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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Ho iniziato a conoscere Giacomo Pacini tramite i commenti sul sito. Grazie a FaceBook ho potuto scoprire più a fondo ilsuo modo di lavorare e le sue competenze. Quando l’amico Paolo Cucchiarelli mi ha preannunciato l’uscita di un lavoro sull’Ufficio Affari Riservati mi chiesi subito chi fosse stato così “matto” da caricarsi l’onere di scavare in quello che per me era un grosso buco documentale su uno degli apparati più potenti e misteriosi (forse il più potente e perciò misterioso) della nostra Repubblica.
Quando ho saputo che l’autore era Giacomo ho avuto la certezza che si dovesse trattare di un lavoro ineccepibile e la curiosità di leggerlo è stata immediata. Un testo completo (per quanto si possa apprendere su simili strutture), onesto, rigoroso. Un lavoro che non ti aspetti da un giovanissimo come Giacomo ma che, evidentemente, storici più maturi e “contemporanei” alla struttura non hanno avuto il coraggio o le competenze per scriverlo.

Lo consiglio a tutti perché pur non essendo un romanzo la sua lettura è piacevole, la struttura è ben articolata tra l’uso delle fonti e l’analisi, l’indice del lavoro è chiaro e consente di spostarsi rapidamente da un argomento all’altro. In questo può essere assimilato più ad un manuale che ad un saggio storico.
Non potevo esimermi dal porre a Giacomo alcune questioni. Come al solito mi auguro di aver interpretato anche le domande dei lettori ai quali resta, come sempre, la possibilità di proporre nuove domande e riflessioni.

Giacomo Pacini. Ricercatore Storia contemporanea, laureato presso l’università di Pisa, si occupa di storia dell’Italia Repubblicana con particolare riferimento alle vicende degli anni settanta.
Ha svolto ricerche sulle violenze contro i civili durante la seconda guerra mondiale.
Tra le sue pubblicazioni
- “Le origini della operazione Stay Behind (1943-1956)”, pubblicato sulla rivista “Contemporanea”, Il Mulino, n. 4/2007.
- “Le organizzazione paramilitari segrete nell’Italia Repubblicana”, Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2008.


Tra i tanti argomenti che interessano la storia d’Italia, mai erano state dedicate delle pagine ad un apparato come l’Ufficio Affari Riservati. Secondo te, come mai?

Se è vero che fino al 1996, quando Aldo Giannuli rinvenne il noto archivio di via Appia, la documentazione era molto esile (e, spesso, di scarsa attendibilità), è in effetti sorprendente la poca attenzione che nel corso degli anni vi è stata alle vicende dell’Ufficio Affari Riservati (Uar). Eppure stiamo parlando di un organismo che dal 1948 al 1974 è stato il vertice della polizia politica italiana.
Tuttavia, il fatto che se ne sia parlato cosi poco può anche voler dire che gli uomini dell’Uar hanno saputo fare molto bene il loro lavoro di “spioni”.
In una vecchia intervista Federico Umberto D’Amato (che dell’Uar è stato il più qualificato dirigente) disse che uno spione degno di questo nome deve tenere sempre un piede nella legalità e tre fuori, ma non deve mai farsi beccare, come invece era accaduto a praticamente tutti i vertici dei servizi segreti militari.
Ecco, diciamo che l’Uar era composto da veri e propri spioni, da “sbirri” di professione che, sono sempre parole di D’Amato, “sapevano di diritto e di investigazione”, a differenza di quanto avveniva nel Sid (il servizio segreto militare) dove poteva capitare che a doversi occupare di investigazioni politiche fossero militari che provenivano dal genio, ammiragli laureati in ingegneria navale o pluridecorati generali che magari conoscevano alla perfezione le strategie belliche, ma che non avevano la minima idea di cosa fosse una indagine informativa di natura politica. Con risultati spesso disastrosi (vedi i casi Giannettini, Pozzan ecc. ecc.). Mentre gli uomini dell’Uar erano “professionisti” del settore e, appunto, non si facevano mai “beccare” (o quasi).
Per fare un esempio, se i legami e le complicità che, negli sessanta/settanta, vi furono fra alcune parti dell’estremismo di destra ed il Sid sono ormai documentati, prove documentali (e sottolineo documentali) di una conclamata collusione tra l’Uar ed il neofascismo non sono mai state trovate. Emblematico il caso del fondatore di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie; di un suo presunto legame col ministero dell’Interno si è parlato numerose volte (perfino un ex funzionario dell’Uar ha sostenuto che Delle Chiaie aveva contatti col Viminale), ma non è mai emerso un documento capace di provarlo con certezza.


