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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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Diciamocelo chiaramente.
La “questione Battisti” è diventata un vero e proprio assillo per il nostro Governo. E non perché garantendo la galera ad un ex terrorista si compirebbe un atto dovuto ai familiari delle vittime degli “anni di piombo”. Ce ne sarebbero di forme alternative di risarcimento sia morale che materiale per chi ha perso un proprio caro senza essersene ancora dato una ragione. E senza essersi dato una ragione neanche per il colpevole abbandono che ha subito da quelle Istituzioni che, spesso, il proprio caro era impegnato a difendere.

No. La “questione Battisti” ha radici principalmente (per non dire quasi esclusivamente) politiche. Una sorta di traguardo, di vittoria da sbandierare all’Europa per dimostrare quanto il nostro Governo sia forte e giusto.

Io una soluzione ce l’avrei. Una soluzione che potrebbe accontentare tutti ma, soprattutto, tiene conto di due aspetti che non possiamo far finta di dimenticare: la verità e l’umanità.
Battisti torni in Italia e, di fronte ad un Tribunale, si dichiari colpevole o innocente.

Nell’ipotesi in cui si dichiarasse colpevole, venga immediatamente arrestato per scontare la sua pena e faccia i nomi di tutti coloro che hanno commesso reati assieme a lui. Ciascuno di essi, però, il giorno dopo l’arresto presenterà richiesta di grazia al Presidente della Repubblica che la firmerà all’istante. Con la liberazione dei colpevoli, però, siano attivate anche forme concrete di risarcimento per i familiari delle vittime che avranno finalmente saputo la verità e potranno iniziare, seppur tardivamente, un percorso di riconciliazione con il proprio dolore.
Qualcuno dirà: “Ma Battisti è stato già processato e condannato!”. E’ vero. Ma è stato condannato grazie a leggi speciali e non ha potuto difendersi. Non sarebbe giusto azzerare il processo e rifarlo a distanza di 30 anni con l’imputato?

Nell’ipotesi in cui si dichiarasse innocente, resti libero in Italia e si apra un nuovo processo. Se al termine di questo sarà condannato, dovrà scontare la propria pena in carcere senza possibilità di grazia (tenendo conto delle leggi di oggi e non delle leggi speciali dell’epoca…). Se, viceversa, avrà ragione lui e ne dovesse uscire innocente dovrà essere lo Stato a risarcirlo materialmente. Moralmente ci dovranno invece pensare tutti quei politici dai facili slogan che hanno minacciato il Brasile di interrompere i rapporti diplomatici o di boicottare le partite di calcio.

Ma vediamoli alcuni dei proclami più recenti (quelli dei mesi scorsi sono troppi per poterli citare).

Pedica (IDV)
«Siamo pronti a nuove e clamorose forme di protesta se tra dieci giorni non ci sarà l'estradizione del terrorista pluriomicida. […] sono pronto a rifare lo sciopero della fame insieme a tutte quelle persone che ancora credono in questo principio che va ben oltre i confini di una nazione».

Un ultimatum in vero stile anni ’70. Clamorose forme di protesta? Mah, non credo che il 20 settembre, dietro al Sen. Pedica ci sarà la fila. Alla mensa della Caritas, purtroppo, ancora si.

Volontè (UDC)
«Il Brasile si macchia ancora di un atto vile e codardo. Per l'ennesima volta beffa la giustizia, umilia la storia del popolo italiano, il ricordo delle vittime, il dolore delle loro famiglie e le richieste del Governo rese a nome di tutte le forze politiche. Invitiamo con decisione l'Esecutivo a sospendere le relazioni diplomatiche con Brasilia».

Il Brasile, caro Volontè, non “beffa” la Giustizia. Cerca di applicare le sue leggi, e lo fa nelle sedi opportune. Il Tribunale Federale Supremo, se lei è un democratico, è un’Istituzione di uno Stato libero e democratico che lei deve rispettare. Inoltre se, come dice, tiene davvero al ricordo delle vittime perché non propone delle iniziative che vadano in direzione di quello che le vittime davvero vogliono, e cioè la verità?

