Ieri sera è andata in onda una puntata speciale della trasmissione Ballarò, condotta da Giovanni Floris, di approfondimento sugli anni di piombo centrata sul bel libro di Mario Calabresi "Spingendo la notte più in la". Il libro ha dato spunto a Floris ed ai suoi ospiti di parlare delle vittime degli anni di piombo e del loro dolore ancora profondo e aperto. In studio, infatti, Mario Calabresi (figlio del commissario Luigi Calabresi, ucciso nel '72), Benedetta Tobagi (figlia del giornalista Walter Tobagi, ucciso nel '80 anche se non dalle BR, come erroneamente citato da Floris ma dalla Brigata 28 marzo) e Marco Alessandrini (figlio del giudice Emilio Alessandrini ucciso nel '79).
Il comune denominatore delle storie dei tre ospiti è stato, certamente, il senso di inutilità della morte dei rispettivi genitori e la sensazione di abbandono che lo stato . I tre personaggi, pur diversi nelle loro professioni, erano accomunati dalla grande passione per il proprio lavoro, erano delle persone con un alto senso della famiglia e dei valori e hanno lasciato ai loro figli un'eredità di pace e non di vendetta o caccia all'ergastolano.
Luigi Calabresi
Emilio Alessandrini
Walter Tobagi
Tutti e tre hanno sottolineato il diverso comportamento che lo Stato ha sempre avuto con gli ex militanti di organizzazioni di lotta armata rispetto alle loro vittime. Pur convenendo che quando una persona ha esaurito il suo debito con la giustizia secondo le vigenti leggi possa avere il diritto di rifarsi una vita non è apparso altrettanto giusto ai tre ospiti, il tentativo di rimozione della memoria che sembra spesso contraddistinguere i loro interventi.
E' giusto invitare l'ex fondatore di Prima Linea Sergio Segio, ad esempio, a dibattiti televisivi e ad interviste sui quotidiani? Naturalmente si. E' giusto che Sergio Segio scriva dei libri sugli anni di piombo? Naturalmente si. E' giusto indicare Sergio Segio come "collaboratore del gruppo Abele"? Probabilmente no. Meglio sarebbe ricordarlo come "fondatore del gruppo armato Prima Linea, assassino del giudice Alessandrini, ora collaboratore del gruppo Abele". Tutti devono avere una seconda chance, ma a nessuno deve essere concesso di cancellare il proprio passato reinventandosi una verginità "per il miglior offerente".
La domanda che pongo ai lettori è semplice: come rendere equilibrato il bisogno di rispetto di chi ha perso un familiare con la giusta volontà da parte di un ex militante della lotta armata di voler ammettere degli errori (e una sconfitta) e voltar pagina diventando un elemento positivo per la società?
L'interrogativo più interessante, tuttavia, l'ha posto, secondo me, Benedetta Tobagi. Nella commissione Stragi, durata la bellezza di 12 anni, sono confluite 1.500.000 di carte. Sarebbe interessante per il Paese che fossero rese note, che la loro pubblicazione possa essere utile a chi voglia cercare delle altre risposte. In fin dei conti sono già 7 anni che la commissione ha chiuso i lavori. Bene.
Ho recentemente parlato con la Dott.ssa Emilia Campochiaro, responsabile dell'Archivio Storico del Senato che mi ha assicurato che il prossimo 16 marzo saranno rese disponibili online tutti i documenti relativi alla vicenda del rapimento e l'assassinio di Aldo Moro (e degli uomini della scorta). Si dice che il lavoro di archiviazione, però, non sarebbe stato compiuto da dipendenti interni del Senato, nonostante le recenti 10 assunzioni di professionisti specializzati in archivistica, ma da consulenti esterni. Già, consulenti esterni. Che troppo spesso hanno una stretta assonanza con "nomine di partito".
