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Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato

George Orwell
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\\ Home Page : Storico : Interviste (inverti l'ordine)
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 

Su via Fani se ne sono dette tante: tutto e il contrario di tutto. E molti elementi sono diventati verità accettate da tutti. Ad esempio il fatto che qualcuno dei presenti sul luogo dell’agguato, a bordo di una moto di grossa cilindrata, abbia tentato di uccidere un inerme testimone oculare. E sull’identità di questo presunto killer si sono accesi i dibattiti più infervorati cui abbiamo assistito in quasi 40 anni di indagini ed analisi. Oggi, un comune cittadino non pienamente convinto dei “presunti” fatti, ha portato a termine quella ricerca che nessuno ha saputo (o voluto) fare ed è arrivato a negare un ruolo attivo della moto nell’operazione. Basandosi su documenti inediti (stavolta è davvero così, documenti mai trasmessi alle varie Commissioni d’Inchiesta) ha messo in seria discussione l’attendibilità di quello che tutti hanno sempre ritenuto il principale testimone: ricostruendone dichiarazioni e ricostruzioni il suo contributo risulta essere talmente pieno di contraddizioni da minarne alla base la fondatezza nel ricostruire la dinamica dell’agguato.

Gianremo Armeni, che oggi ho il piacere di presentare a tutti voi, ha svolto questa estenuante ricerca (durata anni), ha pubblicato un libro dal titolo “Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro” (edizioni “Tra le righe libri”) e, assieme, abbiamo fatto una bella chiacchierata non solo sulla sua inchiesta ma anche sul perché chi avrebbe dovuto farla prima di lui perché ha avuto sicuramente la possibilità di analizzare quelle carte, non ha mai tirato fuori quei documenti.

Questo libro non può restare una voce inascoltata in quanto sulla base di un “malinteso” la Magistratura sta cercando i colpevoli di un reato che, in maniera inequivocabile, non è stato commesso. L’intervista si conclude con un appello di Gianremo Armeni al Procuratore Generale Antonio Marini per archiviare questa triste pagina del caso Moro.

L'appuntamento è per dopo la presentazione del libro che si terrà a Roma il 3 giugno: l'audio del dibattito sarà pubblicato in area riservata e chi vorrà potrà commentare ciò che si è discusso e porre le proprie domande all'autore del libro.

 

 

Da dove nasce l’esigenza di scavare a fondo attorno ad un argomento così specifico?
Da un sospetto: che nessun esperto del caso Moro da me interpellato era riuscito a sedare, ed ora capisco anche il perché, perché nessuno si era mai preoccupato di scandagliare chirurgicamente le dichiarazioni dell’ingegner Marini e verificare su quali basi era stato determinato dalla magistratura quel passaggio processuale. Avendo studiato la storia delle Brigate rosse a partire da Chiavari, ho dubitato sin da subito della versione del teste Marini. I brigatisti, in tutta la loro storia, non hanno mai attentato alla vita di un civile, è sempre stato un vanto garantire l’incolumità di persone terze rispetto all’obiettivo. Se a sparare al teste fossero stati invece uomini dei servizi o degli apparati statali, come ipotizzato dai sostenitori del complotto, ciò sarebbe risultato ancor più bizzarro perché per un’operazione così complessa e delicata non avrebbero mai assoldato due mentecatti.

Quale è stato il primo documento che, in qualche modo, ti ha spinto ad andare “fino in fondo”?
In realtà non c’è stato un primo documento rivelatore, c’è stato un insieme di elementi che continuava a ronzarmi nella testa ma che non riuscivo a definire con chiarezza. La sentenza di primo grado del “Moro uno”, tutti i verbali delle dichiarazioni di Marini, gli esami degli altri testi, e tante altre informazioni che avevo raccolto, hanno concorso a stimolare un’indagine più approfondita. A quel punto ho iniziato ad analizzare tutte le frasi proferite sotto giuramento da Alessandro Marini, e ciò che è emerso è stato davvero inimmaginabile, come se ci fosse stata una partita a scacchi tra il teste e la magistratura. E’ invece esistito un documento, il verbale del 6 luglio 1982, dibattimento “Moro uno”, che ho trovato presso l’archivio della Corte d’Assise dopo aver già accertato l’incongruenza di molte affermazioni dell’ingegnere, che mi ha lasciato davvero sconcertato perché dà un’altra versione dei fatti rispetto a ciò che abbiamo sempre saputo.
 

Documenti noti, documenti meno noti, documenti ignorati. Cosa possiamo ancora aspettarci di trovare?
Mi sono fatto un’opinione ben precisa in merito: c’è ancora molto da trovare per smentire altre affermazioni esuberanti. Oltre a quei 3-4 documenti relativi alle aree tematiche di maggior interesse trattate nel libro, ho scoperto almeno 6 verbali di testimoni che hanno dichiarato di aver chiamato il 113 ad azione ancora in corso, ottenendo subito la comunicazione, demolendo in tal modo tutta la dietrologia sul sabotaggio delle linee telefoniche. Se noi immaginiamo che la prima commissione Moro ha dedicato non so quante audizioni e interrogazioni al mistero delle linee telefoniche, quando già c’erano documenti e segnalazioni della questura che negavano tutto il costrutto, abbiamo l’esatta dimensione della portata dell’affaire. Qualcuno non ci ha forse raccontato che la signora De Andreis sentì parlare in lingua tedesca? Ho cercato i suoi verbali ed ho preso atto che aveva sempre escluso che la lingua avesse tale origine. E di questi esempi, nel libro, ne trovi in quantità industriali. Sono dell’opinione che qualcuno, molto attivo a ridosso dei primi anni Ottanta, e qualcun altro che ha raccolto il testimone nella successiva commissione stragi, abbia seriamente pensato di avere una propria esclusiva sulla documentazione a disposizione. Consiglio a tutti i giovani studiosi del caso Moro di avviare indagini autonome, indipendenti da tutta la letteratura esistente, compreso il mio testo. All’inizio riuscirono a persuadermi della bontà di alcuni assunti, facendomi perdere anni alla ricerca di ulteriori elementi che potessero corroborare la congiura degli apparati statali, ma nel confronto ravvicinato con le carte ho trovato solo smentite. In un caso così complesso e così vasto ci si può trovare tutto ciò che si desidera trovare, a patto che si ometta tutto ciò che lo nega.
 

Alessandro Marini, un teste attendibile. Per anni considerato il più attendibile. Almeno fino ad ora. Perché, secondo te?
Faccio una premessa, che poi lascia anche intuire la risposta. I documenti che ho passato al setaccio, e le analisi che ho svolto sulla base di essi, non sono inediti in quanto una mia pura esclusiva. Essendo già esistenti da decenni, devono considerarsi non soltanto editi, ma anche noti alle autorità che hanno indagato la questione della moto Honda. In che momento diventano “inediti”, paradossalmente? Quando uno studioso decide di allegarli al suo libro. Questi verbali e questa documentazione erano presenti nei fascicoli processuali sin dal 1978, e la mia ricerca è uscita a marzo 2015. Faccio molta fatica a credere che nessun altro, che si è battuto anima e corpo nella dimostrazione di alcuni teoremi, non li abbia passati in rassegna, cercati, visionati... Prendiamo, ad esempio, il documento dell’iter del parabrezza che ho rincorso per mesi, fino a trovarlo presso l’ufficio corpi di reato, che dimostra senza appello come nessuna perizia sia mai stata eseguita sul parabrezza più famoso della storia dei ciclomotori, ebbene, ci troviamo di fronte a una situazione molto nebulosa. Il senatore Granelli, in una relazione della commissione stragi, scrive che è stata eseguita una perizia e che l’indagine peritale ha dimostrato inequivocabilmente come il parabrezza sia stato attinto da colpi d’arma da fuoco. Io avevo le prove che tutto ciò non era vero, eppure in un documento istituzionale si affermava il contrario. Qualcuno mi spieghi anche come mai nessun osservatore - sostenitore della tesi del ruolo attivo della Honda - abbia ritenuto di verificare quella perizia per portare l’opinione pubblica a conoscenza di altri dettagli degni di curiosità: che tipo di arma venne usata contro Alessandro Marini, se faceva parte delle 6 già individuate, quanti colpi vennero riscontrati contro il parabrezza, se venne forato o solo colpito di striscio, il calibro, la direzione dei proiettili, e tutta una serie di elementi tecnici che abbondano nelle perizie balistiche. Magari qualcuno lo ha fatto questo tentativo e ha scoperto che mancava l’elemento originario? Il teste Marini è stato sempre ritenuto super affidabile perché egli è dal 16 marzo 1978 la prova regina – per citare un passaggio della prefazione di Vladimiro Satta – e l’architrave su cui si è sempre poggiato il teorema della funzione attiva della moto.
 

La moto non ha avuto un ruolo operativo e non ha sparato su nessuno. I documenti che tu analizzi lo provano chiaramente. Eppure sul suo ruolo è stato detto di tutto e costruiti i teoremi più disparati. Quali altri presunti misteri su Via Fani potrebbero crollare presto secondo te?
Non parlerei tanto di teoremi che potrebbero crollare, perché un teorema per essere tale deve anche essere sostenibile e condiviso da una vasta platea. In circolazione esistono invece molte analisi di fantasia che non hanno bisogno di essere messe in discussione proprio perché non esistono nella realtà. Io credo che molti magistrati, e insigni studiosi, mi vengono subito in mente Satta, Clementi, Casamassima... e tanti altri che non cito solo per non dilungarmi, abbiano ampiamente dimostrato nelle loro ricerche come il caso Moro abbia raggiunto un livello di conoscenze senza precedenti, demolendo molti assunti fantasiosi che hanno generato un mistero dietro l’altro. La presunta funzione attiva della moto Honda non la considero un’analisi di fantasia, specie perché nella già citata sentenza venne scritto quel che venne scritto, e in una commissione parlamentare si fece riferimento alla perizia del parabrezza. Considero assurdo tutto ciò che in modo indiscriminato e incontrollato è stato piazzato a bordo della due ruote giapponese. Non escludo che all’interno della storia dell’organizzazione armata, e dei 55 giorni in particolare, possano sussistere zone grigie mai sufficientemente chiarite, che ci possa essere qualche militante che è riuscito a sottrarsi alle proprie responsabilità, ma questi sono aspetti della vicenda connaturati in ogni organizzazione illegale. Credo che dietro alle grandi affermazioni, del tipo “a sparare in via Fani sono stati i servizi”, ci debbano essere grandi prove.
 

Una moto è stata vista comunque attraversare la scena dopo la fuga dei brigatisti. Possiamo escludere che si trattasse di un soggetto esterno alle BR che, bisognerebbe capire come mai, era li per verificare cosa era successo? E che magari durante l’azione si era tenuta a debita distanza?
Possiamo escludere in modo inequivocabile che si trattasse di soggetti coinvolti nell’azione terroristica, e possiamo escludere che fossero personaggi informati dell’agguato e rimasti appartati in attesa che tutto finisse. Ho ricomposto il mosaico facendo interagire tutti gli elementi, sonori, geografici, e testimoniali. Non esiste alcun margine, a mio avviso, che possa far ipotizzare il contrario. Nel libro ci sono pagine e pagine di dettagli (è sintomatica la ricostruzione che alcuni osservatori fanno del testimone Luca Moschini e che smentisco allegando i suoi verbali) che relegano la moto a semplice appendice estranea a tutto, così come lo saranno stati in quei due minuti di ritardo con la quale si è palesata tutti i mezzi e le persone che sono transitati dopo la fuga dei “cancelletti”. Nel mio testo la figura di Alessandro Marini ne esce demolita, di Luca Moschini nemmeno bisognerebbe parlarne dopo aver letto attentamente le sue dichiarazioni, per quanto riguarda Intrevado rimando al testo.
 

Si è parlato, lo scorso anno, della presenza, a bordo della moto di due ragazzi del movimento (Roberta Angelotti e Giuseppe Biancucci) che avevano appena smontato dal turno notturno in un garage di via Stresa. Tu hai trovato documentazione in grado di acclarare questo fatto? Che idea ti sei fatto di questa interpretazione?
Ho chiesto i verbali ma le trafile burocratiche mi hanno fatto desistere, e poi avevo già trovato i documenti che demolivano la funzione attiva della moto, e a me questo bastava. Perdere altri mesi prima di avere tra le mani il verbale Digos di Biancucci e Angelotti, senza avere la certezza di ottenerlo, sinceramente non lo ritenevo proficuo. Non ho elementi tali che possano avvalorare in modo oggettivo la presenza dei due autonomi, però inserisco i due giovani in un contesto più organico rispetto a quanto si era fatto sino adesso, un contesto probatorio risultante da più livelli di ricerca come hai potuto notare, e credo che la tesi di Peppo e Peppa sia molto plausibile, seppur non definitiva.
 

Il ruolo attivo della moto ed il suo ruolo operativo nella dinamica dell’azione, l’ho precisato prima, sono una cosa. E la si poteva escludere in base a ragionamenti logici. Adesso i tuoi documenti elevano l’ipotesi a livello di fatto. Senza più margini di manovra. Ma il passaggio di una moto sul luogo dell’azione, diciamo un minuto dopo la fuga dei brigatisti, perché non sarebbe potuto essere un curiosare interessato di chi si era volutamente tenuto a debita distanza?
Rispetto le opinioni di tutti, ma continuerei ad escluderlo perché questo curiosare a distanza non è confortato dal quadro probatorio risultante. Se avessero voluto ficcare il naso senza intervenire, a mio avviso, si sarebbero potuti scegliere un posto in prima fila, magari all’incrocio con via Stresa, fingendo di essere stati fermati dal cancelletto al pari di altri testimoni, e nessuno li avrebbe potuti confondere come soggetti in qualche modo implicati. Non è questa la sede per argomentare al meglio la risposta, ma esiste tutta una serie di altre ragioni che mi porta a pensarla diversamente.
 

Tornando ai presunti “Peppe e Peppa”, non penso sia irrilevante quel documento. Senza cercare lontano, ne hanno parlato lo scorso anno alcuni siti (commettendo dei grossolani errori, tuttavia). Non basterebbe chiedere a loro? Se hanno approfondito la notizia devono avere in mano qualcosa o, quantomeno, conoscere la catalogazione esatta di quel verbale di ammissione. Chiuderebbe definitivamente la questione.
Hai ragione, non è irrilevante, ma qui distinguerei il piano storiografico da quello giudiziario. In merito al primo aspetto credo sia molto importante approfondire la questione per posizionare altre tessere nel mosaico. Diversamente, come ha scritto Vladimiro Satta nella prefazione, con il quale concordo, il tentativo di cercare questi due centauri, una volta escluso il coinvolgimento della moto, non sarebbe nemmeno così determinante sul piano giudiziario. Non so francamente cosa abbiano in mano quei siti a cui fai riferimento, probabilmente notizie di prima mano ma non il verbale, anche se non ho certezze in merito. Fonti attendibili mi confermano l’abitazione di Biancucci in via Stresa. Su quel verbale ho un’idea ben precisa: noi sappiamo che in procura, quella di Roma, è depositata l’istruttoria del sexies, che stando a quanto riferito dal procuratore generale Antonio Marini ruoterebbe per larghi tratti attorno al ruolo della Honda. Biancucci e Angelotti sono stati interrogati dalla Digos. Mi pare evidente che il giudice Marini abbia acquisito quelle sommarie informazioni facendole diventare parte integrante del fascicolo custodito in tribunale, che è off limits per i non addetti ai lavori.
 

Ci sono due particolari che mi hanno molto colpito, apparentemente due dettagli che, però, in chiave interpretativa possono risultare fondamentali. Il primo riguarda il “famoso” parabrezza del motorino di Marini. Sia il Commissario Granelli in una relazione per l’allora Commissione Stragi, nel 1994 parla di una perizia sul parabrezza. L’ex Giudice Imposimato, addirittura, scrive in un suo libro che i buchi sul parabrezza erano visibilissimi (e questo confermava l’attendibilità del teste). Mi sembra che tu abbia cercato a lungo la perizia …
Come ti dicevo in precedenza, ho scoperto un documento che ripercorre l’iter del “parabrezza”, una sorta di carta d’identità del reperto che sconfessa qualsiasi ipotesi d’indagine peritale. I destinatari della tua domanda dovrebbero essere Imposimato e Granelli, quest’ultimo credo sia scomparso, ma il primo potrebbe chiarire almeno due aspetti. Com’è possibile che egli individuò dei fori di proiettile sul parabrezza quando, come hai potuto appurare anche tu dal mio testo, è escluso che qualcuno abbia sparato all’ingegnere? Difatti, la mia analisi è volta proprio a demolire qualsiasi ipotesi di tentato omicidio, volontario che fortuito, sia che il parabrezza venne attinto da colpi, sia che andarono a vuoto, e a inficiare il ruolo attivo della moto non limitando il discorso all’attendibilità di Marini, anche se poi questa è stata da sempre la prova regina di determinate teorie. Qualche mese fa, Paolo Persichetti, sul sito “Insorgenze”, è stato autore di uno scoop che ha ritratto il famoso motorino davanti al bar Olivetti. La foto inizialmente era in bianco e nero, successivamente, Nicola Lofoco ha individuato una diapositiva molto nitida, a colori, dove si evince in modo cristallino l’assenza dei fori. Se invece dovessimo accreditare l’altra versione, quella dei colpi deviati dal parabrezza, quindi con imprecisati segni di striscio, da profano, credo - e questo è il secondo quesito da porre – che l’ex giudice istruttore, in entrambi i casi, avrebbe dovuto chiedere un’immediata perizia fugando in tal modo tanti dubbi e individuando l’eventuale arma utilizzata. Perché i due frammenti di parabrezza vengono segnalati dalla Digos come corpo di reato (vd. foglio rosa allegato al libro), su richiesta del giudice istruttore, e poi vengono rinchiusi in un magazzino senza essere indagati da un perito balistico? Potrebbe averla chiesta alla Corte ed aver ottenuto un rifiuto? Sarebbe interessante conoscere sia la sua di versione, che quella del presidente Santiapichi. Inoltre, Alessandro Marini ha sempre parlato, nelle sue tante versioni discordanti, di un solo foro, mentre Imposimato usa il plurale nel suo libro. Io credo che qualcuno debba delle risposte alla società civile, non a noi due.

Il secondo riguarda le presunte minacce che Marini avrebbe ricevuto nei mesi successivi alle sue deposizioni proprio sulla moto Honda. La sua utenza fu messa sotto controllo ma le registrazioni non è sembrato che siano interessate più di tanto.
Questo, a mio avviso, è l’aspetto più inquietante di tutta la faccenda perché non posso credere che a nessun inquirente fosse venuto il sospetto. Le dichiarazioni dell’ingegner Marini, da alcuni riferimenti temporali che ho radunato, stridevano in modo imbarazzante. Eppure, il tema delle intimidazioni ha rivestito all’udienza del “Moro ter” il 90% della deposizione del teste, e questo i frequentatori del tuo blog lo possono verificare pacificamente andando sul sito di radio radicale, e cercare la deposizione di Alessandro Marini del 7 ottobre 1987. Si parlò solo di questo aspetto. Il nastro del baracchino che gli venne assegnato per registrare le telefonate non venne mai sbobinato, ci ha pensato 36 anni dopo il Procuratore Generale, dott. Ciampoli, che in audizione davanti alla commissione ha detto chiaramente che le minacce non avevano nessuna attinenza con la strage. Questo aspetto della vicenda non ha forse sempre fatto da corollario al tentato omicidio e al coinvolgimento della moto?