Nel libro descrivi con grande accuratezza documentale la storia dell’Ufficio Affari Riservati sin dalle sue origini. Quale è stato il suo ruolo nel tempo e, se è cambiato, secondo te per quale motivo?

L’Uar nacque nel 1948 sulle ceneri della “vecchia” Divisione Affari Generali e Riservati che operava sotto il fascismo ed il suo compito essenziale era quello di coordinare il lavoro degli Uffici Politici delle questure. A fine anni cinquanta, tuttavia, quando al vertice dell’Ufficio giunse un nucleo di funzionari provenienti dalla questura di Trieste (chiamati dall’allora ministro dell’Interno Tambroni e tra i quali vi era una figura molto importante per la storia degli apparati di polizia, Walter Beneforti), l’Uar subì un profondo mutamento, sganciandosi completamente dalle questure e diventando una vera e propria polizia parallela al diretto ed esclusivo servizio del Viminale, indipendente rispetto a qualunque altro apparato informativo allora esistente in Italia.
La struttura operativa creata dai “triestini” rimase sostanzialmente immutata anche dopo il loro allontanamento dagli Affari Riservati.
A fine anni sessanta, così, l’Uar era divenuto una sorta di organizzazione piramidale con D’Amato al vertice e numerose “squadre periferiche” attive in varie città italiane, composte da sottufficiali di pubblica sicurezza (autonomi dalle questure, visto che il loro quartier generale era situato in anonimi uffici privati) che gestivano tutti gli informatori disseminati all’interno di partiti politici, quotidiani, sindacati o movimenti extraparlamentari. I componenti dell’Uar, peraltro, avevano tutti la qualifica di ufficiale di Polizia Giudiziaria, ma potevano anche non informare la magistratura qualora venissero in possesso di notizie inerenti un reato, muovendosi come agenti di un vero e proprio servizio di sicurezza, cosa che, però, l’Uar (da un punto di vista legale) non era.

Federico Umberto D’Amato è stato un personaggio molto potente che ha acquistato un ruolo importante nel 1963 (dal 1966 è diventato il capo della struttura). Nel 1963 c’è stato il primo governo Moro con l’apertura ai socialisti e nel 1964 il tentativo di golpe De Lorenzo. Che ruolo ha avuto l’Ufficio Affari Riservati, ed in particolare D’Amato, in questa determinante fase storica?

Ufficialmente nessun ruolo. In quegli anni, infatti, l’Uar, almeno stando alla documentazione di cui disponiamo, visse una sorta di fase di transizione, mentre un rinnovato “protagonismo” in campo spionistico lo riacquisì solo nella seconda metà degli anni sessanta grazie appunto ad una figura come Federico Umberto D’Amato, il quale seppe sfruttare con grande abilità le conseguenze della grave crisi in cui precipitò il Sifar (dal 1965 Sid) dopo lo scoppio del noto scandalo delle schedature illecite di migliaia di italiani e la rivelazione del cosiddetto Piano Solo. Coi servizi segreti militari gravemente compromessi agli occhi della opinione pubblica (e con gran parte della stampa che cominciò a parlare apertamente del Sid come di una struttura “deviata”, se non perfino composta da golpisti), D’Amato riuscì a tessere con grande abilità la sua tela, ridando all’Uar un ruolo da protagonista ed acquisendo un potere che mai nessun dirigente degli Affari Riservati aveva raggiunto.
D’Amato, tuttavia, fu ufficialmente a capo dell’Uar solo per un breve periodo a cavallo fra 1971 e 1972. Infatti, pur essendo fin dagli anni sessanta la figura preminente dei servizi informativi del Viminale egli preferì mantenere sempre un ruolo defilato, tenere la sua figura poco esposta, lasciando la direzione dell’Uar in mano ad altri funzionari (i vari Lutri, Catenacci, Vigevano) che, di fatto, erano alle sue dipendenze. Fu anche grazie a questa sua sorta di basso profilo che, negli anni settanta, riuscì a rimanere sostanzialmente immune da inchieste giudiziarie o da campagne giornalistiche ostili (come quelle che, ad esempio, si abbatterono sugli uomini del Sid). L’unica volta che finì nel mirino della magistratura fu nel 1976, quando fu accusato di peculato nell’ambito di un filone collaterale di una più vasta indagine su intercettazioni telefoniche abusive effettuate da uomini dei servizi. L’accusa era di aver indebitamente usato, nel 1973, fondi del ministero per acquistare 180 microspie che sarebbero state utilizzate per intercettazioni mai autorizzate dall’autorità giudiziaria. L’inchiesta, tuttavia, si sgonfiò nel giro di pochissimo tempo.