Io vorrei sapere se tutto ciò corrisponde al vero o se è solo una voce maliziosa messa in giro per alimentare nuove strumentalizzazioni. Se fosse vero, e sottolineo se, sarebbe lecito porci due domande: 1) come sono stati nominati tali consulenti? C'è stato un concorso per meriti? E, ovviamente, chi sono? 2) perchè aggravare i cittadini di ulteriori costi quando le professionalità interne non mancavano e, oltretutto, sarebbero state garanti di maggiore autonomia?
Un modo alternativo quello di ricordare Aldo Moro a trent'anni dalla sua scomparsa. Una specie di “contro-trentennale” quello di Maria Fida Moro, figlia maggiore del Presidente della DC rapito e ucciso dalle BR il 16 marzo 1978 che assieme al figlio Luca ha avuto l’idea di musicare in blues le parole pronunciate da Aldo Moro durante interventi pubblici. “Se ci fosse luce” è il titolo del brano. Il nipote Luca ha voluto aggiungere alle parole del nonno le sue: "Vorrei che tu fossi ricordato vivo perché la forza del tuo pensiero a distanza di 30 lunghissimi anni possa suonare in questo blues e cadere come una lama sulla coscienza di chi ancora cerca di ucciderti".
La figlia di Moro ha detto ai giornalisti: “Mi batterò sempre perché Aldo Moro non sia ricordato come un oggetto in un portabagagli. È ingiusto. Era un padre e un uomo. A noi preme la verità e il ricordo della sua umanità e della sua bontà”. E ha anche aggiunto che ha inteso fare questo per “affermare il primato della verità, sul piano umano, del caso Moro”
L'iniziativa è stata presentata lunedi 28 gennaio presso la sede dei Radicali in via di Torre Argentina alla presenza di tre ex militanti della lotta armata: Sergio D'Elia (oggi deputato dei Radicali), Giusva Fioravanti (oggi in affidamento ai servizi sociali nell'associazione "Nessuno tocchi Caino" e Valerio Morucci, uno dei protagonisti del rapimento d Aldo Moro, presente in via Fani e telefonista-postino delle BR nel corso dei 55 giorni di prigionia del Presidente della DC.
Il desiderio della figlia dello statista è che l'anniversario della strage possa diventare l'occasione per ricordare l'umanità dello statista, "il padre, il nonno, non c'interessano i misteri. Spesso invece è stato ridotto ad un oggetto nel portabagagli di una Renault".
Dunque, alla figlia maggiore di Aldo Moro non interessano i misteri. Vuol dire che non ci sono misteri tali da consentire una rilettura della vicenda? Oppure che ormai dopo essersi battuta invano per trent'anni per la verità, avendo constatato l'impossibilità di perseguirla in tempi brevi, è diventato più importante restituire dignità alla figura del padre attraverso le sue qualità di uomo? O è forse un modo di proporre la chiusura di quegli anni attraverso il recupero dell'umanità dei protagonisti piuttosto che partendo dalle responsabilità penali?
Intellettuali e lotta armata. Ovvero gli intellettuali hanno avuto un ruolo nelle nascita e nello sviluppo della lotta armata in Italia negli anni ’70? E’ quello che si chiedono in molti e, fra i tanti, Giovanni Fasanella nel suo Blog che dedica all’argomento il sondaggio “Terrorismo di sinistra. Gli intellettuali hanno delle responsabilità?”
L’idea di fondo, mi sembra, sia quella di identificare in una larga parte di Intellighenzia coloro i quali hanno favorito, con ideologie e proclami, alla nascita e allo sviluppo della cultura delle armi come strumento per abbattere il sistema.
In questo senso i giovani che avevano intrapreso un percorso di lotta ai limiti della legalità trovarono una autorevole sponda per pensare che i tempi fossero maturi per l’innalzamento del livello dello scontro. Fatto ciò, alcuni intellettuali presero le distanze, altri osservarono compiaciuti da lontano, altri continuarono ad alimentare, con i propri contributi, le fila di chi pensava di mettere in pratica le analisi teoriche. Altri, molto probabilmente, stettero per lungo tempo con un piede dentro e l’altro pure alle organizzazioni di lotta armata.