Per chiudere sulla moto. Che idea ti sei fatto? Una moto (indipendentemente da chi e perché) è passata sul luogo dell’agguato dopo la conclusione dell’azione o no?
Secondo me dovremmo attenerci ai fatti. Tutto ciò che esula dal ruolo attivo del mezzo nell’attacco terroristico, e in questo discorso rientrano naturalmente Peppo e Peppa, assume contorni del tutto secondari ed estremamente aleatori perché qualsiasi ipotesi potrebbe prestarsi a un’infinità di interpretazioni. Mi permetto di fare un discorso semplicissimo. Chi ha raccontato di aver visto una moto? Per essere più precisi: chi avrebbe visto passare una moto dopo la fuga del commando, quando tutto era già terminato e non c’era più nulla di anomalo da notare? Alessandro Marini, come hai potuto comprovare, ha costruito ex novo un pezzo di storia. Intrevado fa le sue dichiarazioni una ventina di giorni dopo, quando già sapeva che era circolata una certa notizia, che oggi sappiamo essere stata distorta. Abbiamo poi un medico, Moschini, che ne vede ancora un’altra, prima e non dopo l’azione, di colore diverso, di diversa cilindrata, in un’altra posizione, e per giunta non ci dice nemmeno che fosse una Honda. Infine, anche Bruno Barbaro ci parla di un due ruote – senza fornirci nessun dettaglio sul mezzo - che transita abbastanza dopo la fuga dei brigatisti, ma non può corrispondere a quella presunta vista da Marini e Intrevado perché non combaciano i tempi. Ebbene, ci sono 3 moto diverse che passano o stazionano in zona nell’arco di circa 5-10 minuti. Probabilmente, ne saranno passate altre 5 per via Stresa, e altre 4 saranno state parcheggiate in via San Gemini... Capisci cosa voglio dire? Tutto ciò che non può essere addomesticato con elementi plausibili si presta a illazioni di varia natura, impossibili da controllare.
 

Quali sono state le prime reazioni al tuo lavoro che, ricordiamo, è in libreria ormai da qualche mese? E’ quello che ti aspettavi?
E’ accaduto esattamente quello che mi aspettavo. In molti, te compreso, hanno preso atto di ciò che non poteva essere demolito opponendo solo ipotesi, ed è abbastanza intuibile la reazione degli altri, ma questo va messo in preventivo per ogni libro che si scrive. Le cose si fanno anche per essere vagliate criticamente da chi la pensa in modo contrario.
 

Torniamo alla ricerca documentale che ha permesso la costruzione dell’inchiesta. Come ti sei mosso tra le varie ubicazioni dove è possibile reperire documenti giudiziari? E’ stato difficile? E’ un qualcosa che prevede delle “barriere all’ingresso” o è alla portata di tutti?
Nel testo ho inserito una piccola guida che dovrebbe orientare gli studiosi neofiti della materia. La barriera più invalicabile è costituita dalla posizione geografica in cui si trovano le carte. Per chi non vive a Roma è oggettivamente un ostacolo la loro consultazione, almeno fino a quando l’archivio di Stato non concluderà la digitalizzazione di tutto il complesso informativo. Sul web si trova qualcosa inerente ai lavori delle precedenti commissioni, ma ti assicuro che è una porzione infinitesimale rispetto alla documentazione presente negli archivi. Per visionare gli atti della commissione stragi è sufficiente un tesserino che viene rilasciato dall’archivio storico del Senato dopo aver compilato un modulo online. Per l’archivio della Corte d’Assise di Roma, le cose si fanno già un tantino più complicate perché bisogna inviare una richiesta scritta al presidente del tribunale di Roma, e poi, in caso positivo, rispettare la programmazione del cancelliere. Per lo studio dei 130 volumi della prima commissione Moro non esiste nessuno scoglio, basta recarsi nelle biblioteche di Camera e Senato.
 

Quali sono stati i tempi necessari a mettere insieme tutti i documenti che hai trovato?
Non lo so con precisione. Posso soltanto dire che la ricerca è iniziata 5 anni fa senza sapere esattamente dove mi avrebbe portato il successivo confronto con la documentazione. Questi cinque anni sono stati necessari per lo studio della stragi, della Moro, e dei faldoni conservati a Rebibbia, presso l’archivio della Corte d’Assise.
 

Perché, secondo te, altri storici, giornalisti, scrittori ben più noti di te non l’hanno fatto prima? Per limiti professionali, pigrizia o per malafede?
Anche qui il discorso andrebbe distinto. Tutti gli studiosi che non vivono a Roma sono oggettivamente impossibilitati a mettere insieme tutto quel materiale documentale che ho potuto raccogliere; sono costretti a basare la loro conoscenza su fonti che non sono primarie. Se l’elemento originario subisce una distorsione - è il caso di quel passaggio della relazione Granelli – la notizia si diffonde in modo veritiero, quando invece è soltanto una leggenda. Per questo ribadisco l’umile consiglio a chi voglia interessarsi della materia: va bene leggere tutto, ma è altrettanto indispensabile svolgere indagini autonome e indipendenti. Poi esistono tutti quegli osservatori che si sono lasciati persuadere dalla sentenza del “Moro uno”, e non avevano legittimamente nessuna ragione per andare a scavare oltre ciò che era passato in giudicato. Infine, coerentemente con una risposta che ti ho già dato in precedenza, c’è qualcuno che sin dagli anni Ottanta ha avuto un accesso privilegiato alla documentazione, ma questo non mi autorizza a sostenere che ci sia stata malafede. Quest’ultimo aspetto lo potranno valutare soltanto i lettori.
 

Se avessi la possibilità di scegliere, su quale altro filone scaveresti?
Per il momento non ho focalizzato appieno l’idea sulla quale lavorare in futuro.
 

Adesso cosa sarebbe necessario fare?
E’ incredibile come la leggenda della Honda, dei suoi occupanti, e del tentato omicidio ai danni di un testimone sia potuta proliferare per quasi quattro decenni. Spero, e ho fiducia in questo, che il procuratore generale Antonio Marini, che rappresenta un pezzo importante della storia giudiziaria di questo paese, un uomo che tutti stimiamo, chiuda una volta e per tutte questa triste pagina, prendendo atto del fatto che la sentenza di primo grado, in merito al tentato omicidio e al ruolo attivo della moto, è stata edificata unicamente sulle parole di un testimone sconvolto dall’azione, in assenza di ogni riscontro probatorio. Sono 37 anni che le istituzioni di questo paese, politiche e giudiziarie, cercano questo mezzo e i due centauri, ma senza alcun risultato perché a tutt’oggi abbiamo gli stessi elementi di allora; non c’è stato alcun progresso. La falla va individuata nella distorsione di un frammento della strage già a partire dal 16 marzo 1978, non ravvisata dalla prima Corte d’Assise nella sentenza del 24 gennaio 1983. In una tua precedente domanda hai scritto che nel libro si trovano documenti e fatti che non pongono più nessun dubbio sui temi in questione, ma ciò è stato possibile soltanto ripartendo da quello che ho definito l’anno zero, ossia la revisione di tutte le carte che preesistevano rispetto a quanto passato in giudicato. Io credo che il giudice Marini, una volta confrontatosi con questa realtà, con il suo elevato senso delle istituzioni e l’alta concezione che ha della giustizia, non abbia alcuna difficoltà a mettere almeno in discussione alcune convinzioni, e questo rappresenterebbe – in un’epoca in cui nessuno lo fa - un atteggiamento assolutamente edificante perché la memoria dell’onorevole Moro e dei suoi 5 agenti di scorta appartiene soprattutto alla società civile.

 
Di Manlio  30/04/2013, in Interviste (5208 letture)
E' in libreria in questi giorni un nuovo, interessante testo sul caso Moro. "La zona franca - come è fallita la trattativa segreta che doveva salvare Aldo Moro" (Castelvecchi) scritto da Alessandro Forlani, un giornalista RAI che cura la trasmissione settimanale "Pagine in frequenza" che si occupa di politica ed attualità in libreria.

E' un giornalista che ha due grandi doti: una grande cultura, che gli permette di cogliere in profondità il senso di tante cose che a molti sfuggono ed una straordinaria capacità di divulgazione grazie ad uno stile (sia parlato che scritto) scorrevole, limpido e chiaro.
Aggiungiamoci anche che è un giornalista onesto, uno di quelli che fa bene il proprio lavoro e non sta ai giochi di prestigio dell'asservimento a questo o quel potere, e potremmo dire che è uno dei prototipi del giornalista modello.

Dieci anni fa, in occasione del 25° anniversario dell'agguato di via Fani, confezionò uno speciale radiofonico con interviste e schede di approfondimento che durò tutta la giornata.

Un lavoro interessante che ampliò nel 2008, in occasione del trentennale, con nuove interviste e nuove trasmissioni tematiche dedicate alla vicenda Moro.

Da questo enorme lavoro radiofonico ne è venuto fuori un bellissimo libro che si concentra su un aspetto ancora poco esplorato della vicenda: la trattativa Stato-BR per liberare Aldo Moro.

Un libro basato su testimonianze, alcune inedite, senza dietrologia. Si attiene ai fatti e a ciò che tanti protagonisti hanno detto nel tempo.

E la conclusione delle 334 pagine del corposo lavoro di Forlani è molto semplice: una trattativ ci fu, eccome, ma all'ultimo momento (proprio le ultime ore) qualcosa andò storto e le BR uccisero il prigioniero quando tutto era predisposto affinchè venisse liberato.

Alessandro Forlani presenterà il suo libro il 3 maggio a Lecce (libreria Feltrinelli, via Cavallotti, ore 19.30) e il 4 maggio a Brindisi (palazzo Nervegna, ore 18.00) e avremo modo di approfondire la questione. Per il momento propongo a tutti i lettori che non potranno essere presenti ai due eventi, le riflessioni dell'autore sul suo lavoro e sulla questione da lui affrontata.

Per ogni nuovo libro sul caso Moro si dice sempre che "è un libro diverso dagli altri". La zona franca, lo è davvero?

Le centinaia di pubblicazioni sul caso Moro hanno evidenziato molti aspetti ancora oscuri. Non sappiamo quanti fossero gli attentatori di via Fani. Non sappiamo chi ha commissionato il falso comunicato del lago della Duchessa, che segna uno snodo fondamentale nei 55 giorni. Soprattutto però restava, non solo senza spiegazione, ma non era nemmeno stato raccontato il quadro delle trattative, che potevano salvare Moro e che invece sono fallite in extremis. Il mio libro prova a raccontare quelle trattative. E' però un libro che più che dare risposte, pone domande.

Molte testimonianze, la maggior parte inedite, raccolte in quasi 10 anni di lavoro. Quale tra queste ti ha impressionato di più?

Direi quella da cui sono partito e quella che ho raccolto per ultima. Io avevo curato un programma alla radio il 16 marzo 2003, per il venticinquesimo del delitto Moro, e avevo intervistato alcuni dei protagonisti di quella vicenda: il brigatista Gallinari, il collaboratore di Moro Guerzoni, qualche politico del tempo. Poi ai primi di maggio un tecnico del Gr mi ha detto che Padre Carlo Cremona, che allora teneva la rubrica sul Santo del giorno, mi voleva parlare. Andammo insieme a trovarlo e il Padre mi disse che lui nel '78 lavorava per Papa Paolo VI e che il 9 maggio era stato incaricato di aspettare una telefonata che avrebbe annunciato la liberazione negoziata di Moro. Da quella testimonianza, che ribaltava tutto quello che avevo imparato sul caso Moro, sono partito per cercarne altre, sempre di comprimari inascoltati. Cercai in particolare l'ex sottosegretario alla Difesa Franco Mazzola, che aveva scritto un romanzo sul tema delle trattative. Gli parlai più volte e alla fine lui mi disse che la trattativa c'era; che ne erano ben informati il presidente del Consiglio Andreotti e il ministro dell'Interno Cossiga e che la mattina del 9 maggio doveva avvenire in effetti uno scambio.

Attraverso tre trattative parallele che si sarebbero intrecciate quella mattina del 9 maggio lo Stato era giunto ad un accordo con le BR. Quali erano queste trattative?

Il Vaticano avrebbe versato alle Br una forte somma di denaro: tra i 10 e i 25 miliardi di Lire. Il maresciallo Tito avrebbe liberato 2, 3 o 4 militanti della Raf, ( le  Br tedesche), e dato quindi ai brigatisti un riconoscimento politico a livello internazionale. In Italia il Capo dello Stato Leone avrebbe firmato un provvedimento di clemenza nei confronti di un estremista di sinistra e il presidente del Senato Fanfani avrebbe detto davanti alla Direzione Dc che la trattativa con le Br era legittima.

Sono venute alla luce a piccole dosi a molti anni di distanza. Eppure i protagonisti hanno raccontato spontaneamente i fatti di cui sono stati testimoni. Non ci si poteva pensare prima?

In realt?nbsp; tutti i testimoni da me intervistati avevano gi?nbsp; parlato pubblicamente. Padre Cremona aveva scritto un libro, in cui aveva gi?nbsp; raccontato la parte avuta quel giorno nel caso Moro, mazzola aveva scritto un romanzo, altri avevano parlato alla Commissione d'inchiesta sul caso Moro. Il punto è che le cose che avevano detto non erano mai state comparate e messe insieme in una storia coerente. 

Per liberare Aldo Moro bastava che anche solo una di queste trattative andasse in porto o era necessario che si verificasse l'incastro?

Credo sia difficile dirlo. I brigatisti ripetevano da sempre che loro volevano un riconoscimento politico da parte democristiana. Le dichiarazioni di Fanfani quindi sarebbero state imprescindibili. Tuttavia noi non sappiamo nemmeno se le tre trattative fossero complementari o indipendenti.

Che ruolo aveva la Santa Sede?

Il Papa si era offerto come ostaggio nel caso del dirottamento aereo da parte della Raf nel '77 ed era assurdo che non si muovesse per Moro, che era suo amico dai tempi della Fuci negli anni '40. per di più la chiesa aveva condotto nel '74 la trattativa che portò alla liberazione di Sossi, rapito proprio dalle Br. La Santa Sede arrivò a contattare i brigatisti, offrendosi come mediatrice con lo Stato. Io pubblico la testimonianza di un prelato, che sostiene che Don Antonello Mennini incontrò addirittura Moro durante la prigionia. Forse il Vaticano si occupò solo di pagare un riscatto, perché sapeva che il versante politico era coperto da altri, ma non ci sono testimonianze di contatti tra gli attori delle tre trattative.  

E l'iniziativa "istituzionale" che coinvolgeva il PSI e figure di peso come Leone e Fanfani?

Il Psi, come fin da subito dicevano i Radicali, e come soprattutto chiedeva lo stesso Moro nelle lettere, propose una trattativa umanitaria, ispirata al cosiddetto Lodo moro, l'accordo segreto stipulato dall'allora ministro degli Esteri Moro con i palestinesi nel '73. Lo Stato faceva una concessione di sua iniziativa, esercitando un potere come quello di "grazia", prerogativa del Capo dello Stato. Le Br avrebbero dovuto poi fare la loro parte, liberando il loro ostaggio. I socialisti sono fermi nel dire che i loro emissari avevano detto chiaramente ai brigatisti che il 9 maggio Fanfani avrebbe aperto alla trattativa.      

Il peso maggiore, probabilmente, lo ebbe il coinvolgimento del Maresciallo Tito che avrebbe liberato alcuni detenuti della RAF e dato un riconoscimento politico internazionale, alle BR

Tito era amico di lunga data di Moro, che considerava un politico di idee a metà strada tra il socialismo ed il liberismo. Il presidente jugoslavo era molto anziano, ma ancora attivo. Si disse subito disponibile a fare da tramite e probabilmente ad aiutarlo furono i palestinesi del Fronte Popolare di Liberazione, un gruppo rivale dell'Olp, che contattò le Br e le informò dei termini dello scambio. L'agente segreto Stefano Giovannone, amico di Moro, attese invano a Beirut l'aereo con quelli della Raf. L'ammiraglio Martini, arrivato a Belgrado nel primo pomeriggio, arrivò fino alla cella dove erano rinchiusi i tedeschi, ma poi venne avvertito che Moro era gi?nbsp; morto e l'operazione era quindi annullata.

Cosa andò storto, secondo te?

E' quasi impossibile dare una risposta. Io pongo solo delle domande. I brigatisti sapevano che quel giorno lo Stato avrebbe ceduto; Moro scrive di essere libero, grazie alla generosità dei brigatisti: perché allora ucciderlo proprio quella mattina? Poniamo pure che lo abbiano ucciso nel garage di via Montalcini: perché portare il cadavere proprio di fianco al portone di palazzo Caetani? I vestiti di Moro recavano tracce di acqua marina e sabbia, provenienti dal litorale di Focene, vicino a Roma. I brigatisti dicono che si trattò di un depistaggio: ma perché andare a prendere acqua e sabbia proprio su quella spiaggia, vicino ad un luogo così strano e significativo come la Posta Vecchia? 

Che ruolo ebbe, secondo te, la famiglia? Fece da collettore per le iniziative, avviò canali privati e riservati, restò a guardare?

Da quello che mi hanno detto i figli dello statista ucciso, la famiglia restò, come si dice, nell'occhio del ciclone. Si trovò in una situazione di paradossale calma, mentre tutto intorno a loro si muoveva in modo vorticoso.

Probabilmente qualcuno sapeva che all'ombra di chi si muoveva per salvare Moro c'era qualcun altro che tramava affinchè la cosa fallisse. Ad esempio l'On. Benito Cazora, cui tu dedichi un intero capitolo. Cosa fece Cazora e, soprattutto, perché nessuno lo prese sul serio?

E' appunto probabile che in tutti gli ambienti che si diedero da fare per la salvezza di Moro: la Chiesa, la Dc, i servizi segreti, i Ministeri, ci siano stati dei boicottatori, che alla fine siano riusciti a far fallire la trattativa, portando i brigatisti ad uccidere l'ostaggio più in fretta che potevano. L'onorevole Cazora oggi lo definiremmo un peone, un piccolo deputato laziale democristiano. Lui raccolse la proposta di un malavitoso, (che gli si presentò come un suo elettore), di fornirgli informazioni utili alla liberazione di Moro. Cazora venne portato a via Gradoli e gli venne detto che quella era "la zona calda". Il 7 maggio addirittura gli venne detto che, se non si interveniva subito, Moro sarebbe stato ucciso di lì a due giorni, come poi avvenne. Cazora riferì tutto al Viminale, dove Cossiga gli disse che "quello il 9 era libero". La trattativa quindi era talmente garantita, che il ministro poteva addirittura dare per acquisito il risultato con un peone, che gli stava facendo perdere del tempo. Alla fine però il peone Cazora ebbe ragione. Forse per questo non venne mai più preso in considerazione, perché quella figuraccia dello Stato andava rimossa dalla memoria.
 
Una trattativa non è una cosa negativa di per se, ma un gesto dello Stato che mette in ogni caso al primo posto la salvaguardia della vita dei propri cittadini. Eppure nel caso Moro la parola trattativa non può neanche essere pronunciata, ancora oggi a 35 anni di distanza. Perché, secondo te?

Credo che sarebbe ingenuo pensare che lo Stato non abbia mai trattato con le Br e con altri soggetti criminali, come si pretese di fare durante il sequestro Moro. Lo Stato trattò con le Br per gli altri sequestri, come trattò con i palestinesi nel '73 e con le mafie fin dallo sbarco americano nel '43. le trattative tra nemici, quando c'è una guerra, sono legittime. Non lo sono invece quando lo Stato si confronta con soggetti come i gruppi terroristici o organizzazioni criminali come le mafie. Presentando il mio libro a Milano, il giornalista Gianluigi Nuzzi ha detto che nel 2007 agenti segreti italiani hanno mediato tra le famiglie della Ndrangheta che si erano scontrate quell'estate nelle strade di Duisburg. In questi giorni poi è in corso un processo per la presunta trattativa con la mafia del '92. credo che se Moro fosse uscito vivo dalla prigione brigatista, di sicuro ci sarebbero state polemiche ed anche inchieste della magistratura. Forse il parlamento avrebbe dovuto intervenire con un provvedimento ad hoc. Certo sul piano morale una trattativa che ha come scopo quello di salvare una vita è più che legittima. Credo che tutto dipenda da quello che si offre in cambio e dagli strumenti che si utilizzano. Per la salvezza di Moro, lo Stato si sarebbe limitato ad un gesto di clemenza, che era nei poteri del Quirinale. Santa Sede e Jugoslavia sono stati esteri, il cui operato non è soggetto alla nostra giurisdizione.