Taviani in Commissione Stragi escluse che l’organizzazione dell’Ufficio Affari Riservati potesse filtrare le notizie raccolte sul territorio per trasmettere alla magistratura solo ciò che i vertici dell’apparato ritenevano opportuno. Eppure il dubbio resta. Possibile che un’organizzazione così verticistica abbia resistito alla tentazione di “gestire le informazioni” per aumentare il proprio potere?

Il dubbio è più che legittimo visto che proprio per la sua organizzazione verticistica l’Uar era certamente in grado di tenere per sè le informazioni più scottanti e riservate senza fornirle alla magistratura (per poi magari usarle ad “altri” fini).
È nota, ad esempio, la vicenda delle borse di Padova su cui mi soffermo a lungo nel libro. Già pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana, infatti, la commessa ed il titolare di una valigeria di Padova riferirono alla locale questura di aver venduto, due giorni prima della strage, delle borse simili a quelle usate per nascondere gli ordigni usati negli attentati del 12 dicembre. La questura padovana trasmise questa rilevante informazione all’Uar che però la tenne per sé, fino a quando, alcuni anni dopo, essa non riemerse quasi per caso. Ne seguì una inchiesta che tuttavia non approdò a nulla e che non coinvolse mai D’Amato (anche perché, come detto, egli, almeno ufficialmente, non era al vertice dell’Uar e a dover rispondere di quanto avvenuto fu l’allora direttore Elvio Catenacci).
Quanto a Taviani, se nel suo libro di memorie ha sostenuto di essere sicuro che mai D’Amato nascose delle prove, nella parte della sua audizione in Commissione Stragi tenutasi in seduta segreta, alla specifica domanda del Presidente Giovanni Pellegrino se, visto il modus operandi dell’Uar non vi fosse stato il rischio che gli Affari Riservati fossero in grado di nascondere le informazioni più scottanti sottraendole all’autorità giudiziaria, l’allora Senatore a vita dette questa testuale risposta: “di questo a me è giunta eco solo per quanto riguarda Milano e la Lombardia. Ed è per questo che ho sciolto l’Ufficio Affari Riservati”.

Veniamo alla strategia della tensione. Nel libro parli di infiltrazione e di polizia parallela. Come venivano gestite queste operazioni? Vi era trasparenza o si può parlare di vera e propria clandestinità?

Studiando le attività dei servizi segreti (ed in particolare dall’Uar) negli anni della strategia della tensione è spesso difficile distinguere il confine che passava tra una legittima attività di infiltrazione in un gruppo terroristico ed una attività clandestina di provocazione.
Faccio un esempio; vi sono documenti da cui risulta che in alcuni incontri di alto livello del cosiddetto Club di Berna (come era convenzionalmente denominata una struttura “creata” da D’Amato, il cui compito era coordinare ed armonizzare il lavoro delle principali polizie europee) venne auspicata (e programmata) la necessità di una infiltrazione nei gruppi eversivi di sinistra da parte di agenti di polizia. Il che è cosa normale, se non fosse che, in certi casi, si arrivava anche ad ammettere la possibilità che l’eventuale infiltrato potesse essere uno specialista in uso di armi ed esplosivi. Circostanza che, sebbene non vi sia alcuna prova documentale, può far sorgere qualche dubbio sul labile confine che, certe volte, può esserci tra infiltrato e provocatore.
Emblematico, a suo modo, il caso della fonte Anna Bolena, al secolo Enrico Rovelli, il principale infiltrato dell'Uar tra gli anarchici milanesi del Ponte della Ghisolfa. Sarebbe stata infatti tale fonte a indirizzare le indagini sulla strage di Piazza Fontana verso la pista anarchica, nonchè a dare informazioni del tutto inventate che descrivevano Dario Fo nientemeno che come il vero capo delle Brigate Rosse. Inoltre ci sono documenti da cui risulta che sempre Anna Bolena avrebbe attribuito agli anarchici quasi tutti gli attentati dinamitardi avvenuti in Italia nel corso del 1969, anche quelli di cui è oggi certa la matrice di estrema destra. Questo dimostrerebbe che Rovelli non era un “semplice” confidente, ma un vero e proprio infiltrato responsabile dei depistaggi successivi a Piazza Fontana. Va anche detto, tuttavia, che Rovelli, davanti all'autorità giudiziaria, pur ammettendo il suo rapporto con l’Uar, ha negato di aver fornito quelle informazioni ed ha sostenuto di essere lui per primo vittima degli Affari Riservati, in quanto essi avrebbero usato il suo nome come paravanto mentre la mente dei depistaggi era solo ed esclusivamente il vertice dell'Uar.

