto il supporto massmediatico garantito. Ma non credo che, nel lungo periodo, questi lavori possano avere alcuna funzione, né politica, né storica, né sociale. Chiudi il libro con un episodio emblematico che, sebbene non sarà stato unico, nessuno ha mai avuto il coraggio di mettere nero su bianco. Nel 2003, al funerale di tua madre, su un muro trovaste scritto: “La rivoluzione è un fiore che non muore. Ciao Heidi” e negli occhi dei compagni presenti ti è sembrato di aver scorto una scintilla più che mai viva, un sogno rivoluzionario ancora non sfumato per il quale è necessario ancora lottare. Cosa vuol dire, secondo te, oggi essere rivoluzionari e quali sono gli strumenti per la lotta?Essere rivoluzionari, oggi come ieri, significa una sola e semplice cosa: combattere per il superamento del capitalismo. E’ il sistema che si basa sulla proprietà privata dei mezzi di produzione a generare le ingiustizie che ogni giorno urlano da ogni angolo del mondo. E oggi è giusto e necessario essere al fianco di coloro che ad ogni latitudine resistono agli attacchi dell’imperialismo. All’inizio della loro storia, le Br tenevano addirittura comizi pubblici e tu racconti di quando Curcio parlava in una piazza di Milano presidiata da compagni amati. La polizia era presente, ma per evitare che si generassero situazioni pericolose, restava a debita distanza. Non pensi che questa conoscenza possa aver permesso agli investigatori di continuare a “tracciare” il percorso dell’Organizzazione senza, tuttavia, dover per forza intervenire in maniera preventiva?Certo, può succedere che talvolta le forze dell’ordine utilizzino questa strategia. Trovato un filo scoperto cercano di risalire fino al bandolo della matassa. Nel caso dell’esempio da te citato direi che questo rischio non venne corso anche perché ci trovavamo in una fase del tutto embrionale della lotta armata. I primi militanti a cadere furono il prodotto di uno dei rarissimi infiltrati, Pisetta. Fu lui, come noto, che contribuì peraltro ad accelerare la scelta della definitiva clandestinità e la ristrutturazione dell’organizzazione in fronti e colonne. Un luogo comune relativo alla storia delle BR, riguarda le diverse generazioni di brigatisti che sono stati ai vertici dell'Organizzazione. In genere si sottolinea come all'arresto di Curcio e Franceschini si sia assistito ad una svolta militaristica voluta da Moretti. Questo per sottintendere la nascita di una nuova logica, poco conforme alla precedente storia delle BR. Cosa ne pensi?Personalmente è una tesi a cui non credo. Le svolte all’interno delle BR ci furono, ma furono il prodotto di una discussione politica corale che includeva anche il punto di vista dei militanti che si trovavano in prigione. Anzi, direi che i militanti imprigionati furono sempre assai ascoltati da chi continuava a combattere fuori. La tesi delle BR militariste mira a separare le “pecore bianche da quelle nere”, per ragioni che sono tutte politiche. Le pecore bianche sono le prime BR che usavano la violenza come moderni Robin Hood. Le pecore nere sono le seconde BR; quelle violente, assassine, quelle di Moro per intenderci. E’ un tipo di lettura a cui mi sottraggo e a cui non ho mai dato alcun credito. Vi fu senza dubbio un passaggio strategico che produsse un nuovo livello di scontro. Ma tale passaggio fu il prodotto non delle soggettività che si trovavano in quel momento in una posizione di comando, bensì di un percorso politico condiviso da tutta l’organizzazione. Nel libro racconti il primo arresto di tuo padre in Svizzera, quando fu costruita una montatura tra Carabinieri e SID dovuta al fatto che sarebbe stato più difficile per l’Italia chiedere l’estradazione per un “prigioniero politico”. E’ possibile, secondo te, che le leggi siano state letteralmente calpestate in altre occasioni? Perché i rivoluzionari facevano molta paura o perché non si avevano strumenti efficaci per una soppressione del fenomeno all’interno delle leggi?Non vorrei apparire dogmatico e quindi utilizzo una contro domanda a proposito di un fatto recente. E’ possibile parlare di leggi dopo una sentenza vergognosa come quella emessa dal tribunale di Genova a proposito dei fatti della scuola Diaz e della caserma Bolzaneto? E’ del tutto evidente che il concetto di legge è solo una delle tanti variabili attraverso le quali si esercita il potere della borghesia. Personalmente non trovo nulla di strano, né mi inalbero se non per ragioni di prassi politica, di fronte a sentenze come quella su Genova 2001, come quella sull’assassinio di Carlo Giuliani, sulla reintroduzione mascherata della tortura e della pena di morte nelle nostre carceri avvenuta alla fine degli anni ’70 ecc. Ogni volta che il potere avverte una minaccia provenire da un movimento, da una contraddizione, da una tensione sociale o calpesta le leggi esistenti o ne crea di nuove a suo uso e consumo. In questo senso è evidente che i rivoluzionari degli anni ’70 facevano moltissima paura. Il fatto di essere il figlio di uno dei fondatori delle Br, ti ha mai creato problemi personali nello studio, sul lavoro o nella vita privata?No. Al contrario è sempre stato un vantaggio. Ho constatato personalmente che la storia della mia famiglia mi ha quasi sempre garantito un rispetto di fondo dalle persone, a prescindere dalle loro convinzioni politiche. Se i parenti delle vittime di quegli anni reclamano, da un lato, il rispetto del proprio dolore e dall’altro il silenzio degli ex che non