 
Ho iniziato a conoscere Giacomo Pacini tramite i commenti sul sito. Grazie a FaceBook ho potuto scoprire più a fondo ilsuo modo di lavorare e le sue competenze. Quando l’amico Paolo Cucchiarelli mi ha preannunciato l’uscita di un lavoro sull’Ufficio Affari Riservati mi chiesi subito chi fosse stato così “matto” da caricarsi l’onere di scavare in quello che per me era un grosso buco documentale su uno degli apparati più potenti e misteriosi (forse il più potente e perciò misterioso) della nostra Repubblica.
Quando ho saputo che l’autore era Giacomo ho avuto la certezza che si dovesse trattare di un lavoro ineccepibile e la curiosità di leggerlo è stata immediata. Un testo completo (per quanto si possa apprendere su simili strutture), onesto, rigoroso. Un lavoro che non ti aspetti da un giovanissimo come Giacomo ma che, evidentemente, storici più maturi e “contemporanei” alla struttura non hanno avuto il coraggio o le competenze per scriverlo.

Lo consiglio a tutti perché pur non essendo un romanzo la sua lettura è piacevole, la struttura è ben articolata tra l’uso delle fonti e l’analisi, l’indice del lavoro è chiaro e consente di spostarsi rapidamente da un argomento all’altro. In questo può essere assimilato più ad un manuale che ad un saggio storico.
Non potevo esimermi dal porre a Giacomo alcune questioni. Come al solito mi auguro di aver interpretato anche le domande dei lettori ai quali resta, come sempre, la possibilità di proporre nuove domande e riflessioni.

Giacomo Pacini. Ricercatore Storia contemporanea, laureato presso l’università di Pisa, si occupa di storia dell’Italia Repubblicana con particolare riferimento alle vicende degli anni settanta.
Ha svolto ricerche sulle violenze contro i civili durante la seconda guerra mondiale.
Tra le sue pubblicazioni
- “Le origini della operazione Stay Behind (1943-1956)”, pubblicato sulla rivista “Contemporanea”, Il Mulino, n. 4/2007.
- “Le organizzazione paramilitari segrete nell’Italia Repubblicana”, Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2008.


Tra i tanti argomenti che interessano la storia d’Italia, mai erano state dedicate delle pagine ad un apparato come l’Ufficio Affari Riservati. Secondo te, come mai?

Se è vero che fino al 1996, quando Aldo Giannuli rinvenne il noto archivio di via Appia, la documentazione era molto esile (e, spesso, di scarsa attendibilità), è in effetti sorprendente la poca attenzione che nel corso degli anni vi è stata alle vicende dell’Ufficio Affari Riservati (Uar). Eppure stiamo parlando di un organismo che dal 1948 al 1974 è stato il vertice della polizia politica italiana.
Tuttavia, il fatto che se ne sia parlato cosi poco può anche voler dire che gli uomini dell’Uar hanno saputo fare molto bene il loro lavoro di “spioni”.
In una vecchia intervista Federico Umberto D’Amato (che dell’Uar è stato il più qualificato dirigente) disse che uno spione degno di questo nome deve tenere sempre un piede nella legalità e tre fuori, ma non deve mai farsi beccare, come invece era accaduto a praticamente tutti i vertici dei servizi segreti militari.
Ecco, diciamo che l’Uar era composto da veri e propri spioni, da “sbirri” di professione che, sono sempre parole di D’Amato, “sapevano di diritto e di investigazione”, a differenza di quanto avveniva nel Sid (il servizio segreto militare) dove poteva capitare che a doversi occupare di investigazioni politiche fossero militari che provenivano dal genio, ammiragli laureati in ingegneria navale o pluridecorati generali che magari conoscevano alla perfezione le strategie belliche, ma che non avevano la minima idea di cosa fosse una indagine informativa di natura politica. Con risultati spesso disastrosi (vedi i casi Giannettini, Pozzan ecc. ecc.). Mentre gli uomini dell’Uar erano “professionisti” del settore e, appunto, non si facevano mai “beccare” (o quasi).
Per fare un esempio, se i legami e le complicità che, negli sessanta/settanta, vi furono fra alcune parti dell’estremismo di destra ed il Sid sono ormai documentati, prove documentali (e sottolineo documentali) di una conclamata collusione tra l’Uar ed il neofascismo non sono mai state trovate. Emblematico il caso del fondatore di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie; di un suo presunto legame col ministero dell’Interno si è parlato numerose volte (perfino un ex funzionario dell’Uar ha sostenuto che Delle Chiaie aveva contatti col Viminale), ma non è mai emerso un documento capace di provarlo con certezza.


Nel libro descrivi con grande accuratezza documentale la storia dell’Ufficio Affari Riservati sin dalle sue origini. Quale è stato il suo ruolo nel tempo e, se è cambiato, secondo te per quale motivo?

L’Uar nacque nel 1948 sulle ceneri della “vecchia” Divisione Affari Generali e Riservati che operava sotto il fascismo ed il suo compito essenziale era quello di coordinare il lavoro degli Uffici Politici delle questure. A fine anni cinquanta, tuttavia, quando al vertice dell’Ufficio giunse un nucleo di funzionari provenienti dalla questura di Trieste (chiamati dall’allora ministro dell’Interno Tambroni e tra i quali vi era una figura molto importante per la storia degli apparati di polizia, Walter Beneforti), l’Uar subì un profondo mutamento, sganciandosi completamente dalle questure e diventando una vera e propria polizia parallela al diretto ed esclusivo servizio del Viminale, indipendente rispetto a qualunque altro apparato informativo allora esistente in Italia.
La struttura operativa creata dai “triestini” rimase sostanzialmente immutata anche dopo il loro allontanamento dagli Affari Riservati.
A fine anni sessanta, così, l’Uar era divenuto una sorta di organizzazione piramidale con D’Amato al vertice e numerose “squadre periferiche” attive in varie città italiane, composte da sottufficiali di pubblica sicurezza (autonomi dalle questure, visto che il loro quartier generale era situato in anonimi uffici privati) che gestivano tutti gli informatori disseminati all’interno di partiti politici, quotidiani, sindacati o movimenti extraparlamentari. I componenti dell’Uar, peraltro, avevano tutti la qualifica di ufficiale di Polizia Giudiziaria, ma potevano anche non informare la magistratura qualora venissero in possesso di notizie inerenti un reato, muovendosi come agenti di un vero e proprio servizio di sicurezza, cosa che, però, l’Uar (da un punto di vista legale) non era.

Federico Umberto D’Amato è stato un personaggio molto potente che ha acquistato un ruolo importante nel 1963 (dal 1966 è diventato il capo della struttura). Nel 1963 c’è stato il primo governo Moro con l’apertura ai socialisti e nel 1964 il tentativo di golpe De Lorenzo. Che ruolo ha avuto l’Ufficio Affari Riservati, ed in particolare D’Amato, in questa determinante fase storica?

Ufficialmente nessun ruolo. In quegli anni, infatti, l’Uar, almeno stando alla documentazione di cui disponiamo, visse una sorta di fase di transizione, mentre un rinnovato “protagonismo” in campo spionistico lo riacquisì solo nella seconda metà degli anni sessanta grazie appunto ad una figura come Federico Umberto D’Amato, il quale seppe sfruttare con grande abilità le conseguenze della grave crisi in cui precipitò il Sifar (dal 1965 Sid) dopo lo scoppio del noto scandalo delle schedature illecite di migliaia di italiani e la rivelazione del cosiddetto Piano Solo. Coi servizi segreti militari gravemente compromessi agli occhi della opinione pubblica (e con gran parte della stampa che cominciò a parlare apertamente del Sid come di una struttura “deviata”, se non perfino composta da golpisti), D’Amato riuscì a tessere con grande abilità la sua tela, ridando all’Uar un ruolo da protagonista ed acquisendo un potere che mai nessun dirigente degli Affari Riservati aveva raggiunto.
D’Amato, tuttavia, fu ufficialmente a capo dell’Uar solo per un breve periodo a cavallo fra 1971 e 1972. Infatti, pur essendo fin dagli anni sessanta la figura preminente dei servizi informativi del Viminale egli preferì mantenere sempre un ruolo defilato, tenere la sua figura poco esposta, lasciando la direzione dell’Uar in mano ad altri funzionari (i vari Lutri, Catenacci, Vigevano) che, di fatto, erano alle sue dipendenze. Fu anche grazie a questa sua sorta di basso profilo che, negli anni settanta, riuscì a rimanere sostanzialmente immune da inchieste giudiziarie o da campagne giornalistiche ostili (come quelle che, ad esempio, si abbatterono sugli uomini del Sid). L’unica volta che finì nel mirino della magistratura fu nel 1976, quando fu accusato di peculato nell’ambito di un filone collaterale di una più vasta indagine su intercettazioni telefoniche abusive effettuate da uomini dei servizi. L’accusa era di aver indebitamente usato, nel 1973, fondi del ministero per acquistare 180 microspie che sarebbero state utilizzate per intercettazioni mai autorizzate dall’autorità giudiziaria. L’inchiesta, tuttavia, si sgonfiò nel giro di pochissimo tempo.


Taviani in Commissione Stragi escluse che l’organizzazione dell’Ufficio Affari Riservati potesse filtrare le notizie raccolte sul territorio per trasmettere alla magistratura solo ciò che i vertici dell’apparato ritenevano opportuno. Eppure il dubbio resta. Possibile che un’organizzazione così verticistica abbia resistito alla tentazione di “gestire le informazioni” per aumentare il proprio potere?

Il dubbio è più che legittimo visto che proprio per la sua organizzazione verticistica l’Uar era certamente in grado di tenere per sè le informazioni più scottanti e riservate senza fornirle alla magistratura (per poi magari usarle ad “altri” fini).
È nota, ad esempio, la vicenda delle borse di Padova su cui mi soffermo a lungo nel libro. Già pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana, infatti, la commessa ed il titolare di una valigeria di Padova riferirono alla locale questura di aver venduto, due giorni prima della strage, delle borse simili a quelle usate per nascondere gli ordigni usati negli attentati del 12 dicembre. La questura padovana trasmise questa rilevante informazione all’Uar che però la tenne per sé, fino a quando, alcuni anni dopo, essa non riemerse quasi per caso. Ne seguì una inchiesta che tuttavia non approdò a nulla e che non coinvolse mai D’Amato (anche perché, come detto, egli, almeno ufficialmente, non era al vertice dell’Uar e a dover rispondere di quanto avvenuto fu l’allora direttore Elvio Catenacci).
Quanto a Taviani, se nel suo libro di memorie ha sostenuto di essere sicuro che mai D’Amato nascose delle prove, nella parte della sua audizione in Commissione Stragi tenutasi in seduta segreta, alla specifica domanda del Presidente Giovanni Pellegrino se, visto il modus operandi dell’Uar non vi fosse stato il rischio che gli Affari Riservati fossero in grado di nascondere le informazioni più scottanti sottraendole all’autorità giudiziaria, l’allora Senatore a vita dette questa testuale risposta: “di questo a me è giunta eco solo per quanto riguarda Milano e la Lombardia. Ed è per questo che ho sciolto l’Ufficio Affari Riservati”.

Veniamo alla strategia della tensione. Nel libro parli di infiltrazione e di polizia parallela. Come venivano gestite queste operazioni? Vi era trasparenza o si può parlare di vera e propria clandestinità?

Studiando le attività dei servizi segreti (ed in particolare dall’Uar) negli anni della strategia della tensione è spesso difficile distinguere il confine che passava tra una legittima attività di infiltrazione in un gruppo terroristico ed una attività clandestina di provocazione.
Faccio un esempio; vi sono documenti da cui risulta che in alcuni incontri di alto livello del cosiddetto Club di Berna (come era convenzionalmente denominata una struttura “creata” da D’Amato, il cui compito era coordinare ed armonizzare il lavoro delle principali polizie europee) venne auspicata (e programmata) la necessità di una infiltrazione nei gruppi eversivi di sinistra da parte di agenti di polizia. Il che è cosa normale, se non fosse che, in certi casi, si arrivava anche ad ammettere la possibilità che l’eventuale infiltrato potesse essere uno specialista in uso di armi ed esplosivi. Circostanza che, sebbene non vi sia alcuna prova documentale, può far sorgere qualche dubbio sul labile confine che, certe volte, può esserci tra infiltrato e provocatore.
Emblematico, a suo modo, il caso della fonte Anna Bolena, al secolo Enrico Rovelli, il principale infiltrato dell'Uar tra gli anarchici milanesi del Ponte della Ghisolfa. Sarebbe stata infatti tale fonte a indirizzare le indagini sulla strage di Piazza Fontana verso la pista anarchica, nonchè a dare informazioni del tutto inventate che descrivevano Dario Fo nientemeno che come il vero capo delle Brigate Rosse. Inoltre ci sono documenti da cui risulta che sempre Anna Bolena avrebbe attribuito agli anarchici quasi tutti gli attentati dinamitardi avvenuti in Italia nel corso del 1969, anche quelli di cui è oggi certa la matrice di estrema destra. Questo dimostrerebbe che Rovelli non era un “semplice” confidente, ma un vero e proprio infiltrato responsabile dei depistaggi successivi a Piazza Fontana. Va anche detto, tuttavia, che Rovelli, davanti all'autorità giudiziaria, pur ammettendo il suo rapporto con l’Uar, ha negato di aver fornito quelle informazioni ed ha sostenuto di essere lui per primo vittima degli Affari Riservati, in quanto essi avrebbero usato il suo nome come paravanto mentre la mente dei depistaggi era solo ed esclusivamente il vertice dell'Uar.

Nella quarta di copertina c’è un interrogativo che oserei definire “decisivo” nella comprensione del ruolo dell’Ufficio Affari Riservati: “Che ruolo ha avuto l’UAR nella drammatica stagione della strategia della tensione?”. Vogliamo provare a dare una seppur sintetica risposta ai nostri lettori?

Tra i documenti inediti che riporto nel libro ve ne è uno, risalente al 1955 e la cui autenticità è certa, che sembra anticipare di quasi 15 anni gli scenari della strategia della tensione, visto che, stando a quanto si legge, all’epoca, i servizi americani stavano reclutando militanti di estrema destra da inserire in strutture segrete che avrebbero dovuto provocare artificialmente disordini sul territorio italiano per favorire l’ascesa di un governo forte. Gli stessi vertici dell’Uar si dicevano preoccupati per queste incaute azioni dei servizi angloamericani.
Venendo, tuttavia, agli anni settanta ed al possibile ruolo dell’Uar, sulla base degli elementi disponibili è plausibile ritenere che gli Affari Riservati fossero quantomeno a conoscenza di quello che sarebbe accaduto il 12 dicembre 1969.
Secondo un ex generale del Sid, tale Nicola Falde, “l’attentato di Piazza Fontana sarebbe stato organizzato dall’Uar e poi il Sid si sarebbe incaricato di coprire il tutto”, ma significative sono anche le dichiarazioni dell'ex dirigente dell'Ufficio Politico della questura di Roma, Domenico Spinella, che ha rivelato che, negli anni settanta, ogni qual volta a Roma avvenivano degli attentati, D’Amato era solito inviare all’Ufficio politico della Capitale alcuni suoi agenti di fiducia per collaborare alle indagini. Tuttavia, ha sostenuto Spinella, l’allora capo dell’Ufficio politico, Bonaventura Provenza (già funzionario dell’Uar), pur non potendo rifiutare quella collaborazione, faceva di tutto affinchè gli uomini di D’Amato non interferissero, poichè temeva che essi avrebbero potuto attuare “un qualche tentativo di depistaggio delle indagini".
Sui possibili depistaggi dell’Uar dopo Piazza Fontana, poi, rimando alle già citate vicende delle borse di Padova e della fonte Anna Bolena.
Dalla documentazione, inoltre, emerge che nel marzo 1970 due dei più noti estremisti di destra romani, i fratelli Bruno e Serafino Di Luia, all'epoca latitanti in Spagna, chiesero un contatto con gli apparati di polizia promettendo delle rivelazioni sugli attentati del 1969. Come luogo di incontro venne scelto il posto di Polizia al Passo del Brennero. Non sappiamo con certezza se questo contatto si concretizzò, anche se è provato che, pochi giorni dopo la “richiesta” dei Di Luia, un alto dirigente dell’Uar quale Silvano Russomanno si recò effettivamente al posto di polizia del Brennero. È dunque quantomai plausibile ritenere che vi sia andato per incontrare i Di Luia. Tuttavia, non esiste alcun documento che permetta di capire di cosa si discusse in quell’incontro, del quale, ovviamente, la magistratura non fu minimamente messa al corrente.
Molto interessante, infine, è un documento dell’Uar fino ad oggi inedito inerente il golpe Borghese da cui risulterebbe che dietro quella vicenda non c’era l’intento di favorire una svolta autoritaria, ma, attraverso l’uso strumentale della estrema destra, l’obiettivo era rafforzare l’assetto di potere allora esistente in Italia

Ufficio Affari Riservati e caso Moro. Sei riuscito ad individuare delle possibili connessioni tra il ruolo degli inquirenti e le attività dell’Ufficio? L’Ufficio Affari Riservati, secondo te, si è mosso più di quanto non ne sappiamo durante i 55 giorni? E se si, con quali finalità?

Nel giugno 1974 dopo la strage di Brescia, l’Uar, almeno ufficialmente, era stato sciolto ed al suo posto Taviani aveva “creato” l’Ispettorato Antiterrorismo diretto dal questore Emilio Santillo, mentre D’Amato era stato mandato a dirigere la Polizia di Frontiera. Durante la vicenda Moro, dunque, l’originario Uar non esisteva più; all’epoca, infatti, era appena stato istituito l’Ucigos che, anche in conseguenza della riforma dei servizi di fine 1977, aveva preso il posto dell’Ispettorato di Santillo.
Altro discorso è capire che ruolo ebbe D’Amato durante i 55 giorni del sequestro dello statista democristiano, in particolare all’interno dei tanto discussi Comitati di crisi creati presso il Viminale. Cossiga in Commissione Stragi sostenne che durante il caso Moro D’Amato era fuori dai giochi poiché ormai era diventato “unpolitically correct” collaborare con lui (a causa del veto posto dalle sinistre, soprattutto dai socialisti, sulla sua figura), mentre, ha aggiunto l’ex presidente della Repubblica, se ci si fosse potuti avvalere dell’apporto di una personaggio del suo calibro, le indagini avrebbero preso un’altra piega.
Tuttavia, in una missiva riservata che D’Amato inviò nel 1981 all’allora ministro dell’interno Virginio Rognoni egli scriveva di aver continuato ad occuparsi di investigazioni politiche anche dopo lo scioglimento dell’Uar ed aggiungeva che negli ultimi anni:
“non c'e' stato argomento di rilevanza di cui non sia stato chiamato ad occuparmi: dalle origini, la natura, i collegamenti internazionali del terrorismo, al caso Moro; dalla strutturazione, competenza, funzionamento dei nuovi servizi segreti, al mantenimento e sviluppo di rapporti con i servizi paralleli ed alleati”.
Dunque, è lui stesso a sostenere di essersi occupato del caso Moro; eppure ad oggi non esiste alcun documento e nessuna testimonianza capace di documentare quali compiti D’Amato svolse durante i 55 giorni del rapimento del Presidente della DC.

Nel libro si parla di collegamenti tra Federico Umberto D’Amato, Zorzi e Avanguardia Nazionale. Ma anche Sofri ha recentemente rivelato di aver ricevuto da parte di D’Amato la proposta di cooperare per l’esecuzione di un omicidio. Quindi l’Ufficio Affari Riservati aveva collegamenti non ortodossi sia a destra che a sinistra?

Non c’e’ dubbio. D’altronde, anche in questo caso è lo stesso D’Amato a confermarlo nella già citata lettera inviata a Rognoni nel luglio 1981 e che riporto all’inizio del libro. Rognoni, all’epoca, aveva chiesto a D’Amato di fornire spiegazioni sul perché si fosse iscritto alla loggia P2 (il nome di D’Amato infatti comparve nelle note liste ritrovate nel marzo 1981 a Castiglion Fibocchi negli uffici della Giole di Licio Gelli). D’Amato scrisse allora una polemica lettera di risposta, affermando di essersi incontrato con Gelli al solo ed esclusivo fine di raccogliere informazioni sulle attività della P2 e che se per questo doveva essere considerato un sodale del Venerabile allora Rognoni lo avrebbe dovuto considerare anche un fiancheggiatore del terrorismo rosso o nero, visto che, sempre a fini informativi, aveva avuto rapporti con l’estrema destra e con l’estrema sinistra.
Queste le parole testuali di D’Amato;
“Operando in modo autonomo e personale, ho preso contatto e ho sviluppato rapporti in tutti i settori e con ogni persona che ritenevo utile a tali fini. Se le mie frequentazioni dovessero essere interpretate come una scelta, io, come chiunque peraltro svolga compiti di tale genere, potrei essere considerato, caso per caso, fiancheggiatore di Autonomia Operaia o del terrorismo palestinese, agente del servizio americano o sovietico, emissario di questo o di quel partito politico (…)”
In Commissione Stragi, Andreotti (che con D’Amato ebbe pessimi rapporti) definì inquietante questo documento.
In effetti colpisce il modo sfrontato ed allusivo con il quale l’ex capo dell’Uar si rivolgeva al ministro dell’Interno in carica, “invitandolo” a smetterla di accusarlo, perché, si legge chiaramente tra le righe, altrimenti lui sarebbe stato in grado di far “tremare” il palazzo.