Gli intellettuali, in sostanza, contribuirono a creare l’acqua dove “nuotavano i pesci” e, talvolta, sguazzavano nello stagno assieme ad essi.
Gli stessi intellettuali avendola successivamente fatta franca ed essendo arrivati ad occupare posti importanti della società, avrebbero “blindato” la verità su quegli anni e sulle collusioni lotta armata/classe intellettuale proprio per evitare che emergessero possibili contiguità che, indipendentemente dai reati, ne avrebbero compromesso l’immagine e le possibilità di carriera di fronte all’opinione pubblica.
Sarebbe questo il quadro, in poche parole, del legame tra intellettuali e lotta armata negli anni ’70?
Può anche essere, non ho elementi per escluderlo.
Però penso che la generalizzazione possa portare ulteriore confusione e far allontanare la ricerca della verità. Come ritenere che la responsabilità degli episodi di violenza negli stadi siano da ripartire tra ultras e commentatori delle trasmissioni sportive che, una volta individuato alla moviola l'errore dell'arbitro, gridano alla malafede ed al campionato falsato. Gli ultras, probabilmente, sono già sufficientemente malati di loro per "alzare il livello di scontro" senza dover attendere l'analisi della Domenica Sportiva. In sostanza, chi fa le violenze non ha bisogno del decisivo incitamento del commentatore sportivo e chi fa i commenti e litiga in TV non è in grado di spostare i comportamenti degli altri tifosi, salvo quello di cambiare canale.
Io credo che sia possibile, anzi assolutamente fondato, ritenere che vi siano stati intellettuali vicini alle organizzazioni armate sia a livello di consiglieri che di militanti effettivi. E che possano non essere stati mai individuati e che oggi ricoprono ruoli importanti alla direzione di un giornale piuttosto che come funzionari nei servizi segreti.
Credo anche però che sia importante non sparare nel mucchio. Trovare elementi concreti su singoli casi e portarli all’attenzione dell’opinione pubblica. Questo si, sarebbe utile per non rimuovere la memoria e per far capire alle generazioni successivi cosa erano quegli anni.
Ma se parliamo di un’intera classe a me viene da pensare che i più non si muovessero per ideologia quanto per moda, per “inguaribile civetteria” (come la definì Cossiga) e che molti degli appelli furono firmati senza neanche leggerne il testo, spesso perché lo aveva già fatto qualche collega.
Si badi. Non voglio giustificare nessuno perché, “la legge non ammette ignoranza”. Solo che a me quella classe intellettuale sembrava più che giocasse alla rivoluzione perché faceva “chic” ma, in realtà, di operai e di lotta di classe a pochi interessava realmente.
Insomma, quel tipo di intellettuali, forse fu con grande acume immortalata da Giorgio Gaber quando gli avvenimenti erano in pieno corso, con uno dei suoi più celebri pezzi “Al bar Casablanca"
”
Al bar Casablanca con una gauloise la nikon, gli occhiali e sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali blue jeans scoloriti la barba sporcata da un po’ di gelato parliamo, parliamo di rivoluzione di proletariato.
L’importante e che l’operaio prenda coscienza. Per esempio i comitati unitari di base… guarda gli operai di Pavia e di Vigevano non hanno mica permesso che la politica sindacale realizzasse i suoi obiettivi, hanno reagito, hanno preso l’iniziativa! Non è che noi dobbiamo essere la testa deli operai. Sono loro che devono fare, loro, noi…
O, se vogliamo essere più cattivi, con un'altra immagine di Pierangelo Bertoli
I poeti son dei matti che non pagano il pedaggio fanno finta di capire quando scrivono "coraggio" ma se c'è da far la guerra il poeta è giù in cantina fa l'amore con la serva e si scopa la regina.
Ci sono stati intellettuali contigui, simpatizzanti o amici dei protagonisti della lotta armata? Cosa hanno fatto? Credo che le responsabilità vadano ricercate ed attribuite ai singoli. Attribuirle ad un'intera categoria equivale a volersi nascondere non avendo il coraggio di fare i nomi
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