Nella quarta di copertina c’è un interrogativo che oserei definire “decisivo” nella comprensione del ruolo dell’Ufficio Affari Riservati: “Che ruolo ha avuto l’UAR nella drammatica stagione della strategia della tensione?”. Vogliamo provare a dare una seppur sintetica risposta ai nostri lettori?

Tra i documenti inediti che riporto nel libro ve ne è uno, risalente al 1955 e la cui autenticità è certa, che sembra anticipare di quasi 15 anni gli scenari della strategia della tensione, visto che, stando a quanto si legge, all’epoca, i servizi americani stavano reclutando militanti di estrema destra da inserire in strutture segrete che avrebbero dovuto provocare artificialmente disordini sul territorio italiano per favorire l’ascesa di un governo forte. Gli stessi vertici dell’Uar si dicevano preoccupati per queste incaute azioni dei servizi angloamericani.
Venendo, tuttavia, agli anni settanta ed al possibile ruolo dell’Uar, sulla base degli elementi disponibili è plausibile ritenere che gli Affari Riservati fossero quantomeno a conoscenza di quello che sarebbe accaduto il 12 dicembre 1969.
Secondo un ex generale del Sid, tale Nicola Falde, “l’attentato di Piazza Fontana sarebbe stato organizzato dall’Uar e poi il Sid si sarebbe incaricato di coprire il tutto”, ma significative sono anche le dichiarazioni dell'ex dirigente dell'Ufficio Politico della questura di Roma, Domenico Spinella, che ha rivelato che, negli anni settanta, ogni qual volta a Roma avvenivano degli attentati, D’Amato era solito inviare all’Ufficio politico della Capitale alcuni suoi agenti di fiducia per collaborare alle indagini. Tuttavia, ha sostenuto Spinella, l’allora capo dell’Ufficio politico, Bonaventura Provenza (già funzionario dell’Uar), pur non potendo rifiutare quella collaborazione, faceva di tutto affinchè gli uomini di D’Amato non interferissero, poichè temeva che essi avrebbero potuto attuare “un qualche tentativo di depistaggio delle indagini".
Sui possibili depistaggi dell’Uar dopo Piazza Fontana, poi, rimando alle già citate vicende delle borse di Padova e della fonte Anna Bolena.
Dalla documentazione, inoltre, emerge che nel marzo 1970 due dei più noti estremisti di destra romani, i fratelli Bruno e Serafino Di Luia, all'epoca latitanti in Spagna, chiesero un contatto con gli apparati di polizia promettendo delle rivelazioni sugli attentati del 1969. Come luogo di incontro venne scelto il posto di Polizia al Passo del Brennero. Non sappiamo con certezza se questo contatto si concretizzò, anche se è provato che, pochi giorni dopo la “richiesta” dei Di Luia, un alto dirigente dell’Uar quale Silvano Russomanno si recò effettivamente al posto di polizia del Brennero. È dunque quantomai plausibile ritenere che vi sia andato per incontrare i Di Luia. Tuttavia, non esiste alcun documento che permetta di capire di cosa si discusse in quell’incontro, del quale, ovviamente, la magistratura non fu minimamente messa al corrente.
Molto interessante, infine, è un documento dell’Uar fino ad oggi inedito inerente il golpe Borghese da cui risulterebbe che dietro quella vicenda non c’era l’intento di favorire una svolta autoritaria, ma, attraverso l’uso strumentale della estrema destra, l’obiettivo era rafforzare l’assetto di potere allora esistente in Italia

Ufficio Affari Riservati e caso Moro. Sei riuscito ad individuare delle possibili connessioni tra il ruolo degli inquirenti e le attività dell’Ufficio? L’Ufficio Affari Riservati, secondo te, si è mosso più di quanto non ne sappiamo durante i 55 giorni? E se si, con quali finalità?