Un lavoro unico nella storia d’Italia e per questo motivo immagino abbia incontrato delle difficoltà nel reperimento delle fonti. Quanto è stato complicato il “puro lavoro da storico”?
Come è stato accolto il libro? Ritieni di aver, in qualche modo, svolto un lavoro scomodo?

In passato gli storici hanno avuto una forte riluttanza ad occuparsi di vicende quali servizi segreti/strategia della tensione ecc., sia perché si tratta di argomenti in cui è forte il rischio di prestarsi ad interpretazioni dietrologiche tese solo alla ricerca dello scoop a sensazione, sia perché si riteneva non fosse possibile “fare storia” su avvenimenti troppo recenti e sui quali la documentazione è scarsa e di bassa attendibilità scientifica.
Oggi, finalmente, anche fra gli storici le cose stanno cambiando e, d’altronde, ormai uno dei problemi principali è spesso proprio la sovrabbondanza di materiale e la conseguente necessità, specie allorché si maneggiano documenti dei servizi, di un rigoroso vaglio critico che consenta di separare ciò che è attendibile dalle classiche “patacche”. Quanto al rischio del sensazionalismo, io credo che dietrologia ci sia quando si parte da una idea precostituita e poi si vanno a cercare le prove che ci danno ragione. A quel punto si procede attraverso deduzioni e si elimina o sottovaluta tutto quello che, apparentemente, smentisce la nostra tesi di partenza. Per fare un esempio su un argomento che conosci molto bene; prendi il caso Moro. Se, prima ancora di guardare le carte, io mi convinco che Moro lo ha rapito la Cia, sarò poi in grado di trovare decine di elementi che apparentemente mi danno ragione, perché sistematicamente non considero o svaluto quelli che mi danno torto. Al tempo stesso se, sempre prima di guardare le stesse carte di cui sopra, sono già certo che dietro al caso Moro c’e’ il KGB, sarò a mia volta in grado di trovare altrettante evidenze che confermano la mia tesi di partenza, sempre perché andrò sistematicamente a eliminare quelle che mi danno torto.
Ecco, senza falsa modestia credo, nell’analizzare la storia dell’Uar, di non aver commesso il “classico” errore metodologico di partire dalle conclusioni e poi di andare a trovare i documenti che supportano le mie tesi di partenza.
Per questo non penso di aver scritto un libro “scomodo” e spero non venga considerato come tale. D’altronde, sebbene nel libro vi siano numerosi documenti inediti (alcuni, credo, di particolare rilievo) la mia intenzione non era quella di fare la “rivelazione sensazionale” (e ringrazio l’editore che mai mi ha chiesto, magari al fine di incentivare le vendite, una cosa simile), ma di provare a lumeggiare una parte di storia italiana che fino ad oggi aveva goduto di limitata attenzione.
Quanto all’accoglienza del libro, non mi posso lamentare, visto che, a parte qualche media che lo ha del tutto ignorato, è stato comunque ottimamente recensito da buona parte della stampa nazionale.
 
Di Manlio  08/05/2010, in Interviste (4011 letture)
Il cosiddetto "Memoriale Moro" è stato, specialmente negli ultimi anni, oggetto di studi ed analisi da vari punti di vista.

Mancava, sicuramente, una lettura delle parole che Aldo Moro scrisse dalla "Prigione del Popolo" che contribuisse alla interpretazione della personalità che caratterizzò Moro prigioniero.

E' possibile, da quelle lettere e dagli scritti, comprendere meglio il dramma umano che il Presidente della DC si trovò a vivere in quei 55 giorni?

Con quale atteggiamento psicologico Moro affrontò la sua battaglia per la vita?

In definitiva, la figura di Aldo Moro esce rafforzata o indebolita se la si interpreta dai suoi scritti come prigioniero delle BR?

A queste domande, e a molte altre, ha cercato di dare una risposta il prof. Rocco Quaglia, docente di psicologia presso l'Università di Torino in un bel libro uscito lo scorso anno per le edizioni Lindau.
"Due volte prigioniero" si intitola il suo lavoro che con molta professionalità e pacatezza ripercorre la prigionia di Aldo Moro attraverso i suoi scritti. Il ritratto che ne emerge restituisce al prigioniero la dimensione umana che a partire da quei lunghi giorni gli è stata, a poco a poco, sottratta.


Le lettere scritte da Aldo Moro durante i 55 giorni di prigionia, sono state oggetto di molteplici studi storici, politici e filologici. Il suo tentativo di analisi degli scritti per ricavarne un profilo psicologico di Moro è però molto originale. Che cosa l’ha spinta in questa analisi?


Moro fu un personaggio politico, e la sua vicenda fu considerata con riferimento unicamente al suo ruolo sociale, come se “il politico” dovesse esaurire la sua intera personalità. La conseguenza fu che ogni comportamento non rientrante all’interno di una logica politica fu rinnegato, sconfessato, condannato. Mai dai politici Moro fu considerato nella sua dimensione di “essere umano”, evidenziando qualità e aspetti che, da un lato, lo avrebbero reso una persona, dall’altro, avrebbero agevolato un’identificazione con lui. Il ruolo ha così soppiantato e oscurato l’individuo, e ancora oggi si parla del politico e non dell’uomo, privandolo dei suoi sentimenti, cioè della sua parte più vera. Ora, è precisamente di questa parte che ho voluto interessarmi, e le domande che mi sono posto sono diventate altre:
«Quali furono le strategie adottate da Moro in una situazione di assoluta emergenza?», «I suoi comportamenti tradirono segni di un disturbo post-traumatico da stress?»,
«Con quali risorse seppe fronteggiare l’angoscia e non cedere a un crollo psicotico?».
Le risposte sono tutte contenute nelle lettere: Moro ha dimostrato di possedere una personalità ben integrata, e ciò gli consentì di conservare fino alla fine un controllo sulla realtà e sui suoi eventi. Moro non ha mai manifestato, attraverso le sue lettere, indizi di una qualche forma di squilibrio, com’è stato talora sbrigativamente suggerito; comunicare questa “verità” mi è sembrato doveroso nei confronti di un uomo che ha saputo, in una situazione d’inaudita violenza, rivelarsi sul piano emotivo e affettivo di una straordinaria maturità.


Cosa si aspettava all’inizio del suo lavoro? E quali bilanci si sente di fare ora che l’ha ultimato?

Ho scritto il libro – come ho accennato - perché impressionato dall’equilibrio psichico manifestato da Moro, dalla sua lucida razionalità nell’esaminare le opportunità di una liberazione, dal suo dominio emotivo nell’affrontare situazioni d’insopportabile angoscia, dall’atteggiamento né sprezzante né remissivo, né intimorito né compiacente sia verso i “vecchi amici” sia verso i “giovani nemici”. Tutto sembrava fosse stato detto della vicenda Moro, eppure di Moro nulla era stato riferito. Questa fu l’anomalia che suggerì la mia curiosità. Non avevo un’ipotesi di lavoro, né una tesi da dimostrare, e l’idea del libro cominciò a prendere corpo soltanto quando iniziai a rendermi conto che il Moro che gli ex amici dichiaravano di non conoscere era in realtà il Moro autentico. Scoprii così un Moro che progressivamente mi convinse come psicologo e mi coinvolse come uomo. Mi sorpresero in lui sensibilità e intelligenza: era dotato di una personalità di notevolissimo spessore, e di una coscienza fuori dell’ordinario. La mia intenzione fu di ripresentare l’uomo che gli amici non riconobbero, invitandoli – a distanza di anni – a guardare e a osservare meglio “se questo è un uomo”.
Mi aspettavo una maggiore disponibilità nell’accoglienza di un Moro ritratto da un diverso punto di vista; mi sbagliavo. Devo riconoscere che Moro, a più di trent’anni dalla sua morte, non è ancora un argomento di cui si parla volentieri. Alcuni “amici”, tra quelli politicamente impegnati, mi hanno scritto, riproponendo puntualmente le ragioni adottate a suo tempo nei confronti di Moro, senza peraltro comprendere neppure un solo intento del mio libro; altri mi hanno comunicato, in vari modi, il loro completo disinteresse per tutta “l’incresciosa” vicenda. La presentazione del libro non ebbe luogo, poiché il relatore si è disimpegnato. Un solo quotidiano accolse di pubblicizzare il volume, ma senza produrre commenti propri. Il disinteresse per Moro è così grande che il mio libro non è stato esposto in nessuna libreria della mia città. Moro non è ancora morto, poiché si continua a ucciderlo.


Si era interessato già da prima del caso Moro o è una vicenda che l’ha interessata solo limitatamente alle sue analisi?

Avevo di Aldo Moro una conoscenza approssimativa e vaga. Attraverso i giornali dell’epoca, avevo seguito gli eventi che si riferivano al suo sequestro e alla sua morte, ma senza alcuna passione. Sapevo della vasta letteratura prodotta sul caso Moro, ma non avevo mai letto nulla, fino a quando, l’anno scorso, per caso, non lessi le lettere scritte durante la sua prigionia. Io sono uno psicologo e di conseguenza, leggendo, non prestai attenzione agli aspetti politici della questione, non m’interessavano; d’altra parte i “fatti” erano ormai lontani. Mi lasciai così coinvolgere soprattutto dalla vicenda umana di Moro: iniziai a valutare “quelle lettere”, da cui trasparivano intatti e vivi i sentimenti dell’uomo, unicamente con riferimento al prigioniero, ai suoi vissuti e alle ragioni invocate per la sua liberazione.
Il mio interesse per l’uomo Moro, tuttavia, non è terminato con la stesura del libro; al contrario, è iniziato con la sua pubblicazione. Io non sono in grado di comprendere quel che sta accadendo intorno al mio libro, ma trovo inquietanti i segnali che mi arrivano. Ho scritto molti libri, e non soltanto di psicologia, ma avverto che questa volta è diverso: qualcosa di Moro dà ancora tanto fastidio.


Il suo lavoro parte dal voler ribaltare l’atteggiamento comunemente attribuito a Moro, cioè “il non voler morire”, in un altro “il voler vivere”. Sembra una differenza sottile. A cosa porta, in termini di analisi, questo differente punto di partenza?

Sembra una differenza sottile, è vero, ma comporta un atteggiamento diametralmente opposto. È stato affermato che Moro non volesse morire, ed è stato di conseguenza dipinto un uomo in preda della propria paura, pronto a qualsiasi compromesso, anche a colludere con i brigatisti, pur di salvarsi. Chi non vuol morire è dominato dalla paura della morte, o almeno in questo modo noi lo immaginiamo. Ora, anche una lettura frettolosa e superficiale delle lettere sa offrire di Moro un’immagine totalmente estranea a quella che è stata ossessivamente illustrata. Io non ho trovato nessun elemento capace di rilevare in Moro la paura della morte. La morte stessa di Moro, in qualunque versione raccontata, è testimonianza di una grande padronanza emotiva e dell’accettazione di un destino, di cui egli resta Signore.
Dire che Moro desiderasse vivere comporta un diverso ritratto, quello di un uomo che non sente ancora di aver esaurito i motivi e i compiti per i quali diventa necessario esistere. Moro non era identificato alla propria maschera sociale, al personaggio noto agli ex amici; le dimensioni di Moro erano qualificate prioritariamente dai ruoli naturali, che la vita assegna, con riferimento a una famiglia. Moro non sentiva di avere motivi per morire, ma ne aveva molti per vivere. Chi pensa che Moro abbia scelto la famiglia e non lo Stato sbaglia. Moro non viveva per un’immagine, e non avvertì mai il bisogno di idolatrare la propria immagine politica; le sue ragioni erano guidate da un sentimento d’impegno nei confronti di coloro che gli erano stati affidati. La sua preoccupazione, che si estendeva a tutto ciò che rientrava nel concetto di famiglia, era vera. Moro era una persona sincera nei suoi affetti e nelle sue dichiarazioni; se noi non siamo in grado di credergli, o peggio, di non comprendere, il limite è tutto nostro.


La “Sindrome di Stoccolma” attribuita al prigioniero e con la quale si cercò di delegittimare l’autonomia di pensiero di Aldo Moro, è da lei letta “al contrario”. In pratica furono le BR a essere quasi “dipendenti” dalle volontà e, più generale, dalla personalità del loro prigioniero. Che cosa avrebbe potuto comportare un rovesciamento della “Sindrome di Stoccolma” al tempo del sequestro?

È ormai un dato acquisito che Moro non fu affetto da nessuna “sindrome di Stoccolma”; neppure si trova in lui un comportamento che possa essere letto come un tentativo d’ingraziarsi o di compiacere i suoi carcerieri. Se così non fosse stato, Moro non avrebbe potuto conservare attendibilità e rispetto presso chi lo torturava. Non chiese mai ai suoi sequestratori di liberarlo e così facendo, fornì prova di realismo e di coraggio, ossia di integre capacità cognitive di analisi e di valutazione della situazione. Chiese tuttavia ai suoi ex amici di risolvere un “problema”, che egli non viveva come suo soltanto, ma di tutti, opponendo a una ragione di Stato le ragioni di una Nazione. La storia diede ragione a Moro. Opporre forza è un modo illusorio di vincere le proprie paure, e le Brigate Rosse “hanno fatto” paura. Se soltanto si fosse desiderato comprendere quel che Moro cercava di suggerire, quando chiedeva fiducia in lui, ci si sarebbe reso conto che la sua liberazione sarebbe stata considerata come un atto di debolezza non dello Stato ma dei brigatisti. Il sequestro avrebbe perduto l’alone dell’ideologia e del gesto rivoluzionario, e sarebbe stato declassato a una mera azione di pusillanime “ricatto”. Dopo aver compiuto una strage, nulla poteva disorientare più di una liberazione; perché le Brigate Rosse fossero “credibili” nel loro delirio, non avrebbero mai dovuto aprire una trattativa con il Governo. Moro ebbe un grande ruolo in tutto questo. Il Governo ha reso forte l’immagine delle Brigate Rosse; Moro, da solo, le ha indebolite.


Nelle sue analisi, la speranza di Moro era di tornare ad essere chi era stato e quindi la disumanità della sua prigionia non disintegrò la sua identità. Lei ritiene, quindi, che se Moro fosse stato liberato sarebbe tornato pienamente cosciente del suo ruolo e recuperato appieno tutti i suoi poteri e identità politica?

È difficile rispondere a questa domanda. Intanto, Moro aveva in altre occasioni mostrato la volontà di ritirarsi dalla vita politica attiva. Accusa più volte, nelle sue lettere, Zaccagnini per averlo indotto ad accettare la carica di Presidente della Democrazia Cristiana. Sono tuttavia convinto che se ci fosse stata un’intesa con i “suoi” per la sua liberazione, egli avrebbe potuto continuare a esercitare la sua influenza. La sua intelligenza politica è fuori d’ogni dubbio. Moro aveva conservato, durante i giorni della sua prigionia, integra la sua dignità e autorevolezza, tanto da guadagnare il rispetto e la stima dei suoi carcerieri. Questi seppero riconoscere in Moro ciò che tutti gli altri non videro mai.


Moro era profondamente religioso e credeva nel valore dell’Uomo sopra ogni altra cosa. La pratica religiosa era una presenza costante nella sua vita, sin da giovane. La sua amicizia con Papa Montini era di lunga data e risaliva ai tempi dell’Università. Come ha preso, dal punto di vista religioso, Moro la lettera del Papa? Quel “il Papa ha fatto pochino. Forse ne avrà scrupolo” come può essere interpretato dal punto di vista di un uomo che quel “senza condizioni” ha contribuito a condannare a morte?

Moro ha lottato fino alla fine per evitare un lutto, non elaborabile, alla sua famiglia, e un danno irreparabile al Paese. Il Papa rappresentava l’ultimo tentativo. Penso che Moro abbia affrontato la morte nella pace, perché non aveva più nulla da rimproverarsi: ha fatto tutto quello che era in suo potere. Se desideriamo comprendere le parole di Moro, dobbiamo uscire dal nostro egocentrismo, e fare lo sforzo di valutare quelle parole il più obiettivamente possibile. «Il Papa ha fatto pochino», quel pochino va interpretato alla luce di quel che segue «Forse ne avrà scrupolo». Vi è qui una rima che improvvisamente si apre nella personalità di Moro e ci lascia intravedere una straordinaria sensibilità. Il Papa non ha fatto pochino per lui, ma innanzi tutto per se stesso; in altre parole, ha fatto pochino non con riferimento alle attese del carcerato ma rispetto a quello che, come Papa, avrebbe potuto fare, e per questo potrebbe avere degli scrupoli. Soltanto se cogliamo la preoccupazione di Moro per il Papa, possiamo comprendere quel “forse”. Molti invece hanno interpretato come se la frase dichiarasse: «Il Papa ha fatto pochino. Ne avrà scrupolo». Moro non augura alcuno scrupolo, ma si rammarica della possibilità di essere causa di un’amarezza per il Papa. Inoltre, implicitamente con quell’espressione Moro comunica la consapevolezza della propria morte. In questi dettagli si nasconde e si rivela la grandezza dell’uomo.


Nonostante l’omicidio di 5 uomini di scorta, i brigatisti sembrano cedere alla necessità di voler “adempiere alle ultime volontà” del Presidente. Lei definisce questo atteggiamento “un aspetto che ha la forma della pietà ma senza averne il potere. Infatti, non è pietà umana” e lo indica come il “lato oscuro delle Brigate Rosse”. Che cosa intende dire di preciso?

Dovremmo parlare della personalità dei brigatisti, e questo ci porterebbe lontano; inoltre preferisco ignorarli. Posso soltanto dire, parlando in generale dei terroristi di tutte le specie, che il loro movente primo è un misto di paura e di invidia. Per loro c’è un solo modo per vincere la paura e far cessare l’invidia, distruggere la fonte del potere che si teme e del bene che s’invidia: la fonte può essere identificata sia in una persona sia in un sistema. I terroristi sono affettivamente bambini, perciò manipolabili e pericolosi, per i loro processi cognitivi elementari e il loro fondamentale egocentrismo. Temerli è l’errore più grande, compiacerli la più grande colpa. Moro è il vero vincitore sui suoi carcerieri, li ha emotivamente disorientati e disarmati.


In molte lettere emergono i pensieri più intimi del prigioniero, i più sinceri. In breve, che dipinto è possibile ricavare dell’Uomo Aldo Moro analizzando i particolari più personali che emergono dalle sue lettere?

Il primo titolo del mio libro era: Aldo Moro, una personalità compiuta; poi è stato modificato con l’attuale titolo dall’editore. Se lo sviluppo psichico ha una meta, essa è sicuramente segnata dalla capacità dell’individuo di approdare affettivamente alla condizione di chi, esaurito il proprio credito dalla vita, ne diventa un debitore. Maturare in sé la gratitudine per la vita comporta la nascita del bisogno di sentirsi responsabili per gli altri in genere, per le nuove generazioni in particolare. Ho definito l’atteggiamento di Moro come ispirato dal sentimento di “responsabilità impegnata”, un sentimento proprio di una personalità genitoriale.


In molti passi dei suoi scritti emergono le premure che Moro aveva nei confronti dei suoi familiari. Parole che ci danno l’immagine di un uomo semplice, genuino. E’ comprensibile che all’epoca la cosiddetta “ragion di Stato” abbia impedito un riconoscimento pubblico della veridicità dei sentimenti umani che Moro provava e comunicava all’esterno. Ma questa è una tendenza che a distanza di oltre 30 anni non è mutata. Secondo lei perché?