Storace (La Destra)
«Il rinvio della decisione sull'estradizione del terrorista Battisti è un atto di infamia a cui l'Italia deve reagire con durezza. È inaccettabile che per il sangue versato, un delinquente politico non debba pagare con la galera le sue colpe».

Ok, Storace. Reagiamo con durezza. Vuole proporre il bombardamento del Brasile o la sua esclusione dai prossimi mondiali di calcio? Magari la seconda ci tornerebbe più comoda, no?
Le vorrei ricordare, visto che è lei stesso a dire che “un delinquente politico deve pagare con la galera le sue colpe”, che potrebbe davvero darsi da fare per garantire lo stesso principio ad altri tre casi, di cui troppo spesso ci si dimentica.




 





    Alessio Casimirri                   Delfo Zorzi                           Roberto Fiore


Vogliamo ricordare Alessio Casimirri (che nella sola via Fani ha fatto più vittime di tutte quelle attribuite a Battisti)? Oppure Delfo Zorzi, adesso benestante imprenditore giapponese esponente dell’organizzazione neofascista Ordine Nuovo, imputato nel processo per la strage di Brescia e che nel 2002 ha detto a Repubblica che non intende tornare in Italia per farsi processare perché ritiene inaffidabili i giudici (e quindi il nostro sistema giuridico)?
Ma come dimenticarci di Roberto Fiore, fondatore di Forza Nuova che si è candidato alle elezioni europee e che nel 2008 era addirittura candidato alla Presidenza del Consiglio? Storace certmente ricorderà che Fiore è stato condannato per banda armata in primo grado a 5 anni e in secondo a 3 e mezzo. Che ha trascorso un lungo periodo di latitanza all’estero e che infine non è andato in carcere perché è arrivata la prescrizione. Che dichiara di essere stato “attivo in senso radicale” nella destra e che “c’era anche la spinta romantica di una gioventù alla ricerca di una verità”. In definitiva, secondo Fiore “non si può criminalizzare quel periodo”. E quindi adesso “è sceso in campo” per dirci come dovrà essere l’Italia del futuro (ovviamente senza ROM e islamici).

La cosa che più mi fa male è che di fronte a questi casi io non trovo le parole ma le associazioni delle vittime, che forse le parole ce le avrebbero eccome, non le pronunciano. E questa è un’autocondanna che si porteranno dietro per sempre. Dare la colpa del proprio dolore ad una pagliuzza non potendo dire dove sia la trave…
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Ha lavorato tre anni, Stefania Limiti, per confezionare un lavoro di inchiesta che getta una nuova luce su tre vicende chiave della nostra storia contemporanea.
La sua ricerca su l'Anello, infatti, ha portato a conoscenza del grande pubblico due grandi novità:
1) l'esistenza di un servizio segreto clandestino (!) che ha agito al di fuori delle regole democratiche rispondendo ad un numero limitato di potenti della politica
2) alcune vicende chiave degli anni '70 (Kappler, Moro e Cirillo) diventano adesso più "leggibili" perchè acquisiscono un senso logico che prima della conoscenza del "Noto Servizio" non era possibile immaginare.

Le carte che dimostrano l'esistenza del Noto Servizio, si sa, sono state scoperte da Aldo Giannuli nel corso della sua collaborazione con la Procura di Brescia in relazione alla strage di piazza della Loggia (28 maggio 1974).

Ma la scelta di Stefania, giornalista professionale e tenace, è stata di non utilizzare quel materiale per evitare di sconfinare il proprio ruolo di giornalista. Ha deciso di svolgere un lavoro d'inchiesta, attingendo alle fonti pubbliche (libri, articoli, interviste) e contatti personali per  confezionare un lavoro rigoroso ma che non ha la pretesa di "dimostrare" ed "emettere sentenze". Il suo, piuttosto, è un libro denuncia, un libro che ha avuto il coraggio di inoltrarsi nella pericolosa palude delle "doppiezze" dello Stato senza farsi spaventare da pur importanti fantasmi.