Nel giugno 1974 dopo la strage di Brescia, l’Uar, almeno ufficialmente, era stato sciolto ed al suo posto Taviani aveva “creato” l’Ispettorato Antiterrorismo diretto dal questore Emilio Santillo, mentre D’Amato era stato mandato a dirigere la Polizia di Frontiera. Durante la vicenda Moro, dunque, l’originario Uar non esisteva più; all’epoca, infatti, era appena stato istituito l’Ucigos che, anche in conseguenza della riforma dei servizi di fine 1977, aveva preso il posto dell’Ispettorato di Santillo.
Altro discorso è capire che ruolo ebbe D’Amato durante i 55 giorni del sequestro dello statista democristiano, in particolare all’interno dei tanto discussi Comitati di crisi creati presso il Viminale. Cossiga in Commissione Stragi sostenne che durante il caso Moro D’Amato era fuori dai giochi poiché ormai era diventato “unpolitically correct” collaborare con lui (a causa del veto posto dalle sinistre, soprattutto dai socialisti, sulla sua figura), mentre, ha aggiunto l’ex presidente della Repubblica, se ci si fosse potuti avvalere dell’apporto di una personaggio del suo calibro, le indagini avrebbero preso un’altra piega.
Tuttavia, in una missiva riservata che D’Amato inviò nel 1981 all’allora ministro dell’interno Virginio Rognoni egli scriveva di aver continuato ad occuparsi di investigazioni politiche anche dopo lo scioglimento dell’Uar ed aggiungeva che negli ultimi anni:
“non c'e' stato argomento di rilevanza di cui non sia stato chiamato ad occuparmi: dalle origini, la natura, i collegamenti internazionali del terrorismo, al caso Moro; dalla strutturazione, competenza, funzionamento dei nuovi servizi segreti, al mantenimento e sviluppo di rapporti con i servizi paralleli ed alleati”.
Dunque, è lui stesso a sostenere di essersi occupato del caso Moro; eppure ad oggi non esiste alcun documento e nessuna testimonianza capace di documentare quali compiti D’Amato svolse durante i 55 giorni del rapimento del Presidente della DC.

Nel libro si parla di collegamenti tra Federico Umberto D’Amato, Zorzi e Avanguardia Nazionale. Ma anche Sofri ha recentemente rivelato di aver ricevuto da parte di D’Amato la proposta di cooperare per l’esecuzione di un omicidio. Quindi l’Ufficio Affari Riservati aveva collegamenti non ortodossi sia a destra che a sinistra?

Non c’e’ dubbio. D’altronde, anche in questo caso è lo stesso D’Amato a confermarlo nella già citata lettera inviata a Rognoni nel luglio 1981 e che riporto all’inizio del libro. Rognoni, all’epoca, aveva chiesto a D’Amato di fornire spiegazioni sul perché si fosse iscritto alla loggia P2 (il nome di D’Amato infatti comparve nelle note liste ritrovate nel marzo 1981 a Castiglion Fibocchi negli uffici della Giole di Licio Gelli). D’Amato scrisse allora una polemica lettera di risposta, affermando di essersi incontrato con Gelli al solo ed esclusivo fine di raccogliere informazioni sulle attività della P2 e che se per questo doveva essere considerato un sodale del Venerabile allora Rognoni lo avrebbe dovuto considerare anche un fiancheggiatore del terrorismo rosso o nero, visto che, sempre a fini informativi, aveva avuto rapporti con l’estrema destra e con l’estrema sinistra.
Queste le parole testuali di D’Amato;
“Operando in modo autonomo e personale, ho preso contatto e ho sviluppato rapporti in tutti i settori e con ogni persona che ritenevo utile a tali fini. Se le mie frequentazioni dovessero essere interpretate come una scelta, io, come chiunque peraltro svolga compiti di tale genere, potrei essere considerato, caso per caso, fiancheggiatore di Autonomia Operaia o del terrorismo palestinese, agente del servizio americano o sovietico, emissario di questo o di quel partito politico (…)”
In Commissione Stragi, Andreotti (che con D’Amato ebbe pessimi rapporti) definì inquietante questo documento.
In effetti colpisce il modo sfrontato ed allusivo con il quale l’ex capo dell’Uar si rivolgeva al ministro dell’Interno in carica, “invitandolo” a smetterla di accusarlo, perché, si legge chiaramente tra le righe, altrimenti lui sarebbe stato in grado di far “tremare” il palazzo.