Non fu “colpa” della ragione di Stato se Moro fu frainteso e rigettato; la ragione di Stato, semmai, fu il pretesto per evitare di comprendere Moro; e invocare ancora oggi, con testardaggine, una tale ragione ci fa capire quanto poco si è convinti. Che cosa dunque ostacolò e ancora impedisce di accogliere la verità dei sentimenti di Moro? Non è possibile! È un problema di livello evolutivo. Il brigatista magari sognava che il figlio abbandonato, una volta adulto, lo avrebbe idolatrato per aver “suo padre” scelto e preferito la lotta armata alla famiglia; una persona “adulta”, invece, non ha esitazione a frantumare l’idolo che lo abita, se il suo riconoscimento esige il sacrificio della propria famiglia. Il gesto eroico della personalità genitoriale sovente si consuma, per il filiale, in un’apparente viltà.


“Da parte mia non assolverò e non giustificherò nessuno” scrisse Moro in una famosa lettera al Segretario della DC Benigno Zaccagnini e rivolgendosi agli uomini del suo partito. Poi in uno scritto che non è possibile datare con certezza ma che tenderei ad escludere che possa essere considerato un brano del cosiddetto Memoriale, ringrazia i carcerieri dando “atto che alla generosità delle Brigate Rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà. Di ciò sono profondamente grato”. Probabilmente Moro pensò di aver avuto la meglio “umanamente” con i suoi carcerieri. Come reagì, psicologicamente, quando realizzò che sarebbe stato ucciso?

In quei cinquantacinque giorni di prigionia, Moro ricevette una terribile lezione di vita. Aveva pensato di avere degli amici e scopriva di non averne mai avuto. Di fronte alla morte, esperienza angosciante di per sé, e in una situazione drammatica, Moro conosce la solitudine e il tradimento da parte di chi aveva ricevuto tutta la sua amicizia. Non aveva capito nulla, anzi comprende ora quanto fosse stato ingenuo. Moro non può giustificare né assolvere nessuno, perché non riesce a perdonarsi di aver preferito il Partito, quel partito, alla Famiglia.
Penso che le parole di Moro, spese per i brigatisti, siano autentiche: sono le uniche parole con le quali manifestare i suoi sentimenti senza dover vergognarsi o pentirsi, poiché cristiano. Con il ringraziare i brigatisti, vale a dire coloro che gli hanno tolto tutto, cerca di comunicare qualcosa ai suoi ex amici, è una comunicazione rivolta direttamente al loro spirito. Non ci sono parole per dir loro nel modo più caritatevole possibile: voi siete i peggiori!
Per comprendere Moro, bisogna che passi questa generazione; per comprendere Moro c’è una condizione: conoscere se stessi. Abbiamo proiettato su Moro le nostre paure, i nostri pensieri, i nostri sentimenti; non è facile prendere coscienza che i nostri giudizi sono i nostri più sinceri giudici. Le tenebre non hanno conoscenza né consapevolezza dell’oscurità.


Un’ultima riflessione di carattere personale, stavolta. Che eredità ha lasciato Aldo Moro nella personalità del prof. Quaglia?

Moro ha affidato la sua verità ai pensieri trascritti durante la prigionia, il lettore che vuole in piccola parte avvicinarsi a questa verità è costretto a rivivere, se pure idealmente, la situazione in cui furono concepiti e affidati a fogli di carta. Chi riesce a fare uno sforzo e per alcuni attimi si lascia afferrare dall’angoscia che si addensava in quell’angusto vano, sicuramente non avverte più il desiderio di parlare di Moro, per rispetto, per pudore, per incapacità. Io mi sono, nella mia immaginazione, chiuso in quel bugigattolo per tutto il tempo che ho impiegato a scrivere questo libro; ho imparato osservando quest’uomo mentre cercava di prendersi cura della propria persona, mentre cercava di ascoltare quel che proveniva dall’esterno, mentre cercava di non disperare a ogni visita dei carcerieri, mentre pregava quando nessuno lo scrutava. Non avrei mai voluto scrivere questo libro.
 
Quarant’anni sono tanti. Quarant’anni sono due generazioni. E due generazioni non sono state sufficienti a spiegare alle vittime della strage di Piazza Fontana chi le ha volute morte e per quale motivo. O meglio: il motivo si è sufficiente capito, soprattutto se inglobato nella dinamica complessiva degli eventi che ha caratterizzato il periodo comunemente noto come “strategia della tensione”.
Quello che manca alla verità, sono gli ultimi 100 metri. Chi ha messo la bomba alla BNA? Chi ha manovrato i fili di quegli ultimi minuti di un progetto che, politicamente e storicamente, appare ormai piuttosto chiaro?

La giustizia, dopo ben 11 gradi di giudizio, si è arresa: nessun colpevole. Condanne in primo grado, appelli ed assoluzioni definitive (per insufficienza di prove nel 1987) in terzo grado. Cioè passate in giudicato, senza ritorno. Come mai? Cosa è mancato agli inquirenti, alla magistratura, al Paese per capire e rispondere al desiderio di verità delle vittime?

Possibile che tanti libri, tante inchieste, tanto materiale giornalistico e investigativo non abbiano reso possibile mettere la parola fine su quegli ultimi 100 metri? Allora forse il problema è di natura metodologica?
Paolo Cucchiarelli, giornalista d’inchiesta dell’ANSA che ha già pubblicato nel 2005 un libro sulla strage assieme al collega Paolo Barbieri, ha provato a ricostruire quegli ultimi 100 metri mettendo insieme tutti i dati (soprattutto quelli mai rientrati nelle inchieste ufficiali spesso per volontà di insabbiamento) e ha fornito una ricostruzione che tiene insieme tutti i fili ed arriva ad una verità diversa rispetto al frullato di elementi discordanti che ha contribuito a creare disordine e allontanare dalla verità chiunque si sia avvicinato all’evento.

Ma di questa verità (per carità non una “verità assoluta” ma una verità in grado di “tenere sulle spalle” l’enorme peso delle carte) non si vuole parlare. Dopo la “puntata di Stato” dell’altra sera nel salotto di Porta a Porta, cui Cucchiarelli ha giustamente declinato l’invito perché non è una trasmissione televisiva il luogo adatto alla discussione serena e documentata di una verità, è ormai chiaro un dato incontrovertibile: la verità non la si riuscirà mai a trovare perché nessuno ha davvero interesse a trovarla. Fa comodo a tutti che resti un alone di oscurità in modo tale che ciascuno lo possa poi utilizzare all’occasione per nascondere il proprio passato o per attaccare l’avversario politico sul piano del suo passato storico. Tutti d’accordo: da Mieli a Penati, da La Russa allo stesso Vespa.

Se a questo aggiungiamo la particolarità tutta italiana dell’ideologia, vernice indelebile che copre le nostre coscienze, che impedisce a quasi tutti di affrontare con serenità i fatti che non collimano con le proprie idee (spesso appoggiate su fondamenta di sabbia) ecco spiegato l’atteggiamento con cui tutto il mondo politico, giornalistico e culturale ha accolto “Il segreto di piazza Fontana”: il silenzio. A parte alcune prese di posizione “a priori” di persone che nella maggior parte dei casi non avevano neanche letto il libro, un velo di silenzio è calato sull’immenso lavoro di Cucchiarelli.
Perché? Cui prodest? Segno che ciò che ha ricostruito Cucchiarelli è proprio quella verità indicibile che ha resistito a due generazioni?

Ho provato a chiederlo direttamente a lui in questa chiacchierata che vuole rappresentare un tributo di gratitudine verso quelle vittime che non hanno potuto essere consolate neanche da una seppur parziale verità giudiziaria e verso cui lo Stato appare sempre più propenso ad indirizzare miseri e cadenzati messaggi di pietà.

Piazza Fontana, la “madre di tutte le stragi”. Quarant’anni di depistaggi per coprire un segreto indicibile. Perché è riuscito a durare tanto e quanti anni ancora sarebbe durato?

Piazza Fontana è più un segreto politico che giudiziario. Gli elementi che rendevano intelligibile la vicenda sono stati “spazzati via” prima che la magistratura potesse intuire quale poteva essere la dinamica. Nella inchiesta c’e’e una parte, la quarta, che spiega quale compromesso al vertice dello Stato abbia impedito alla magistratura di muoversi da subito verso la pista nera, quella fascista. Si deve ad un pugno di coraggiosi magistrati, Stiz, Alessandrini, Fiasconaro, D’Ambrosio ( non però per quel che riguarda la vicenda Pinelli) se con il tempo l’Italia ha potuto capire che in questa vicenda la maggiore responsabilità, quella che determina e vuole i morti, è della destra. In Italia i segreti politici sono come una torta: tutte le forze in campo inclusi il PCI e la sinistra extraparlamentare, hanno una fetta che li vede protagonisti e questo fa sì che la torta resti intatta ed intoccabile. Per rompere questa situazione bisogna far “saltare la torta”, mettere mano a tutte le fette, compresa quella, dolorosa, di Valpreda e del suo essere caduto nella “trappola” che Stato e fascisti gli tesero. Questo è l’unico modo per poter arrivare, con certezza, ad individuare la reale responsabilità. Non esiste altra strada. Questo segreto è durato tanto perché prima di ora nessuno aveva lavorato a tutte le “facce” della storia cercando di capire cosa le tenesse assieme. Perché lo Stato ha processato assieme Valpreda e Freda e alla fine abbia deciso di mandare tutti assolti. Quella fu una scelta più “politica” che giudiziaria.

Quanti anni di lavoro hai impiegato per portare a termine la tua indagine? Quale la maggiore difficoltà incontrata? E quale, invece, la sorpresa più grande?

La mia indagine dalla “intuizione” iniziale, cioè la presenza del timer e della miccia nel salone della Bna e quindi dalla possibilità che due fossero le bombe, con un ben diverso grado di responsabilità, è durata circa 10 anni. Una intuizione è molto ma serve poco se non si sviluppa. Ricordo di averla a suo tempo comunicata al giudice Salvini che mi rispose “Per molto meno mi hanno massacrato”. Lui fece tutto quello che era in suo potere per seguirla. Ricordo che mi permise di incontrare a Salò (l’ho saputo poco tempo fa dove era stato) Carlo Digilio per fargli questa domanda: ma non c’erano per caso due bombe? (ne parlo nel libro). La logica giudiziaria e ben diversa da quella che può mettere assieme un giornalista che ha una grande forza poco sfruttata : può utilizzare liberamente, combinandole in tute le varianti possibile, tutte quelle singole “verità” in cui in Italia si trovano scomposte le vicende più importanti. E’ parlo della verità giudiziaria, di quella politica, di quella storica, di quella dei singoli protagonisti ecc. ecc. Se il magistrato non trova nessuno che confermi quell’elemento non va avanti ed essendo questo il “segreto” che tutto teneva nessuno poteva all’epoca confermarlo. Ho quindi iniziato una richiesta e la vera sorpresa e’ che man mano che andava avanti i singoli elementi del “mistero” si andavano quasi da soli a collocarsi nella casella giusta. Gli investigatori lo chiamano la “convergenza del molteplice”. Quando ho scoperto che il perito che per primo indagò nella Bna aveva detto da subito che c’erano timer e miccia e che due erano le borse direttamente coinvolte nell’inchiesta ho preso di lena ad indagare, a raccogliere elementi a leggere tutto e ad incrociare le novità accorgendomi che c’erano delle cose, degli oggetti, che da subito erano stati sottratti alla vicenda giudiziaria. Li ho reimmessi nella storia e questa ha cominciato a “girare” in ben altro modo. Ancor maggiore è stato lo stupore quando ho cominciato a capire che tutta la storia era “doppia” visto che io sono uno dei sostenitori in Italia dello “Stato parallelo”. Ancor più quando gli anarchici parlarono da subito di altre bombe previste il 12 dicembre e quando mi sono accorto che anche Alessandrini si era posto la stessa mia domanda: ma non è che due erano le bombe esplose alla Bna secondo il più classico degli schemi operativi utilizzato dai servizi segreti. Quando ho visto una copertina di Epoca del gennaio 1970 che appaiava Valpreda ad Oswald e quando ho constatato che l’ultimo processo era fallito proprio sul fatto di non aver considerato che le bombe in mano ai fascisti non erano quelle che erano “ufficialmente” scoppiate ma quelle che servivano per il “raddoppio” non mi sono più fermato. Dalla prima intuizione al libro sono passati 10 anni. Ho fatto tante altre cose ma non ho mai mollato questa storia e le relative ricerche che non sono state facili. Ho fatto tutto da solo, parlando con pochissime persone.

La tua inchiesta potrà essere la parola definitiva a ciò che ci interessa sapere sulla strage e sul ruolo giocato dai diversi attori, o diventerà un nuovo tentativo di avvicinarsi alla verità senza aggiungere molto di più a quanto già non si sappia?

Credo che si sia tolto il “tappo” che impediva di fare il “salto di qualità” nella interpretazione dei fatti. Credo che altro possa arrivare. Lo spero.

“Il segreto di piazza Fontana”. Chi sono i protagonisti di questo segreto? Quali apparati, soggetti, gruppi hanno avuto un ruolo nel segreto e nel mantenerlo?

A livello politico un po’ tutti. Segnalo il paragrafo sulla presenza di uomini de l’Anello nella vicenda. Sono loro che sovrintendono nel controllo degli anarchici, loro che fanno da “scorta” a Ventura quando consegna agli anarchici le “bombe in più”, loro uomini sono operativi a Padova, indagano sulla morte di Feltrinelli e su quella di Calabresi. Rinvio per chi volesse approfondire al volume “L’Anello della repubblica” di Stefania Limiti.

Potrà apparire paradossale, ma più che un punto di arrivo questa tua inchiesta potrà essere un punto di partenza che potrà fornirci nuove chiavi di lettura su quegli anni. Cosa ti aspetti di nuovo dopo l’uscita del tuo lavoro?

Mi aspetto un “ricasco” anche in sede giudiziaria e che qualcuno si senta finalmente libero di parlare, anche a sinistra, il settore politico che più ha pagato per questo segreto. Il settore politico cui appartengo.

Un lavoro come il tuo (700 pagine di pura inchiesta) in Italia non si era mai visto e su un argomento come la strage di piazza Fontana era, francamente, impensabile che si potesse fare. Cosa ha impedito che, in passato, un giornalista potesse condurre un’indagine simile?

Non lo so. Io non ho lavorato “a scenario”. Ho indagato come se la strage fosse avvenuta il giorno prima. Ho utilizzato un mio metodo di ricerca che sfrutta tutte le interpretazioni: quella deduttiva, induttiva, il riscontro, la lettura sintomale ecc. Un metodo che da due anni insegno, con soddisfazione al master in giornalismo investigativo promosso dall’Agi a Milano e che ora inizierà anche a Roma. Un metodo che mi ha permesso di “estrarre” tante novità da una storia che sembrava ormai chiusa, definitiva, morta.

Tanti hanno scritto e hanno detto su piazza Fontana, senza però mai giungere a smascherare colpevoli e mandanti. Per limiti storici o di metodo?

Ci vuole apertura mentale, metodo e voglia di addentrasi in luoghi dove non vi sono “mappe” di alcun tipo. Un lavoro molto faticoso, che procura grandi stress, molti dubbi e una sorta di “spaesamento”. Se si lavora con rispetto dei dati questi , alla fine, “parlano”. Garantito.

Perché inquirenti e magistrati non sono riusciti a giungere alla verità nonostante 40 anni e 11 gradi di giudizio?

Perché la verità giudiziaria è solo una delle verità e i metodi per arrivarci possono essere facilmente manipolati o condizionati.

Piazza Fontana, Pinelli, Calabresi. Tanti morti un unico segreto. Possiamo adesso affermarlo con chiarezza?

Il segreto della strage e’ una sorta di ‘matrioska’ che ha al suo interno anche la morte di Pinelli e , probabilmente, almeno una percentuale della morte di Calabresi. Io ho cercato di raccontarlo e dimostrarlo. Tocca ai lettori dire se ci sono riuscito.

Pensi che il “segreto” che è stato alla base della mancata verità su piazza Fontana sia in qualche modo collegato anche ad altri eventi tragici di cui ancora oggi sappiamo poco?

Si. Il modulo usato può essere stato ripetuto come anche l’utilizzo dell’esplosivo che era in mano ai fascisti, un plastico jugoslavo che aveva Ventura, avevano i fascisti veneti e aveva il giro dei fascisti implicati nella strage di Brescia.

Da chi ti aspetti maggiori resistenze ad accettare il tuo lavoro?

Da una certa sinistra. Gli attacchi ci sono già stati. Altri ci saranno. La migliore risposta è una spassionata lettura del libro che risponde a tutte le critiche che finora sono state avanzate.

Cosa ti aspetti dai familiari delle vittime? Secondo te, cosa cambierà nella loro percezione dei fatti?

Dall’avvocato delle vittime, Silicato, e dai familiari delle stesse, presenti alla presentazione fatta nel salone della Bna il 28 maggio, sono venute parole di grande apprezzamento. Elogi e valutazioni positive sulla serietà, sul rigore del lavoro.

Il libro ha avuto un lancio “a sorpresa” sul mercato. Si è saputo qualcosa solo il giorno prima e nella conferenza stampa di presentazione del 27 maggio le risultanze del tuo lavoro sono state solo “sintetizzate”. Le successive recensioni hanno mosso forti critiche alle tesi emerse dall’inchiesta ma senza che nessun dubbioso avesse letto il libro. Un pregiudizio politico prima ancora che di merito. Come te lo spieghi?

Sono le resistenze di chi teme che il mio libro dica una verità politicamente imbarazzante

La trappola agli anarchici era stata preparata nel tempo e confezionata alla perfezione (addirittura prestando attenzione alle borse che avrebbero dovuto esplodere e non, al loro contenuto, ai piccoli depistaggi, ecc). Il tutto fa pensare ad una mente molto raffinata, uno stratega del terrore di alto livello. Se questo è verosimile, lo scenario che si prefigura dentro e attorno allo Stato ed alle sue istituzioni è allarmante. In quale Stato abbiamo vissuto? E, soprattutto: quello attuale quanto è realmente diverso?

Uno Stato parallelo. Il libro lo dimostra. Due bombe, due taxi, due ferrovieri, due armieri del gruppo ordinovista, due “Valpreda”. Cosa è questo se non il modulo operativo di quello Stato parallelo a cui io e Aldo Giannuli abbiamo dedicato un fortunato libro 10 anni fa?
 
Ha lavorato tre anni, Stefania Limiti, per confezionare un lavoro di inchiesta che getta una nuova luce su tre vicende chiave della nostra storia contemporanea.
La sua ricerca su l'Anello, infatti, ha portato a conoscenza del grande pubblico due grandi novità:
1) l'esistenza di un servizio segreto clandestino (!) che ha agito al di fuori delle regole democratiche rispondendo ad un numero limitato di potenti della politica
2) alcune vicende chiave degli anni '70 (Kappler, Moro e Cirillo) diventano adesso più "leggibili" perchè acquisiscono un senso logico che prima della conoscenza del "Noto Servizio" non era possibile immaginare.

Le carte che dimostrano l'esistenza del Noto Servizio, si sa, sono state scoperte da Aldo Giannuli nel corso della sua collaborazione con la Procura di Brescia in relazione alla strage di piazza della Loggia (28 maggio 1974).

Ma la scelta di Stefania, giornalista professionale e tenace, è stata di non utilizzare quel materiale per evitare di sconfinare il proprio ruolo di giornalista. Ha deciso di svolgere un lavoro d'inchiesta, attingendo alle fonti pubbliche (libri, articoli, interviste) e contatti personali per  confezionare un lavoro rigoroso ma che non ha la pretesa di "dimostrare" ed "emettere sentenze". Il suo, piuttosto, è un libro denuncia, un libro che ha avuto il coraggio di inoltrarsi nella pericolosa palude delle "doppiezze" dello Stato senza farsi spaventare da pur importanti fantasmi.

Un lavoro che ha trovato anche il successo del pubblico. Non a caso. Perchè è scritto bene, non è retorico o dietrologico, lascia molte porte aperte e fa riflettere molto. Fa riflettere sul fatto che alle nostre spalle tramava un potentato di politici senza scrupoli che, pur di ottenere i propri scopi, non ha esitato nell'avvalersi di personaggi quanto meno ambigui che hanno sempre vissuto nell'ombra.