dovrebbero ergersi a maestri pubblicando libri, rilasciando interviste quale pensi debba essere la richiesta, oggi, degli ex brigatisti e dei loro parenti? Nessuna. Non si capisce a quale titolo e su quale argomento possa essere estesa una richiesta e per quale ragione le istituzioni dovrebbero mostrarsi disponibili. Sono peraltro proprio gli ex brigatisti irriducibili, fuori e dentro il carcere, a non richiedere alcunché allo Stato. Perché l’Italia è l’unico Paese nel quale a distanza di 40 anni ancora non si riusciti a voltare pagina? Quale è la tua soluzione per arrivare ad una verità storica che permetta a tutti di assumersi le proprie responsabilità e liberare i troppi fantasmi del passato?Analizzare liberamente e fino in fondo quanto accaduto negli anni ’70 e ancora di più nei decenni precedenti significherebbe mettere in discussione l’intero impianto su cui si regge la nostra repubblica. Ogni lettura diventa così inevitabilmente una lettura interessata che ha ben poche affinità con la “verità storica”. Sollevare misteri e analisi dietrologiche permette di fomentare il dibattito politico e di trascinarlo sul terreno della pura speculazione. Il caso Moro è emblematico in tal senso. A proposito del caso Moro. Nel '78 tuo padre si trovava in una parentesi di libertà ed era rientrato al Giambellino. Nel libro racconti che aveva trovato una realtà diversa (altro termine). Come valutò il 16 marzo il notevole salto di qualità dell'Organizzazione? Azzardato? Necessario? Inevitabile?Poco prima della sua morte parlai con mio padre del 16 marzo 1978 e di tutto quello che seguì a quella data. Mi ribadì con forza che sia lui, sia altri compagni di Milano, erano contrari a quell’iniziativa e, di riflesso, anche alla scelta finale dell’esecuzione. Riteneva che la dirompenza di Moro vivo sarebbe senza dubbio stata maggiore del Moro morto. Mio padre pensava che, dopo la prima ondata rivoluzionaria dagli inizi degli anni ’60 fino alla metà dei ‘70, sarebbe stato necessario tirare un respiro ed attendere l’evoluzione delle contraddizioni aperte in quegli anni di lotta. E questo prima che la repressione iniziasse a fare la differenza. In sintesi, pensava che la cosiddetta “ritirata strategica” lanciata in seguito come parola d’ordine dalle BR avrebbe sortito gli effetti attesi se fosse stata proposta qualche anno prima. Quali erano le aspettative dei militanti in libertà riguardo "l'Operazione Fritz"? Posso supporre che le aspettative fossero enormi. D’altronde è innegabile che, al di là di ogni dietrologia, il risultato scaturito da quella campagna fosse gigantesco. Anzi, credo proprio che tutte le inutili dietrologie di questi decenni nascondano in parte anche la rabbia di chi non vuole ammettere un dato inequivocabile: un gruppo di operai, di proletari organizzati, riusciva addirittura a rapire il presidente del più importante partito politico italiano. Il messaggio, anche da un punto di vista propagandistico, era fortissimo. A trent'anni di distanza ci si scontra ancora sulla "polis o pietas", se in nome della "ragion di Stato" fosse giusto trasgredire le leggi pur di salvare una vita. Cosa ne pensi? Lo Stato italiano trasgredisce le leggi decine di volte ogni giorno. Trasgredisce ad esempio da 60 anni la sua legge fondamentale, la Costituzione. Credo proprio che la questione della “ragion di Stato” sia mal posta. Le ragioni per le quali si decise di non liberare i prigionieri delle Brigate Rosse furono tutte politiche e nulla avevano a che fare con ragionamenti etici. Credi che la gestione del sequestro Moro sarebbe stata diversa se fosse stata condotta da altri brigatisti?Assolutamente no. Ripeto: la storia delle BR è anche fatta di salti e di passaggi strategici. Ma questi passaggi furono sempre il prodotto di un confronto collettivo e aperto. Cosa ha significato l’uccisione di Moro per il futuro dell’Organizzazione?Si parla spesso degli operai in piazza il 16 marzo del 1978 per attaccare le BR e i loro piani “eversivi”. In realtà, dopo il sequestro Moro, la popolarità dell’organizzazione era alle stelle anche e soprattutto nel corpo operaio. Le richieste di adesione fioccavano e forse non sempre la quantità si sposava con la qualità necessaria ad un’organizzazione clandestina. E’ comunque innegabile che la campagna di primavera e, in specifico, il sequestro Moro, rappresentarono una tappa decisiva nella storia dell’organizzazione. Le BR attaccavano i vertici del potere e il potere rispondeva rinunciando alla salvezza di un suo uomo. Da quel momento in avanti il livello dello scontro non sarebbe più stato lo stesso. E infatti non fu più lo stesso, nel bene e nel male.
Chi è Manolo MorlacchiNasce nel ‘70 e ha sempre risieduto a Milano. Si è laureato in Storia presso la facoltà di lettere e filosofia della Statale di Milano nel 1997 con una tesi dal titolo "Politica e ideologia nell'Italia degli anni '70. Il caso delle BR". Studente lavoratore, deve ben presto abbandonare qualsiasi velleità di insegnamento o di dottorato. A fine 2008, ha pubblicato un racconto sul Manifesto dal titolo "I topi di San Vittore" che, tratto da fonti orali, racconta una giornata tipo nello storico carcere milanese. Attualmente lavora in una multinazionale dell'outsourcing cartaceo (archiviazione industriale per conto terzi), dove si occupa di logistica.
Estratto della presentazione di "La fuga in avanti" alla Casa del Popolo di Lodi (18 dicembre 2007)
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