Un lavoro unico nella storia d’Italia e per questo motivo immagino abbia incontrato delle difficoltà nel reperimento delle fonti. Quanto è stato complicato il “puro lavoro da storico”?
Come è stato accolto il libro? Ritieni di aver, in qualche modo, svolto un lavoro scomodo?

In passato gli storici hanno avuto una forte riluttanza ad occuparsi di vicende quali servizi segreti/strategia della tensione ecc., sia perché si tratta di argomenti in cui è forte il rischio di prestarsi ad interpretazioni dietrologiche tese solo alla ricerca dello scoop a sensazione, sia perché si riteneva non fosse possibile “fare storia” su avvenimenti troppo recenti e sui quali la documentazione è scarsa e di bassa attendibilità scientifica.
Oggi, finalmente, anche fra gli storici le cose stanno cambiando e, d’altronde, ormai uno dei problemi principali è spesso proprio la sovrabbondanza di materiale e la conseguente necessità, specie allorché si maneggiano documenti dei servizi, di un rigoroso vaglio critico che consenta di separare ciò che è attendibile dalle classiche “patacche”. Quanto al rischio del sensazionalismo, io credo che dietrologia ci sia quando si parte da una idea precostituita e poi si vanno a cercare le prove che ci danno ragione. A quel punto si procede attraverso deduzioni e si elimina o sottovaluta tutto quello che, apparentemente, smentisce la nostra tesi di partenza. Per fare un esempio su un argomento che conosci molto bene; prendi il caso Moro. Se, prima ancora di guardare le carte, io mi convinco che Moro lo ha rapito la Cia, sarò poi in grado di trovare decine di elementi che apparentemente mi danno ragione, perché sistematicamente non considero o svaluto quelli che mi danno torto. Al tempo stesso se, sempre prima di guardare le stesse carte di cui sopra, sono già certo che dietro al caso Moro c’e’ il KGB, sarò a mia volta in grado di trovare altrettante evidenze che confermano la mia tesi di partenza, sempre perché andrò sistematicamente a eliminare quelle che mi danno torto.
Ecco, senza falsa modestia credo, nell’analizzare la storia dell’Uar, di non aver commesso il “classico” errore metodologico di partire dalle conclusioni e poi di andare a trovare i documenti che supportano le mie tesi di partenza.
Per questo non penso di aver scritto un libro “scomodo” e spero non venga considerato come tale. D’altronde, sebbene nel libro vi siano numerosi documenti inediti (alcuni, credo, di particolare rilievo) la mia intenzione non era quella di fare la “rivelazione sensazionale” (e ringrazio l’editore che mai mi ha chiesto, magari al fine di incentivare le vendite, una cosa simile), ma di provare a lumeggiare una parte di storia italiana che fino ad oggi aveva goduto di limitata attenzione.
Quanto all’accoglienza del libro, non mi posso lamentare, visto che, a parte qualche media che lo ha del tutto ignorato, è stato comunque ottimamente recensito da buona parte della stampa nazionale.
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Di Manlio  30/01/2011, in Attualità (1696 letture)
La sapete una cosa?
Comincio a pensare che dovrebbero essere aboliti i giorni della memoria...
Questo in generale, ma per quanto riguarda il nostro Paese, in particolare.

Ma vi sembra che qualcuno abbia voglia di ricordare davvero?
A furia di ricordare ci si potrebbe accorgere di una verità sotto il naso e magari incazzarsi (presente Poe, La lettera rubata?). Un esempio? Un presidente del consiglio piduista (cioè che usava le istituzioni per fare business all'ombra della legalità), un ministro della difesa ex fascista, tra i più facinorosi, di quel fascismo degli anni '70 che ancora si rifaceva a J. Borghese, alle teste vuote della XMAS, e alla repubblica(?) di Salò.
Per non parlare delle strumentalizzazioni, delle parole non credibili di chi utilizza queste occasioni come vetrine personali.

Vale davvero la pena ricordare? A quanto pare non serve o non basta. E l'ultima intervista di Licio Gelli parrebbe confermare che le cose non cambieranno mai (>leggi<)

Secondo me sarebbe molto meglio se gli italiani iniziassero a leggere. Ma è molto più facile fare una finta manifestazione che impegnarsi davvero a cambiare le cose.

Buoni ricordi a tutti
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