Per approfondire:
Tutto sul libro - dal sito di ChiareLettere

Presentazione del libro a Roma il 16 giugno 2009
Con Stefania Limiti: Massimo Brutti, Giancarlo De Cataldo, Giuseppe De Liitis. Modera: Sandro Provvisionato.

Intervista a TV RED

Intervista a Radio Missione Francescana


Si parla spesso di “servizi deviati” ma, nel caso dell’Anello, tutto poteva essere tranne che una struttura deviata. Cosa è stato realmente e quale era il suo ruolo?

Effettivamente, l’esistenza dell’Anello, o Noto Servizio, non ha nulla a che fare con i più noti casi di deviazione dei servizi segreti: era una struttura di ‘intelligence’ clandestina, al servizio del potere politico o, meglio, di un pezzo del potere politico dal quale prendeva ordini. Il suo ruolo era proprio quello di assicurare l’esistenza di questo potere, una missione che è perfettamente riuscita.


Perché lo Stato avrebbe dovuto dotarsi di una struttura così “atipica”? Non ce n’erano già in abbondanza da Gladio ai servizi ufficiali?

Una struttura ‘atipica’ era una garanzia di segretezza: tanto che siamo qui a parlarne a distanza di molti anni, dunque l’anonimato dei suoi membri è stato ben mantenuto. Chi poteva chiedere conto a uomini invisibili del proprio operato? Il nome di Adalberto Titta, un signore di 120 chili, ex repubblichino, di provata fede fascista, il factotum dell’Anello, non compariva in nessun elenco ufficiale, chi poteva andare a bussare alla sua porta? I servizi segreti ufficiali sarebbero stati ‘bruciati’ da tante operazioni sporche ed anche una struttura segreta come Gladio aveva una sua ufficialità, visto che è nata sulla base di accordi atlantici, anche se è stata anch’essa coinvolta in compiti operativi diversi da quelli originari - basti pensare al centro ‘Scorpione’ messo in piedi in Sicilia all’inizio degli anni 80.


Otimsky, ufficiale ebreo di origine polacca del quale si conosce solamente il nome in codice, era stato il primo "responsabile" della struttura. Durante la guerra di liberazione, Otimsky incrocia il generale Anders che diventò cittadino onorario di Ancona e Bologna per il suo impegno nella lotta per la cacciata del nazi-fascismo. Il suo collega Guidelli de "Il Resto del carlino" ha notato come Anders insignì Mino Pecorelli (partigiano a soli 16 anni) di un'alta decorazione al valore militare. Puo' essere questa conoscenza la prova che Pecorelli conoscesse l'Anello sin dalla sua fondazione, visto che in alcuni suoi articoli ha fatto riferimento al "Noto servizio"?

Certo, può essere che il generale Anders sia stato il trade-union tra questi personaggi ma questa è una matassa che spero verrà sbrogliata definitivamente in sede storica. Sappiamo bene, tuttavia, ed è quel che conta, che Mino Pecorelli conosceva bene il Noto Servizio e la sua capacità di fare affari tramite il petrolio.

Veniamo al caso Moro. Secondo Pierluigi Ravasio (l’ex gladiatore che ha tirato in ballo il colonnello Guglielmi) l’Anello seppe di via Fani mezz’ora prima tramite “Franco”, nome di copertura di un suo elemento infiltrato nelle BR. Secondo lei la struttura era comunque a conoscenza del progetto brigatista pur non sapendone di preciso le modalità operative?

Ravasio naturalmente non parla dell’Anello e quando si riferisce a ‘Franco’ non lo identifica con un membro di questa struttura: da alcune testimonianze, che riporto nel mio libro, emerge che questa ipotesi non è così lontana dal vero. Del resto, era ampiamente nota e mai spiegata la presenza in via Fani del colonnello Guglielmi che faceva parte di un comitato occulto del Sismi frequentato anche dalla compagnia dell’Anello.


L’Anello si rivolge a Cutolo per ricevere aiuto nella ricerca della prigione di Moro. Attraverso i suoi contatti con la Banda della Magliana, si arriva a via Gradoli proprio nei giorni in cui tale nome emerge nella famosa seduta spiritica di Zappolino. Ma i politici di riferimento dell’Anello, fermano le operazioni perché non sono più interessati alla salvezza di Moro. Quindi la prigione viene individuata ma l’Anello viene stoppato. E da questo punto in poi cosa succede, secondo lei?

Dopo anni di studi da parte di autorevoli storici ed osservatori, il caso Moro è ancora una galassia piena di buchi neri. Io ho solo raccolto materiale per tentare di capire cosa c’entrasse l’Anello con il caso Moro. Se, come appare con forte evidenza, Moro era in via Gradoli e gli uomini dell’Anello erano stati informati di questo, allora è chiaro che lo Stato, almeno i referenti politici del Noto Servizio, hanno evitato una felice soluzione della vicenda e da quel momento sono iniziate oscure trattative che hanno condotto alla inevitabile morte di Moro.


Secondo lei esiste una relazione tra l’informativa su via Gradoli fornita dall’Anello e l’informazione nata a seguito della seduta spiritica successivamente riferita da Romano Prodi a Umberto Cavina il 4 aprile? Sottolineando come, proprio la notte tra il 4 ed il 5 aprile (da quanto riportato nel suo libro) esiste una seria possibilità che Moro sia stato spostato da via Gradoli…

Non ho una risposta certa alla sua domanda, posso solo mettere insieme i fatti i quali ci dicono che l’Anello aveva saputo dove era tenuto prigioniero Aldo Moro, cioè via Gradoli, e che questo nome venne fatto girare con modalità anche curiose, come quelle della seduta spiritica: ma l’ipotesi di via Gradoli fu subito scartata dagli inquirenti. Tanta fretta non è stata sicuramente saggia.


Nel suo libro sono riportati una serie di riferimenti d’epoca tratti dagli articoli di Mino Pecorelli, nei quali si deduceva chiaramente come egli fosse a conoscenza delle informazioni su via Gradoli in possesso dell’Anello. E’ probabile che se sapeva Pecorelli, potessero sapere anche altri personaggi delle “strutture ufficiali”. Nessuno agì perché non fu in grado o perché la coltre che custodiva il segreto, era in grado di non far sfuggire nulla?

Nessuno può credere che la coltre era così fitta e, comunque, mi pare che ormai dopo tanti studi e riflessioni sul caso, penso in particolare all’ultimo lavoro di Peppino De Lutiis, Il Golpe di Via Fani, o al libro di Sandro Provvisionato e Ferdinando Imposimato, Doveva morire, sia consolidata l’idea che fuori dalla sua prigione potenti forze non volevano che Moro tornasse al suo impegno attivo.


Poco tempo dopo l’omicidio Moro, l’Anello intervenne con successo nella mediazione con le BR di Senzani che avevano rapito Ciro Cirillo, mediazione che riuscì e con una contropartita tutt’altro che irrisoria per lo Stato. Nel caso Cirillo il tutto fu fatto agendo su livelli nascosti e le trattative e i contatti intercorsi sarebbero restati segreti. Ma è un dato di fatto che la politica, attraverso i servizi, mediò e riuscì a liberare Cirillo il quale ha recentemente dichiarato che « Moro poteva essere salvato pagando un riscatto in denaro ». Moro, si è detto, rappresentava lo Stato e non semplici interessi di provincia. Fatte salve le ovvie differenze dimensionali con il caso Moro una trattativa segreta si era in grado di farla? O no?

Uno Stato è sempre in grado, se vuole, di condurre una trattativa, segreta o meno. Il caso Cirillo lo dimostra.


Poco dopo la liberazione di Cirillo per la cronaca, il numero uno dell’Anello Adalberto Titta, morì. Può essere che qualche altro personaggio si sia mosso autonomamente per superare lo stop ricevuto ufficialmente dall’Anello e magari sia morto poco dopo per tutelare la struttura e le sue attività?

I sospetti sulla morte di Titta sono riportati nel libro. Per il resto siamo nel campo delle ipotesi.

Quale è stato il momento più difficile di quest’indagine?

Ci sono stati tanti momenti difficili, a dire il vero, soprattutto ogni volta che pensavo che non potevo farcela a mettere insieme tanto materiale. Però, le persone che ho incontrato, anche se non hanno voluto rendere pubblico il loro nome, nella sostanza mi hanno sempre incoraggiata ad andare avanti perché, tra mezzi silenzi e qualche ammissione, mi hanno confermato che quella che stavo percorrendo era la via giusta.


Quali reazioni si aspettava dalla pubblicazione della sua inchiesta e quali aspettative, secondo lei, sono andate maggiormente deluse?

Non mi aspettavo sconcerto, né attivismo da parte della classe politica. Posso dire però che molte persone hanno seguito le presentazioni del libro, con inatteso interesse, con partecipazioni e questo mi pare che sia un segnale importante positivo.


Quale pensa che dovrebbe essere, adesso, il passo successivo? E da chi dovrebbe essere compiuto?

Ognuno dovrebbe seguire la sua responsabilità: ad esempio, il Comitato parlamentare per i servizi segreti, il Copasir, ha chiesto alla procura di Brescia di poter visionare le carte dell’inchiesta sull’Anello. Ecco, intanto spero che qualcosa accada e non finisca tutto in una bolla di sapone, visto che Franco Frattini, quando era presidente di questo organismo, fece una analoga richiesta alla Procura ma tutto svanì nel nulla.


I primi documenti sul “Noto Servizio” sono venuti alla luce grazie ad un consulente della Procura di Brescia, lo storico Aldo Giannuli, che ha anche portato avanti delle indagini e ha fatto delle relazioni per il processo della strage di “piazza della Loggia”. Poi il suo collega Paolo Cucchiarelli ha svolto una sua inchiesta che ha dato luogo agli articoli su “Diario” nel 2003. Per realizzare il suo libro, ha collaborato con Giannuli e Cucchiarelli? Ha utilizzato il loro materiale o si è avvalsa prevalentemente di documenti pubblici?

Lo storico Aldo Giannuli ha avuto l’intelligenza di scoprire le carte: da lì è partito tutto ma la mia inchiesta giornalistica è nata solo quando un signore che aveva fatto parte dell’Anello ha cercato Paolo Cucchiarelli, autore degli unici due articoli esistenti sul Noto Servizio. Paolo mi ha ‘ceduto’ il lavoro, come racconto nel libro. Volevo coinvolgere il professor Giannuli con un’ intervista ad hoc ma, purtroppo, ho dovuto rinunciare all’idea perché ho saputo da una fonte editoriale che stava scrivendo sull’Anello – tanto che, per correttezza, non ho utilizzato la sua relazione alla Procura di Brescia, come chiunque può ben riscontrare, e ciò proprio per rispettare il lavoro dello storico e contare solo sulla mia ‘fatica’ da giornalista. Tra l’altro, un editore ha rifiutato il mio progetto proprio perché contava di poter pubblicare quello di Giannuli, motivo per il quale sono ancora più riconoscente nei confronti di Lorenzo Fazio che ha creduto nel mio lavoro.
 
Il 10 giugno 1981, le Brigate Rosse di Giovanni Senzani rapirono, a San Benedetto del Tronto, Roberto Peci un piccolo passato come aspirante brigatista assieme al fratello Patrizio che, invece, non solo fece il "grande salto" diventando capo della colonna torinese delle BR ma, nel 1980, il suo pentimento portò a oltre 70 arresti ed un colpo decisivo sia dal punto di vista organizzativo che di conoscenza del fenomeno che da 10 anni attraversava l'Italia.
Sono passati tanti anni senza che la storia di Roberto Peci vedesse qualcuno disposto a raccontarla. Dopo un libro uscito nel 2005 ad opera del giornalista Giorgio Guidelli "Operazione Peci", arriva un documentario a firma di Luigi Maria Perotti, giovane regista marchigiano che ha ripercorso la storia dei due fratelli di San Benedetto dei quali ancora in molti nella cittadina marchigiana preferiscono dimenticarne l'esistenza.

Perotti, con coraggio, si è avventurato in un ginepraio di carte, riuscendo a coinvolgere, nel suo progetto di ricostruzione, anche la sorella Ida Peci e la figlia di Roberto che non ha mai potuto vedere il padre in quanto al momento dell'uccisione la mamma Gabriella era incinta.

“L’infame e suo fratello” è un film documentario di 92 minuti (co - produzione internazionale Rai (Italia) – NDR (Germania), è stato distribuito in Germania, Svizzera ed Italia ed è stato presentato al Festival di Roma (sezione Extra d’essai), a Documentary in Europe (Bardonecchia), nella rassegna 70/80 organizzata dal Museo del Cinema di Torino e nella rassegna per i documentari d’autore SUNDOC, organizzata dalla Cinemateca di Copenaghen.



L’Infame e suo fratello. Un film ben fatto che racconta, per la prima volta, la storia dei fratelli Peci a partire dalle origini a San Benedetto del Tronto. Lo vedremo in Italia?
Il film è stato presentato al Festival del Cinema di Roma, nella sezione “extra d’essai” – Cinema del Reale e in alcune rassegne. La versione ridotta è andata in onda all’interno del programma “La Storia siamo noi di Giovanni Minoli” e su History Channel.

Come le è venuta l’idea è perché ha pensato di raccontare proprio la storia dei Peci?
Io sono nato a San Benedetto del Tronto, proprio come Patrizio e Roberto e abitavo a qualche centinaio di metri da casa loro. Ma questo è solo uno dei motivi. Nel 1981 avevo sei anni, troppo pochi per capire cosa stesse accadendo. Per anni tornando da scuola mi capitava di passare davanti casa di Ida Peci e vedere la camionetta dei carabinieri che mitra alla mano pattugliavano la zona.
Poi, come quasi tutti a San Benedetto, ho dimenticato. Fino a quando, nell’era del terrorismo mediatico i video dei terroristi islamici hanno cominciato ad invadere l’etere di ogni angolo del pianeta.
Mi venne in mente che questa cosa era accaduta proprio dietro casa mia tanti tanti prima. E così ho iniziato a lavorarci

Quali sono le principali difficoltà incontrate nel realizzare il film?
Le persone dimenticano. Penso sia normale e per certi versi anche un bene.
La mente umana elabora quello che ha vissuto e a distanza di un quarto di secolo ricorda solo quello che l’aveva colpita. Spesso nelle interviste emergevano dati contrastanti. All’inizio pensavo a chissà cosa ci fosse dietro quelle imprecisioni che mi sembravano dette per coprire chissà quale altra verità, poi ho capito che non era così.

Come ha accolto la famiglia Peci questa sua idea? E’ stato difficile riportare Ida a quei giorni?
Ida ha fatto un salto nel passato. E’ stato doloroso per lei, ma nonostante tutto sentiva il dovere di farlo per Roberto. Non le andava giù che suo fratello, un lavoratore, un proletario, un uomo che in tutta la sua vita non aveva mai fatto male una mosca, venisse messo al muro e ucciso da traditore, da persone che predicavano una rivoluzione del popolo, ma attuavano vendette trasversali in stile mafioso contro esponenti del popolo stesso.

Dei Peci, si sa, non è disponibile molto materiale. Persino dei 7 comunicati delle Br nei 55 giorni del rapimento sono presenti solo alcuni stralci tra le carte processuali. Come ha risolto il problema delle fonti?
Ho usato gli atti dei vari processi, soprattutto quello relativo a Senzani e company che si è svolto presso il tribunale di Macerata. Particolarmente importante è stato il memoriale di Roberto Buzzatti, il carceriere di Roberto, divenuto poi pentito e testimone chiave di quel processo.
Un film documentario ha bisogno soprattutto di testimonianze ed avrei voluto intervistare le persone coinvolte, ma nessuno dei brigatisti del “Fronte delle Carceri” di Senzani ha voluto partecipare. Alcuni, dopo avermi dato la massima disponibilità, si sono ritirati all’ultimo minuto. Hanno una nuova vita, sono circondati da persone che poco sanno del loro passato e molto serenamente hanno ammesso di non avere la forza per rimettere tutto in discussione.
Altri hanno avuto un approccio completamente diverso.
Ricordo ancora la telefonata con Stefano Petrella, uno degli autori materiali dell’omicidio. Mi ha detto, molto cordialmente a dire la verità, che non era disposto ad analisi speculative di stampo giornalistico o documentaristico. Parlerà di Brigate Rosse solamente il giorno in cui il Parlamento deciderà di affrontare il tema, in maniera politica.

In occasione della riedizione di “Io, l’infame”, si è animata una polemica tra il Maresciallo Incandela e Patrizio Peci relativa alle reali motivazioni che avrebbero spinto l’ex brigatista a collaborare con la giustizia. All’accusa di Incandela che i veri motivi che portarono Peci al pentimento furono molto più dipendenti dal richiamo della “gola” che “dell’anima”, Peci ha replicato accusando a sua volta l’ex capo delle guardie carcerarie di Cuneo di essere un “boia” senza scrupoli, e di non avere alcun merito del suo pentimento. Che idea se ne è fatta lei?
Se dopo tutto quello che è successo si trovano dopo 25 anni a litigare per un paio di quaglie, forse si sono persi qualche passaggio.

La ripubblicazione di Io, l’infame è stata una nuova occasione per far riemergere la polemica sul presunto (almeno secondo qualcuno) doppio arresto di Patrizio Peci. Quale è la sua opinione su questa storia?
A mio avviso, porre l’accento su questo aspetto è abbastanza sterile.
Lo Stato era in guerra con i terroristi e mi sembra plausibile che gli uomini dello stato abbiano provato ad entrare in un’associazione segreta di cui sapevano poco o niente, infiltrando qualcuno al loro interno. Qualcosa di simile era già accaduto con Frate Mitra per l’arresto del primo nucleo e potrebbe essere accaduto ancora, quando il generale Dalla Chiesa ha assunto il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo. Detto questo non ci troverei nulla di strano, ma non ho trovato nessuna prova del doppio arresto di Patrizio e non credo che lui, da brigatista, abbia mai lavorato per conto dei Carabinieri.
Non ci sono prove. E di illazioni su questi anni ce ne sono pure troppe.

Come hanno vissuto i familiari di Peci in tutti questi anni?
Certe cose non si dimenticano molto facilmente.

Durante il sequestro di Roberto Peci, i brigatisti chiesero alla famiglia di dichiarare pubblicamente che le confessioni del prigioniero corrispondevano al vero. Il loro obiettivo era che in cambio della liberazione di Roberto, avrebbero probabilmente portato alle dimissioni di due “pericolosi” nemici come il giudice Caselli ed il Generale Dalla Chiesa. La RAI si rifiutò di ospitare la sorella e la moglie di Roberto, ed il loro appello fu raccolto solo da Radio Radicale. Purtroppo, non servì a nulla. C’era una via d’uscita a quella vicenda?
Nel film Ida Peci ha voluto leggere la lettera che le ha inviato Roberto Buzzatti, uno dei carcerieri di suo fratello. Buzzatti le ha scritto che Senzani era disposto a salvare Roberto Peci solo nel caso in cui le istituzioni avessero ammesso il doppio arresto. Considerando che quelle stesse istituzioni non permisero nemmeno la messa in onda di quel video dell’orrore, non credo.

Il momento più toccante del film è quando Roberta Peci, figlia di Roberto nata dopo la morte del padre, si lascia andare ad una riflessione: “Se mio zio non si fosse pentito, mio padre non sarebbe stato ucciso”. Un’amara considerazione, non le pare?
Sicuramente. Dal punto di vista di una ragazza cresciuta senza il padre, gli affari di Stato diventano irrilevanti.

Secondo lei la storia di Roberto e Patrizio Peci presenta ancora dei lati oscuri? Quali?
A mio avviso, più che la storia dei Peci è la figura di Giovanni Senzani a presentare delle zone d’ombra. Quello che subito dopo l’arresto i giornali battezzarono professor Bazooka, ha un ruolo tutto da chiarire in questa fase degli anni di piombo. Ora ha scontato la sua pena ed è tornato ad essere un uomo libero, ma non ha voluto incontrare Ida. Nell’unica dichiarazione rilasciata dice di essere rammaricato di non aver i soldi per ripagare le vittime, ma non spiega le ragioni dei suoi contatti con i servizi segreti e la camorra.