Un lavoro che ha trovato anche il successo del pubblico. Non a caso. Perchè è scritto bene, non è retorico o dietrologico, lascia molte porte aperte e fa riflettere molto. Fa riflettere sul fatto che alle nostre spalle tramava un potentato di politici senza scrupoli che, pur di ottenere i propri scopi, non ha esitato nell'avvalersi di personaggi quanto meno ambigui che hanno sempre vissuto nell'ombra.

Per approfondire:
Tutto sul libro - dal sito di ChiareLettere

Presentazione del libro a Roma il 16 giugno 2009
Con Stefania Limiti: Massimo Brutti, Giancarlo De Cataldo, Giuseppe De Liitis. Modera: Sandro Provvisionato.

Intervista a TV RED

Intervista a Radio Missione Francescana


Si parla spesso di “servizi deviati” ma, nel caso dell’Anello, tutto poteva essere tranne che una struttura deviata. Cosa è stato realmente e quale era il suo ruolo?

Effettivamente, l’esistenza dell’Anello, o Noto Servizio, non ha nulla a che fare con i più noti casi di deviazione dei servizi segreti: era una struttura di ‘intelligence’ clandestina, al servizio del potere politico o, meglio, di un pezzo del potere politico dal quale prendeva ordini. Il suo ruolo era proprio quello di assicurare l’esistenza di questo potere, una missione che è perfettamente riuscita.


Perché lo Stato avrebbe dovuto dotarsi di una struttura così “atipica”? Non ce n’erano già in abbondanza da Gladio ai servizi ufficiali?

Una struttura ‘atipica’ era una garanzia di segretezza: tanto che siamo qui a parlarne a distanza di molti anni, dunque l’anonimato dei suoi membri è stato ben mantenuto. Chi poteva chiedere conto a uomini invisibili del proprio operato? Il nome di Adalberto Titta, un signore di 120 chili, ex repubblichino, di provata fede fascista, il factotum dell’Anello, non compariva in nessun elenco ufficiale, chi poteva andare a bussare alla sua porta? I servizi segreti ufficiali sarebbero stati ‘bruciati’ da tante operazioni sporche ed anche una struttura segreta come Gladio aveva una sua ufficialità, visto che è nata sulla base di accordi atlantici, anche se è stata anch’essa coinvolta in compiti operativi diversi da quelli originari - basti pensare al centro ‘Scorpione’ messo in piedi in Sicilia all’inizio degli anni 80.


Otimsky, ufficiale ebreo di origine polacca del quale si conosce solamente il nome in codice, era stato il primo "responsabile" della struttura. Durante la guerra di liberazione, Otimsky incrocia il generale Anders che diventò cittadino onorario di Ancona e Bologna per il suo impegno nella lotta per la cacciata del nazi-fascismo. Il suo collega Guidelli de "Il Resto del carlino" ha notato come Anders insignì Mino Pecorelli (partigiano a soli 16 anni) di un'alta decorazione al valore militare. Puo' essere questa conoscenza la prova che Pecorelli conoscesse l'Anello sin dalla sua fondazione, visto che in alcuni suoi articoli ha fatto riferimento al "Noto servizio"?

Certo, può essere che il generale Anders sia stato il trade-union tra questi personaggi ma questa è una matassa che spero verrà sbrogliata definitivamente in sede storica. Sappiamo bene, tuttavia, ed è quel che conta, che Mino Pecorelli conosceva bene il Noto Servizio e la sua capacità di fare affari tramite il petrolio.

Veniamo al caso Moro. Secondo Pierluigi Ravasio (l’ex gladiatore che ha tirato in ballo il colonnello Guglielmi) l’Anello seppe di via Fani mezz’ora prima tramite “Franco”, nome di copertura di un suo elemento infiltrato nelle BR. Secondo lei la struttura era comunque a conoscenza del progetto brigatista pur non sapendone di preciso le modalità operative?

Ravasio naturalmente non parla dell’Anello e quando si riferisce a ‘Franco’ non lo identifica con un membro di questa struttura: da alcune testimonianze, che riporto nel mio libro, emerge che questa ipotesi non è così lontana dal vero. Del resto, era ampiamente nota e mai spiegata la presenza in via Fani del colonnello Guglielmi che faceva parte di un comitato occulto del Sismi frequentato anche dalla compagnia dell’Anello.


L’Anello si rivolge a Cutolo per ricevere aiuto nella ricerca della prigione di Moro. Attraverso i suoi contatti con la Banda della Magliana, si arriva a via Gradoli proprio nei giorni in cui tale nome emerge nella famosa seduta spiritica di Zappolino. Ma i politici di riferimento dell’Anello, fermano le operazioni perché non sono più interessati alla salvezza di Moro. Quindi la prigione viene individuata ma l’Anello viene stoppato. E da questo punto in poi cosa succede, secondo lei?

Dopo anni di studi da parte di autorevoli storici ed osservatori, il caso Moro è ancora una galassia piena di buchi neri. Io ho solo raccolto materiale per tentare di capire cosa c’entrasse l’Anello con il caso Moro. Se, come appare con forte evidenza, Moro era in via Gradoli e gli uomini dell’Anello erano stati informati di questo, allora è chiaro che lo Stato, almeno i referenti politici del Noto Servizio, hanno evitato una felice soluzione della vicenda e da quel momento sono iniziate oscure trattative che hanno condotto alla inevitabile morte di Moro.


Secondo lei esiste una relazione tra l’informativa su via Gradoli fornita dall’Anello e l’informazione nata a seguito della seduta spiritica successivamente riferita da Romano Prodi a Umberto Cavina il 4 aprile? Sottolineando come, proprio la notte tra il 4 ed il 5 aprile (da quanto riportato nel suo libro) esiste una seria possibilità che Moro sia stato spostato da via Gradoli…

Non ho una risposta certa alla sua domanda, posso solo mettere insieme i fatti i quali ci dicono che l’Anello aveva saputo dove era tenuto prigioniero Aldo Moro, cioè via Gradoli, e che questo nome venne fatto girare con modalità anche curiose, come quelle della seduta spiritica: ma l’ipotesi di via Gradoli fu subito scartata dagli inquirenti. Tanta fretta non è stata sicuramente saggia.


Nel suo libro sono riportati una serie di riferimenti d’epoca tratti dagli articoli di Mino Pecorelli, nei quali si deduceva chiaramente come egli fosse a conoscenza delle informazioni su via Gradoli in possesso dell’Anello. E’ probabile che se sapeva Pecorelli, potessero sapere anche altri personaggi delle “strutture ufficiali”. Nessuno agì perché non fu in grado o perché la coltre che custodiva il segreto, era in grado di non far sfuggire nulla?

Nessuno può credere che la coltre era così fitta e, comunque, mi pare che ormai dopo tanti studi e riflessioni sul caso, penso in particolare all’ultimo lavoro di Peppino De Lutiis, Il Golpe di Via Fani, o al libro di Sandro Provvisionato e Ferdinando Imposimato, Doveva morire, sia consolidata l’idea che fuori dalla sua prigione potenti forze non volevano che Moro tornasse al suo impegno attivo.


Poco tempo dopo l’omicidio Moro, l’Anello intervenne con successo nella mediazione con le BR di Senzani che avevano rapito Ciro Cirillo, mediazione che riuscì e con una contropartita tutt’altro che irrisoria per lo Stato. Nel caso Cirillo il tutto fu fatto agendo su livelli nascosti e le trattative e i contatti intercorsi sarebbero restati segreti. Ma è un dato di fatto che la politica, attraverso i servizi, mediò e riuscì a liberare Cirillo il quale ha recentemente dichiarato che « Moro poteva essere salvato pagando un riscatto in denaro ». Moro, si è detto, rappresentava lo Stato e non semplici interessi di provincia. Fatte salve le ovvie differenze dimensionali con il caso Moro una trattativa segreta si era in grado di farla? O no?