Nel film, Ida Peci torna a Roma per parlare con Sergio Zavoli, all’epoca Presidente della RAI, e chiedere una spiegazione per il gesto che, 27 anni fa, costò la vita al fratello. Zavoli non la riceve e si affida ad un comunicato nel quale ribadendo che, se si fosse comportato diversamente, si sarebbe creato un precedente che avrebbe spinto le Br ad altre iniziative del genere. Non era evidente che il caso Roberto Peci era “particolare” e che non si trattava di un rapimento qualsiasi del fratello di un pentito?
Zavoli ha scambiato quattro chiacchere con Ida in un corridoio del Senato, ma non ha voluto le telecamere. Sinceramente non so cosa si siano detti.


Luigi Maria Perotti ha voluto offrire ai lettori di Vuoto a perdere un ricco promo del suo documentario. Lo ringrazio ed invito tutti voi a visionarlo

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Di Manlio  10/06/2009, in Interviste (1905 letture)
Da questo post puoi accedere rapidamente alle interviste pubblicate:

Data
Intervista  
10/06/2009 Luigi Maria Perotti (i fratelli Peci)
 
18/04/2009 Vincenzo Manca  
16/03/2009 Manolo Morlacchi  
02/01/2009 Franco Piperno (il Caso Moro)  
21/10/2008 Giorgio Guidelli (Il caso Peci)  
01/09/2008 Franco Piperno (il '68 quarant'anni dopo)
 
14/07/2008 Nicola Biondo e Massimo Veneziani  
23/04/2008 Giuliano Boraso e Nicola Biondo  
25/12/2007 Marco Cazora  
03/09/2007 Prospero Gallinari  
15/06/2007 Valter Biscotti  
28/05/2007 Vladimiro Satta  
25/04/2007 Tommaso Fera e Giuliano Boraso  
16/03/2007 Giuseppe Ferrara  
 
Di Manlio  16/04/2009, in Interviste (3077 letture)
Il Sen. Vincenzo Manca è stato per 5 anni vice presidente della "Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi".

Ha lavorato assieme al presidente Giovanni Pellegrino e, insieme, hanno portato l'organismo parlamentare a dei risultati importanti.

Il trentennale del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è stata l'ennesima occasione persa per poter parlare della vicenda a distanza di trent’anni potendola affrontare come un avvenimento lontano cercando di far emergere nuovi elementi utili alla ricerca della verità condivisa.  In molti si attendevano dalla ricorrenza nuovi contributi, nuovi saggi, un nuovo impulso verso un’analisi più completa verso la ricerca di responsabilità ancora tutte da chiarire.
La risposta editoriale all’evento è stata imponente, quasi impossibile tener conto delle pubblicazioni e difficile seguire le tante trasmissioni che si sono avvicendate nell’etere soprattutto a cavallo del 16 marzo 2008. Ma novità, niente. Tutti allineati sulle responsabilità note e sull’impossibilità da parte dello Stato di giungere ad una conclusione positiva.

Il Senatore Manca ha avuto il merito di proporre una riflessione intensa e critica sui percorsi giudiziario, parlamentare, saggistico, e pubblicistico che la ricorrenza ha proposto al Paese, nel tentativo di accendere “documentalmente” fasci di luce su molte ambiguità, contraddizioni, ritrattazioni. Ne è uscito fuori un lavoro diverso dagli altri perché esposto con chiarezza, linearità e oggettività. Le speculazioni “complottistiche” hanno lasciato il posto all’analisi delle carte e queste, secondo Manca, portano di fronte ad un’unica pista: il “nodo fiorentino”, ovvero quell’area di consenso ed appoggio di cui le BR hanno fruito nei giorni del sequestro e che è stato il vero “cuore pulsante” dell’intera operazione.

1) Cinque anni di vice-presidenza nella Commissione Stragi cosa le hanno lasciato? E quale contributo hanno lasciato al Paese?

Nei cinque anni di attività parlamentare svolta presso la Commissione Stragi, ho vissuto esperienze straordinarie ed illuminanti relativamente ai contesti ed alle ragioni che hanno fatto vivere al nostro Paese momenti tragici. Ciò non vuol dire, tuttavia, che nell’ottica dei risultati formali dell’organismo in argomento, i singoli tasselli del lavoro svolto siano stati tutti “positivi”, dovendo considerare non solo i non pochi pregiudizi (personali, ideologici e di partito) di alcuni Commissari sulle vicende oggetto di indagine (su quella di Ustica, in particolare), ma anche le aprioristiche preclusioni di alcuni ambiti politici ai fini di una condivisione di indirizzi “indagativi” e di valutazioni dei riscontri bipartisan. Il tutto non poteva non lasciare il “segno” nelle persone con onestà intellettuale ed in particolare in chi, come chi scrive, sia cresciuto, formato ed educato, nelle Istituzioni, nel vedere prioritariamente il bene di queste ultime e del Paese e non solo quello di questa o di quella forza politica, ben sapendo peraltro che i partiti spesso curano soprattutto il risultato immediato in termini di consenso e di interesse di parte, mentre le Istituzioni ed il Paese conservano inalterata la loro “mission”, cioè il bene della collettività e dei “valori” base della vita del cittadino.

La seconda parte della domanda meriterebbe una risposta molto articolata. Provando a dare solo dei flash, ritengo di poter affermare che, così come ho scritto in più di un mio saggio, la “valorizzazione” di tutto il materiale raccolto dalla Commissione Stragi può portare ad una “lettura” nuova, attendibile ed a volte “inattesa” di molte pagine della recente storia del nostro Paese: cosa che sembrerebbe non desiderata da ambienti interessati o quantomeno valutata come non prioritaria.

2) La ricorrenza del trentennale ha portato alcune interessanti novità relative alle ultime ore della vicenda Moro. La grazia firmata da Leone e strappata, il “piano a reticolo” del Ministro Cossiga che la notte dell’8 maggio fa circondare dall’esercito un settore di Roma per pressare i brigatisti, il segretario di Moro, Sereno Freato, che vola con l’aereo di Berlusconi da Tito, l’iniziativa di Benito Cazora e del suo incontro del 7 maggio in via della Camilluccia 551 con persone che si dichiarano pronte ad un blitz per liberare Moro... Indicazioni che vanno tutte in un’unica direzione: l’8 maggio tutto era pronto per la liberazione di Moro, ma qualcosa intervenne in extremis e la trattativa andò a monte. Non ce ne sarebbe abbastanza per aprire una nuova commissione d’inchiesta o un nuovo processo?

Indubbiamente,m nelle ore che hanno preceduto l’assassinio dello statista pugliese si sono verificati fatti e circostanze coinvolgenti più soggetti, più ambiti e più città. Se è vero, infatti, che può essere attribuito un elevato grado di verificabilità all’ipotesi che lascia all’autonomia delle BR l’iniziativa del sequestro e della sua sanguinosa conclusione, è altrettanto vero che, nella gestione della prigionia e della tragica fine dell’on. Moro e per quanto attiene alla ricerca del covo ove era tenuto quest’ultimo, coagirono forze, competenze ed “incompetenze” diverse che finirono poi con il favorire l’avvitarsi della vicenda verso l’epilogo che tutti sappiamo. Va ricordato infine il pensiero di molti studiosi, secondo cui l’uccisione dell’on. Moro dopo 55 giorni di prigionia va interpretata come l’espressione di una “necessità di auto-conservazione” per i tre protagonisti, vale a dire: le BR, l’on. Moro e lo Stato italiano.


3) A trent’anni da una vicenda è realistico attendersi che non vi siano grossi ostacoli nella ricerca della verità. Cosa l’ha delusa nel trentesimo anniversario dell’affaire Moro?

Va premesso che, nella vicenda Moro, la celebrazione dei vari processi penali (protrattasi per ben 30 anni, con vari gradi di giudizio, con diversi protagonisti, in diverse sedi e con un impegno massiccio di uomini e di mezzi) ha portato all’individuazione dei “colpevoli materiali” e non dei “mandanti”, né degli “ispiratori” del crimine, chiarendo nel contempo molti equivoci, ricostruendo buona parte dei tempi e dei modi della vicenda e trovando veritiere, in molti parti di rilievo (e non in tutte ...), le dichiarazioni degli imputati e le confessioni dei pentiti. Premesso allora tutto questo, va evidenziato che, nel 30° anniversario della morte di Aldo Moro, c’erano da attendersi passi in avanti quantomeno in fatto di individuazione dei “mandanti” e degli “ispiratori” del crimine. E’ vero che sono stati scritti molti saggi, sono stati fatti convegni e sono state programmate cerimonie celebrative, ma è anche vero che si è ripetuto il ritornello di tesi senza prove, colpevolizzando ora l’uno ora l’altro ambito, soprattutto straniero, e basandosi sempre su logiche senza basi probanti. Di contro, in nessun lavoro si è accennato, si è sviluppato e si è messo a fuoco l’unico “nodo” di verità che si può considerare come il più importante risultato raggiunto, per la specifica vicenda, nel corso dei lavori della Commissione Stragi – 13^ Legislatura, vale a dire il “nodo fiorentino” che è “corredato” non solo da forti evidenze di responsabilità in documenti che sono agli atti della Commissione, ma anche da interessi vari (in più ambiti) a non vederlo svelato. E ciò nonostante l’appello del Presidente della Repubblica (l’on. Oscar Luigi Scalfaro) fatto in sede istituzionale il 9 maggio del 1998, gli inviti di vertici di Governo e degli stessi familiari dell’on. Moro. E’ bene comunque annotare che questo aspetto specifico trova spazio in molte pagine del mio ultimo saggio (“Aldo Moro, un profeta disarmato”,ed. Koinè), specificando anche che ciò è avvenuto dopo aver constatato – rimanendone deluso – che la saggistica e la pubblicistica avevano evitato di trattarlo.

4) Al termine della sua attività, la Commissione Stragi diede disposizione di procedere alla pubblicazione integrale dei documenti acquisiti e di renderli disponibili a chiunque ne avesse richiesta la visione privi di ogni vincolo di segretezza. Eppure, ancora oggi, esistono molti faldoni classificati o, comunque, non disponibili. Come mai?

Confermo che la Commissione, dopo aver considerato che il materiale raccolto era di notevole importanza per una valutazione complessiva della storia più recente del nostro Paese, nella seduta del 22 marzo 2001 deliberò di autorizzare “la pubblicazione immediata ed integrale di tutti gli elaborati prodotti da gruppi o da singoli Commissari, ... in ciò ritenendo indubbi l’utilità ed il senso complessivo dell’esperienza della Commissione”. Specificò, inoltre, che dovevano essere pubblicati tutti gli altri atti e documenti, ad eccezione però di quelli acquisiti con la classifica “segreto” o “riservato”, per i quali l’Ufficio di Segreteria avrebbe provveduto all’inoltro delle relative richieste di declassifica per verificare la permanenza del vincolo del regime di pubblicità.
Da tutto ciò deriva che la perdurante presenza di “faldoni classificati o, comunque, non disponibili” derivi dal fatto che non è stato ancora acquisito il non-vincolo del regime di pubblicità da parte degli enti originatori: fatto questo che comunque andrebbe approfondito per evitare che qualcuno non “declassificasse” senza validi e persistenti motivi.


5) Nel bel libro “Abbiamo ucciso Aldo Moro”, Steve Pieczenik ha raccontato la sua esperienza in Italia a fianco del Ministro Cossiga e della sua strategia volta a prendere tempo, manipolare le BR per spingerle ad effettuare l’unica mossa utile per lo Stato: assassinare Aldo Moro. Ed il comunicato del “Lago della Duchessa”, del quale Pieczenik si sarebbe dichiarato l’ispiratore, rappresentava il brusco stop che l’americano diede alle BR in relazione alle trattative in corso. Il tutto sarebbe avvenuto con la costante informazione a Cossiga ed Andreotti che si presero la responsabilità politica di attuare questo piano. Una rivelazione del genere avrebbe scatenato un terremoto politico in un Paese normale. Come mai in Italia è sostanzialmente passata inosservata?


A questa domanda, ammesso che tutti i “passaggi” siano veri, mi sento di rispondere solo in un modo: nel nostro Paese la “rivelazione” di cui si parla nella domanda è sostanzialmente passata inosservata in quanto si risente, in quasi tutti gli ambienti, delle patologie presenti da noi e che, nell’insieme, costituiscono quello che io definisco “il caso Italia”, il caso di un Paese, cioè, che, pur ricco di cultura, di storia, di arte e di umanità, è stato tenuto prigioniero per anni e anni da ideologie utopistiche e soprattutto dal sopravvento dell’interesse privato su quello collettivo e da uno scarsissimo senso dello Stato e delle Istituzioni. Va aggiunto che il Paese, a volte ed anche per effetto di quanto prima specificato, è stato messo in gravi difficoltà, dall’impreparazione e dall’inefficienza di settori della Pubblica Amministrazione e degli Apparati dello Stato, per non parlare del fatto che la politica italiana è stata per anni coartata dalla complessità della sua collocazione geo-politica, dalla realtà interna, nella perdurante impossibilità di superare (conciliandolo o assorbendolo) il dualismo in essa presente e cioè: rivoluzione-riformismo, governo-opposizione, occidente-oriente, pubblico-privato.
Su questo argomento ci sarebbe tanto altro da dire e che, comunque, ho cercato di riassumere nell’ultimo mio saggio, prima citato, dedicando un capitolo proprio al “caso Italia”.

6) Uno degli aspetti sui quali si è saputo di meno in tutti questi anni, riguarda il ruolo che la cosiddetta “area toscana” avrebbe ricoperto nella vicenda Moro. Quale pensa sia stato il suo coinvolgimento e, soprattutto, per quale motivo non è stato possibile avviare adeguate indagini?

L’argomento “area toscana” nella vicenda Moro (che io preferisco chiamare “nodo fiorentino”) è il punto centrale di quest’ultima. Sono convinto sia che questa sia la strada “nuova” (perché mai presa in considerazione nei vari dibattimenti) e “risolutiva” (per spiegare gli “intrecci” pertinenti alle vere “intelligenze” che hanno gestito la vicenda) e sia che essa costituisca il punto di approdo più qualificante dall’attività svolta dalla “Stragi” nella XIII Legislatura (1996-2001). In poche parole e sulla base di documentazione probante (e non sulla scorta di tesi basate sulla “fantasia” ...), il “nodo fiorentino” si presenta come la chiave di lettura principale per conoscere chi ha “diretto” la vicenda, che non è di certo Moretti. Quest’ultimo, oltre ad essere “il braccio operativo” dell’Organizzazione, si è di sicuro limitato a portare la documentazione, sull’interrogatorio subito dal politico in prigione, da Roma al luogo della periferia di Firenze (e viceversa), dove il Comitato Esecutivo delle BR, secondo quanto è stato ragionevolmente accertato, si riuniva per “gestire” il tutto (sequestro, prigionia ed assassinio dello statista pugliese). Parimenti deve ritenersi ragionevolmente probabile vedere i brigatisti toscani come “parte integrante del quadro delle responsabilità” (cosa finora esclusa dalla Magistratura e sempre volutamente “trascurata” dagli organi di informazioni ...), aggiungendo, infine, che esiste un “accertamento giudiziario” relativo alla partecipazione al Comitato rivoluzionario della Toscana del professor Giovanni Senzani, già nella primavera del 1978 e non, come si è sempre creduto, prima e dopo tale anno. A questo proposito merita riflessione quanto riferito alla Commissione Stragi da due magistrati al tempo impegnati nella Procura di Firenze nelle indagini sull’attività del brigatismo toscano. Il primo, il Dottor Gabriele Chelazzi, ha definito il Professor Senzani: “sin dal 1977 del Comitato toscano, il leader, il capo ed il vertice”, aggiungendo che è proprio “sulla base di questo che la Corte di Assise di Firenze (lo) ha condannato”. Il secondo, Dott. Tindari Baglioni, invece, rispondendo ad una mia domanda con cui chiedevo “se erano più preparati gli apparati istituzionali o le BR”, ha affermato: “la mia risposta, con una battuta, potrebbe esser che avevamo gli stessi consulenti, cioè Senzani” (vds. 60° resoconto stenografico 21 marzo 2000, pag. 3085). In precedenza lo stesso Magistrato, sempre a proposito della “preparazione dei terroristi”, aveva affermato (vds. Citato documento, pag. 3082): “l’ideologo era Senzani che faceva il consulente per il caso Moro”, per poi precisare subito dopo che era portato a dire ciò perché, all’epoca, gli era stato detto che il Prof. Senzani era un esperto di terrorismo ed era anche un uomo delle Istituzioni”.
Per quanto attiene alla parte della domanda sul motivo per cui non è stato possibile avviare adeguate indagini sul “nodo fiorentino”, la risposta può essere data solo dalla Procura di Roma, alla quale è stato inviato, nella primavera del 2001, un rapporto, a firma di Giovanni Pellegrino e mia, con il quale si prospettava quanto risultato alla “Stragi” a proposito del Comitato toscano delle BR e del Prof. Senzani. Giovanni Pellegrino, in una lettera scrittami nell’estate scorsa e riportata nel mio saggio su Aldo Moro, al proposito di questo argomento ha asserito: “Tutto ciò che segnalammo con un rapporto alla Procura di Roma sul nodo fiorentino del caso Moro ha avuto come unico effetto quello di indurre la Procura a chiudere ogni indagine sul sequestro e sull’omicidio”, per poi così concludere la sua missiva: “... noi lavoravamo seriamente, ma per questo dovevamo essere fermati e comunque non seguiti.”


7) Nell’agosto del ’98 giunsero in Commissione Stragi molti faldoni contenenti «atti di elevata classifica» da «considerarsi di vietata divulgazione». Il 29 maggio del 99, il Presidente Pellegrino dichiarava al Messaggero “Siamo vicini ad una svolta, so cose che non posso dire e che non direi neppure in seduta segreta alla commissione stragi”. E’ passato oltre un decennio. Lei era a conoscenza di quei contenuti? E’ possibile almeno rivelare a quali aspetti della vicenda facevano riferimento quelle parole?

Non ricordo i particolari cui si accenna, né i contenuti dei faldoni giunti nell’agosto del 1998 in Commissione “Stragi”. Non credo però che abbiano portato a risultanze che non siano state già rese note in nostri elaborati, o nei miei saggi o in quelli di Pellegrino. Se può interessare, mi ricordo ora solo di 8 faldoni di documenti giunti dal Sismi sulla figura e sull’attività eversiva di Giangiacomo Feltrinelli. Questo materiale è pervenuto a noi il 4 dicembre 2000 e non nel 1998.


8) In una recente intervista andata in onda su GR Parlamento, il segretario politico di Moro Sereno Freato, ha raccontato come, in realtà nella gestione della strategia che voleva Moro morto più che il consulente americano siano stati due poliziotti dell’antiterrorismo tedesco venuti a Roma ad avere grosse responsabilità. Il rapimento, secondo Freato, fu gestito nello stesso modo della vicenda Schleyer quando il governo tedesco braccò i militanti della RAF, costringendoli a spostare più volte l’industriale tedesco rapito, per poi metterli all’angolo e spingerli ad uccidere il prigioniero. Fu lo stesso Moro in una delle sue lettere a domandarsi se non ci fossero ingerenze “americane o tedesche” che impedivano l’evoluzione delle trattative. Nelle acquisizioni della Commissione Stragi esiste traccia di poliziotti tedeschi e di un loro ruolo all’interno della vicenda Moro?

A me non risulta che in Commissione Stragi esista traccia probante di un ruolo svolto da poliziotti tedeschi all’interno della vicenda Moro.


9) Il terrorista venezuelano Carlos, nel mese di giugno ha raccontato all’ANSA del tentativo in extremis di liberare alcuni brigatisti dal carcere (da parte dei nostri servizi militari, una fazione evidentemente vicina all’On. Moro) come contropartita per la liberazione di Moro e che i garanti dell’operazione avrebbero dovuto essere il col. Giovannone e l’FPLP. Il blitz fu impedito a causa della “soffiata” di un membro dell’OLP che avvertì la stazione Nato in Libano. La conseguenza fu che Moro fu ammazzato e gli uomini del SISMI protagonisti dell’iniziativa furono allontanati dal servizio. Nel mese di agosto, il dirigente OLP chiamato in causa, Bassam Abu Sharif, ha precisato che non ci fu alcun sabotaggio ma solo il fatto che una linea telefonica riservata messagli a disposizione per dare il via all’operazione, restò muta alle sue chiamate… E’ credibile il racconto dello “sciacallo”? Perché si sarebbe dovuta attuare un’operazione così rischiosa quando sarebbe bastato molto meno per salvare la vita di Moro?