Uno Stato è sempre in grado, se vuole, di condurre una trattativa, segreta o meno. Il caso Cirillo lo dimostra.


Poco dopo la liberazione di Cirillo per la cronaca, il numero uno dell’Anello Adalberto Titta, morì. Può essere che qualche altro personaggio si sia mosso autonomamente per superare lo stop ricevuto ufficialmente dall’Anello e magari sia morto poco dopo per tutelare la struttura e le sue attività?

I sospetti sulla morte di Titta sono riportati nel libro. Per il resto siamo nel campo delle ipotesi.

Quale è stato il momento più difficile di quest’indagine?

Ci sono stati tanti momenti difficili, a dire il vero, soprattutto ogni volta che pensavo che non potevo farcela a mettere insieme tanto materiale. Però, le persone che ho incontrato, anche se non hanno voluto rendere pubblico il loro nome, nella sostanza mi hanno sempre incoraggiata ad andare avanti perché, tra mezzi silenzi e qualche ammissione, mi hanno confermato che quella che stavo percorrendo era la via giusta.


Quali reazioni si aspettava dalla pubblicazione della sua inchiesta e quali aspettative, secondo lei, sono andate maggiormente deluse?

Non mi aspettavo sconcerto, né attivismo da parte della classe politica. Posso dire però che molte persone hanno seguito le presentazioni del libro, con inatteso interesse, con partecipazioni e questo mi pare che sia un segnale importante positivo.


Quale pensa che dovrebbe essere, adesso, il passo successivo? E da chi dovrebbe essere compiuto?

Ognuno dovrebbe seguire la sua responsabilità: ad esempio, il Comitato parlamentare per i servizi segreti, il Copasir, ha chiesto alla procura di Brescia di poter visionare le carte dell’inchiesta sull’Anello. Ecco, intanto spero che qualcosa accada e non finisca tutto in una bolla di sapone, visto che Franco Frattini, quando era presidente di questo organismo, fece una analoga richiesta alla Procura ma tutto svanì nel nulla.


I primi documenti sul “Noto Servizio” sono venuti alla luce grazie ad un consulente della Procura di Brescia, lo storico Aldo Giannuli, che ha anche portato avanti delle indagini e ha fatto delle relazioni per il processo della strage di “piazza della Loggia”. Poi il suo collega Paolo Cucchiarelli ha svolto una sua inchiesta che ha dato luogo agli articoli su “Diario” nel 2003. Per realizzare il suo libro, ha collaborato con Giannuli e Cucchiarelli? Ha utilizzato il loro materiale o si è avvalsa prevalentemente di documenti pubblici?

Lo storico Aldo Giannuli ha avuto l’intelligenza di scoprire le carte: da lì è partito tutto ma la mia inchiesta giornalistica è nata solo quando un signore che aveva fatto parte dell’Anello ha cercato Paolo Cucchiarelli, autore degli unici due articoli esistenti sul Noto Servizio. Paolo mi ha ‘ceduto’ il lavoro, come racconto nel libro. Volevo coinvolgere il professor Giannuli con un’ intervista ad hoc ma, purtroppo, ho dovuto rinunciare all’idea perché ho saputo da una fonte editoriale che stava scrivendo sull’Anello – tanto che, per correttezza, non ho utilizzato la sua relazione alla Procura di Brescia, come chiunque può ben riscontrare, e ciò proprio per rispettare il lavoro dello storico e contare solo sulla mia ‘fatica’ da giornalista. Tra l’altro, un editore ha rifiutato il mio progetto proprio perché contava di poter pubblicare quello di Giannuli, motivo per il quale sono ancora più riconoscente nei confronti di Lorenzo Fazio che ha creduto nel mio lavoro.
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