Il terrorista venezuelano Carlos doveva essere sentito in audizione (tramite rogatoria in Francia, dove dall’agosto 1994 era ristretto nel carcere di massima sicurezza parigino de la Santé) con l’obiettivo di ascoltare, da uno dei più grandi protagonisti ancora in vita del terrorismo internazionale, i retroscena di alcuni fatti che hanno stravolto non solo le vicende continentali, ma anche quelle italiane nel periodo 1972-1982. Tra i punti concordati con il detenuto venezuelano c’era anche quello relativo all’insieme di contatti e di relazioni tra l’OLP e le BR. Erano state fissate le date dell’audizione: 16 e 17 ottobre 2000 presso il Palazzo di Giustizia di Parigi. Poi, senza una valida spiegazione, tutto è naufragato! ...


10) Cosa impedisce, politicamente e storicamente, di fare chiarezza su un periodo ormai abbastanza lontano temporalmente parlando che ormai, a “guerra fredda” conclusa, rischia solo di essere un freno alla compiutezza del nostro sistema democratico? O forse certe logiche strategiche ed operative esistono ancora ed è per questo motivo che “conoscere il passato” potrebbe voler dire “smascherare il presente”?


La risposta è ampia e complessa. Provando a dare solo dei cenni, dobbiamo tener presente che, ancora oggi, settori della sinistra italiana non sono ancora pronti ad ammettere gravi colpe del passato, come qualche parte del centro e della destra (che ama ancora servirsi di spettri dell’armadio altrui) vuole ancora tener vive, per servirsene all’occorrenza, le accuse sui trascorsi terroristici dell’avversario politico. Al tutto va aggiunta l’immaturità e/o qualunquistica indifferenza di molti strati della nostra società nei riguardi della verità sul passato, con il risultato scontato non solo di rimanere orfani della “memoria “ storica del Paese, ma anche e soprattutto di conservare il presente e il futuro in stato di continua vulnerabilità per il ritorno di errori e di devianze già appalesatisi, cogliendoci quasi sempre di “colpevole” sorpresa ...
Per quanto mi riguarda, io continuerò a battermi per sensibilizzare gli ambiti competenti onde giungere quanto prima possibile ad una “memoria condivisa”, ben sapendo che ciò sarà fattibile se ci sarà la volontà di “valorizzare” l’enorme e preziosa quantità di documenti giacenti negli archivi parlamentari ed ivi depositati dalla disciolta Commissione Stragi. Se tali passi saranno fatti, si sarà in grado di dare vita anche a contromisure normative, amministrative, organizzative, sociali e politiche idonee a non farsi “sorprendere” in futuro da lutti, da tragedie e da vulnus istituzionali. Se non si fa nulla o si fa solo finta di farlo o di volerlo fare (nonostante le “giornate della memoria” del 9 maggio di ogni anno), saremo un grande popolo con una grande storia ed una grande cultura, ma non saremo uno Stato moderno ed efficiente, carico, come potremmo essere, di prestigio internazionale, di rasserenante sicurezza interna, di vera identità, di piena libertà, di autentica democrazia e di forte orgoglio nazionale.
La classe politica sarà degna di questo nome se avvertirà tali esigenze e soprattutto se lotterà sempre e dovunque per onorare la ricerca della verità. Al proposito, Aldo Moro mirabilmente sentenziò: “Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra un atomo di verità ed io sarò comunque un perdente”.
Se anche il semplice cittadino terrà nell’animo tale ammonimento, sarà allora come continuare a mantenere in vita lo statista pugliese, memori come dovremmo essere del pensiero di Benedetto Croce, secondo cui una grande figura non muore mai del tutto fino a quando, in noi vivi, il suo ricordo non si è dissolto.
 
Ho incrociato Manolo Morlacchi lo scorso anno, quando seppi del suo libro “La fuga in avanti” dall’amico Giuliano Boraso che lo definì “progetto non allineato”.
La definizione mi incuriosì molto e decisi di leggere subito il libro nel quale Manolo ha voluto raccontare, a distanza di anni, la storia dei Morlacchi, famiglia proletaria che ha attraversato, per così dire, tutte le fasi del movimento operaio dello scorso secolo.
Un punto di vista che mi incuriosiva molto, quello di Manolo.
Non protagonista ma nemmeno estraneo alle vicende degli anni settanta, perché bambino in grado già di comprendere e di applicare alle cose il filtro del giudizio.
Con una grande capacità letteraria, alternando il racconto al documento, ha saputo raccontare le vicende dei genitori e personali senza mai cadere nella retorica o nella giustificazione fine a se stessa ma sapendo rivendicare le scelte di vita e politiche di Pierino Morlacchi ed Heidi Peusch e il loro ruolo di genitori che si sono sempre preoccupati di crescere i figli con affetto nel rispetto delle proprie scelte di vita. Il tutto nel pieno rispetto delle scelte degli altri e dei dolori provocati.
Mi è sembrato un interessante punto di vista dal quale partire per analizzare le contraddizioni di una generazione, lasciando da parte le mistificazioni e le dietrologie ma mettendo in primo piano il percorso dei singoli dentro il contesto storico-sociale-politico di un’epoca con la quale non siamo ancora in grado, come nazione, di chiudere i conti.


Come valuti, a 30 anni di distanza, l’esperienza di tuo padre?
Non posso che guardare con enorme ammirazione alle scelte compiute da mio padre, da mia madre e da centinaia di altri compagni più di trent’anni fa. Al di là delle questioni politiche, mi piace sempre ricordare l’enorme esempio di umanità che i miei genitori sono stati capaci di trasmettere a me e tanti altri. Un esempio che ho cercato di far trasparire dalle pagine de “La fuga in avanti”, utilizzando prima di tutto episodi legati alla quotidianità, ai rapporti famigliari, alla dignità umana.

Parliamo del PCI dell’inizio degli anni ’70. Perché per molti giovani rappresentò una delusione?
La delusione rispetto al PCI nasce e si sviluppa ben prima degli anni ’70. Già alla fine degli anni ’50 iniziano a maturare posizioni critiche verso il partito. Critiche che nascevano da sinistra e che scaturivano del percorso riformista imboccato dal PCI prima ancora che finisse la seconda guerra mondiale. Chi contestava il PCI agli inizi degli anni ‘60 lo faceva riferendosi alla Cina di Mao, al Vietnam, a Cuba, all’Algeria e alle lotte di liberazione anticolonialiste. Guardava, insomma, a tutte le esperienze rivoluzionarie che ancora puntavano al superamento del capitalismo e non al suo miglioramento ed alla convivenza con esso. Il PCI, citando a memoria le stesse BR de “L’ape e il comunista”, aveva ormai imboccato la strada che lo trasformerà da “partito della classe operaia dentro lo stato, a partito dello stato dentro la classe operaia”.
Da una di queste fratture nacque nel quartiere Giambellino di Milano il gruppo “Luglio ‘60”. Fu in questo gruppo che condussero la loro militanza alcuni compagni che in seguito aderirono alle Brigate Rosse, tra essi mio padre. E’ ormai notorio che una componente significativa delle prime BR proveniva proprio dalle fila del partito comunista italiano.
Credo si possa affermare in modo molto chiaro che la principale ragione della delusione dei giovani verso il PCI fu la sua scelta riformista e l’abbandono di una strategia rivoluzionaria.

In occasione del funerale di tuo padre nell’orazione funebre si legge, a proposito dei diversi percorsi dei militanti rivoluzionari, “alcuni hanno barattato la loro dignità con le briciole che la borghesia lascia cadere a terra dalla tavola sempre più imbandita dello sfruttamento, della violenza e della guerra”. Il baratto è stato più un segno di debolezza personale, di forza dell’avversario o di sconfitta definitiva? E, soprattutto, quanto hanno inciso quei baratti nella lettura di quegli anni?
Il “baratto” a cui si riferisce l’orazione funebre, se vogliamo, è ancora più drastico e radicale. Non si collega semplicemente al tradimento o alla dissociazione di coloro che aderirono all’esperienza della lotta armata. E’ all’intera classe operaia che si rivolge l’accusa. Non vi è mai stata nella tradizione a cui mi riferisco e negli insegnamenti ricevuti alcuni inclinazione ecumenica verso “la classe”. Citando Marx, “il proletariato è rivoluzionario o non è nulla”. Certo di mezzo ci sono anche i percorsi dei militanti rivoluzionari. E forse il loro baratto è anche frutto di debolezza, paura, sconfitta personale e collettiva. Ma non serve a comprendere e descrivere quegli anni.
Diversa cosa sono le apologie della sconfitta che hanno caratterizzato i lavori di ricostruzione compiuti dagli ex militanti, poi pentiti o dissociati. In quel caso ci troviamo nel campo di coloro che per ricostruirsi una verginità sociale hanno dovuto, per l’appunto, barattare la loro dignità raccontando una storia dettata da altri. Certo, questo tipo di ricostruzione ha trovato una vasta platea anche grazie a tutto il supporto massmediatico garantito. Ma non credo che, nel lungo periodo, questi lavori possano avere alcuna funzione, né politica, né storica, né sociale.

Chiudi il libro con un episodio emblematico che, sebbene non sarà stato unico, nessuno ha mai avuto il coraggio di mettere nero su bianco. Nel 2003, al funerale di tua madre, su un muro trovaste scritto: “La rivoluzione è un fiore che non muore. Ciao Heidi” e negli occhi dei compagni presenti ti è sembrato di aver scorto una scintilla più che mai viva, un sogno rivoluzionario ancora non sfumato per il quale è necessario ancora lottare. Cosa vuol dire, secondo te, oggi essere rivoluzionari e quali sono gli strumenti per la lotta?
Essere rivoluzionari, oggi come ieri, significa una sola e semplice cosa: combattere per il superamento del capitalismo. E’ il sistema che si basa sulla proprietà privata dei mezzi di produzione a generare le ingiustizie che ogni giorno urlano da ogni angolo del mondo. E oggi è giusto e necessario essere al fianco di coloro che ad ogni latitudine resistono agli attacchi dell’imperialismo.

All’inizio della loro storia, le Br tenevano addirittura comizi pubblici e tu racconti di quando Curcio parlava in una piazza di Milano presidiata da compagni amati. La polizia era presente, ma per evitare che si generassero situazioni pericolose, restava a debita distanza. Non pensi che questa conoscenza possa aver permesso agli investigatori di continuare a “tracciare” il percorso dell’Organizzazione senza, tuttavia, dover per forza intervenire in maniera preventiva?
Certo, può succedere che talvolta le forze dell’ordine utilizzino questa strategia. Trovato un filo scoperto cercano di risalire fino al bandolo della matassa. Nel caso dell’esempio da te citato direi che questo rischio non venne corso anche perché ci trovavamo in una fase del tutto embrionale della lotta armata. I primi militanti a cadere furono il prodotto di uno dei rarissimi infiltrati, Pisetta. Fu lui, come noto, che contribuì peraltro ad accelerare la scelta della definitiva clandestinità e la ristrutturazione dell’organizzazione in fronti e colonne.

Un luogo comune relativo alla storia delle BR, riguarda le diverse generazioni di brigatisti che sono stati ai vertici dell'Organizzazione. In genere si sottolinea come all'arresto di Curcio e Franceschini si sia assistito ad una svolta militaristica voluta da Moretti. Questo per sottintendere la nascita di una nuova logica, poco conforme alla precedente storia delle BR. Cosa ne pensi?
Personalmente è una tesi a cui non credo. Le svolte all’interno delle BR ci furono, ma furono il prodotto di una discussione politica corale che includeva anche il punto di vista dei militanti che si trovavano in prigione. Anzi, direi che i militanti imprigionati furono sempre assai ascoltati da chi continuava a combattere fuori.
La tesi delle BR militariste mira a separare le “pecore bianche da quelle nere”, per ragioni che sono tutte politiche. Le pecore bianche sono le prime BR che usavano la violenza come moderni Robin Hood. Le pecore nere sono le seconde BR; quelle violente, assassine, quelle di Moro per intenderci. E’ un tipo di lettura a cui mi sottraggo e a cui non ho mai dato alcun credito.
Vi fu senza dubbio un passaggio strategico che produsse un nuovo livello di scontro. Ma tale passaggio fu il prodotto non delle soggettività che si trovavano in quel momento in una posizione di comando, bensì di un percorso politico condiviso da tutta l’organizzazione.

Nel libro racconti il primo arresto di tuo padre in Svizzera, quando fu costruita una montatura tra Carabinieri e SID dovuta al fatto che sarebbe stato più difficile per l’Italia chiedere l’estradazione per un “prigioniero politico”. E’ possibile, secondo te, che le leggi siano state letteralmente calpestate in altre occasioni? Perché i rivoluzionari facevano molta paura o perché non si avevano strumenti efficaci per una soppressione del fenomeno all’interno delle leggi?
Non vorrei apparire dogmatico e quindi utilizzo una contro domanda a proposito di un fatto recente. E’ possibile parlare di leggi dopo una sentenza vergognosa come quella emessa dal tribunale di Genova a proposito dei fatti della scuola Diaz e della caserma Bolzaneto? E’ del tutto evidente che il concetto di legge è solo una delle tanti variabili attraverso le quali si esercita il potere della borghesia. Personalmente non trovo nulla di strano, né mi inalbero se non per ragioni di prassi politica, di fronte a sentenze come quella su Genova 2001, come quella sull’assassinio di Carlo Giuliani, sulla reintroduzione mascherata della tortura e della pena di morte nelle nostre carceri avvenuta alla fine degli anni ’70 ecc.
Ogni volta che il potere avverte una minaccia provenire da un movimento, da una contraddizione, da una tensione sociale o calpesta le leggi esistenti o ne crea di nuove a suo uso e consumo.
In questo senso è evidente che i rivoluzionari degli anni ’70 facevano moltissima paura.

Il fatto di essere il figlio di uno dei fondatori delle Br, ti ha mai creato problemi personali nello studio, sul lavoro o nella vita privata?
No. Al contrario è sempre stato un vantaggio. Ho constatato personalmente che la storia della mia famiglia mi ha quasi sempre garantito un rispetto di fondo dalle persone, a prescindere dalle loro convinzioni politiche.

Se i parenti delle vittime di quegli anni reclamano, da un lato, il rispetto del proprio dolore e dall’altro il silenzio degli ex che non dovrebbero ergersi a maestri pubblicando libri, rilasciando interviste quale pensi debba essere la richiesta, oggi, degli ex brigatisti e dei loro parenti?
Nessuna. Non si capisce a quale titolo e su quale argomento possa essere estesa una richiesta e per quale ragione le istituzioni dovrebbero mostrarsi disponibili. Sono peraltro proprio gli ex brigatisti irriducibili, fuori e dentro il carcere, a non richiedere alcunché allo Stato.

Perché l’Italia è l’unico Paese nel quale a distanza di 40 anni ancora non si riusciti a voltare pagina? Quale è la tua soluzione per arrivare ad una verità storica che permetta a tutti di assumersi le proprie responsabilità e liberare i troppi fantasmi del passato?
Analizzare liberamente e fino in fondo quanto accaduto negli anni ’70 e ancora di più nei decenni precedenti significherebbe mettere in discussione l’intero impianto su cui si regge la nostra repubblica. Ogni lettura diventa così inevitabilmente una lettura interessata che ha ben poche affinità con la “verità storica”. Sollevare misteri e analisi dietrologiche permette di fomentare il dibattito politico e di trascinarlo sul terreno della pura speculazione. Il caso Moro è emblematico in tal senso.

A proposito del caso Moro. Nel '78 tuo padre si trovava in una parentesi di libertà ed era rientrato al Giambellino. Nel libro racconti che aveva trovato una realtà diversa (altro termine). Come valutò il 16 marzo il notevole salto di qualità dell'Organizzazione? Azzardato? Necessario? Inevitabile?
Poco prima della sua morte parlai con mio padre del 16 marzo 1978 e di tutto quello che seguì a quella data. Mi ribadì con forza che sia lui, sia altri compagni di Milano, erano contrari a quell’iniziativa e, di riflesso, anche alla scelta finale dell’esecuzione. Riteneva che la dirompenza di Moro vivo sarebbe senza dubbio stata maggiore del Moro morto. Mio padre pensava che, dopo la prima ondata rivoluzionaria dagli inizi degli anni ’60 fino alla metà dei ‘70, sarebbe stato necessario tirare un respiro ed attendere l’evoluzione delle contraddizioni aperte in quegli anni di lotta. E questo prima che la repressione iniziasse a fare la differenza. In sintesi, pensava che la cosiddetta “ritirata strategica” lanciata in seguito come parola d’ordine dalle BR avrebbe sortito gli effetti attesi se fosse stata proposta qualche anno prima.

Quali erano le aspettative dei militanti in libertà riguardo "l'Operazione Fritz"?
Posso supporre che le aspettative fossero enormi. D’altronde è innegabile che, al di là di ogni dietrologia, il risultato scaturito da quella campagna fosse gigantesco. Anzi, credo proprio che tutte le inutili dietrologie di questi decenni nascondano in parte anche la rabbia di chi non vuole ammettere un dato inequivocabile: un gruppo di operai, di proletari organizzati, riusciva addirittura a rapire il presidente del più importante partito politico italiano. Il messaggio, anche da un punto di vista propagandistico, era fortissimo.

A trent'anni di distanza ci si scontra ancora sulla "polis o pietas", se in nome della "ragion di Stato" fosse giusto trasgredire le leggi pur di salvare una vita. Cosa ne pensi?
Lo Stato italiano trasgredisce le leggi decine di volte ogni giorno. Trasgredisce ad esempio da 60 anni la sua legge fondamentale, la Costituzione. Credo proprio che la questione della “ragion di Stato” sia mal posta. Le ragioni per le quali si decise di non liberare i prigionieri delle Brigate Rosse furono tutte politiche e nulla avevano a che fare con ragionamenti etici.

Credi che la gestione del sequestro Moro sarebbe stata diversa se fosse stata condotta da altri brigatisti?
Assolutamente no. Ripeto: la storia delle BR è anche fatta di salti e di passaggi strategici. Ma questi passaggi furono sempre il prodotto di un confronto collettivo e aperto.

Cosa ha significato l’uccisione di Moro per il futuro dell’Organizzazione?
Si parla spesso degli operai in piazza il 16 marzo del 1978 per attaccare le BR e i loro piani “eversivi”. In realtà, dopo il sequestro Moro, la popolarità dell’organizzazione era alle stelle anche e soprattutto nel corpo operaio. Le richieste di adesione fioccavano e forse non sempre la quantità si sposava con la qualità necessaria ad un’organizzazione clandestina.
E’ comunque innegabile che la campagna di primavera e, in specifico, il sequestro Moro, rappresentarono una tappa decisiva nella storia dell’organizzazione. Le BR attaccavano i vertici del potere e il potere rispondeva rinunciando alla salvezza di un suo uomo. Da quel momento in avanti il livello dello scontro non sarebbe più stato lo stesso. E infatti non fu più lo stesso, nel bene e nel male.





Chi è Manolo Morlacchi

Nasce nel ‘70 e ha sempre risieduto a Milano. Si è laureato in Storia presso la facoltà di lettere e filosofia della Statale di Milano nel 1997 con una tesi dal titolo "Politica e ideologia nell'Italia degli anni '70. Il caso delle BR". Studente lavoratore, deve ben presto abbandonare qualsiasi velleità di insegnamento o di dottorato. A fine 2008, ha pubblicato un racconto sul Manifesto dal titolo "I topi di San Vittore" che, tratto da fonti orali, racconta una giornata tipo nello storico carcere milanese.
Attualmente lavora in una multinazionale dell'outsourcing cartaceo (archiviazione industriale per conto terzi), dove si occupa di logistica.

Estratto della presentazione di "La fuga in avanti" alla Casa del Popolo di Lodi (18 dicembre 2007)
 
Pagine: 1 2 3

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