Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Lo scorso 12 marzo, sul sito dell’editore ChiareLettere, la giornalista Stefania Limiti ha pubblicato >un’intervista ad un testimone di eccellenza della vicenda Moro<. All’epoca dei fatti era un militare di leva che fu chiamato, assieme ad altri 9 commilitoni, a partecipare ad un’operazione speciale. I dieci giovanotti furono portati a Roma e fu assegnato loro un compito delicato e, probabilmente, pericoloso: sorvegliare un appartamento prospiciente a Villa Bonelli, che si riteneva essere la cosiddetta “prigione del popolo”.
La notizia in sé non è una grande novità. Ne aveva già parlato la stessa Limiti in un quasi clandestino trafiletto sul settimanale L’Espresso (avevo anche >commentato< la faccenda sul blog nel novembre del 2009).
L’obiettivo del trafiletto, da quello che mi è parso, credo che fosse il tentativo di smuovere l’inchiesta sul dossier prodotto da questo testimone.
Naturalmente, quel primo accenno fu sufficiente a sguinzagliare il fiuto di tanti segugi che per passione o lavoro si interessano del caso Moro. E così in tanti hanno iniziato a lavorare su quel trafiletto.
Ed, infatti, per “gli addetti ai lavori” la questione non rappresenta un “mistero”. Si sanno molte cose oltre a quelle che ha raccontato la brava Stefania alla quale deve essere riconosciuto il coraggio di rendere di dominio pubblico le informazioni stimolando, con il suo articolo, ad approfondire gli importanti elementi che quello che lei chiama “il signor Mario” ha avuto modo di raccontarle.
Ritengo che adesso se ne possa parlare un po’, con la dovuta cautela e rispettando il testimone e tutto ciò che ha ritenuto di raccontare.
La storia parte da molto lontano, dall’autunno del 2008 quando Mario, a seguito del mare di pubblicazioni che seguirono il trentennale di questa dolorosa vicenda, decise di rendere pubblico ciò che da 30 anni custodiva tra i ricordi personali. E di cose, Mario, ne ha ricordate e riferite tante.
Stefania Limiti ha parlato di microfoni ad alta ricezione installati nell’appartamento del primo piano per “origliare” in quello brigatista. E parla anche di controllo dei bidoni della spazzatura. La cosa avveniva utilizzando un “falso” camion della Nettezza Urbana e falsi spazzini.
Un giorno, nel coordinare le operazioni di prelevamento della spazzatura, ci fu un tamponamento tra il camion ed un’alfasud “caffelatte” che si aggirava in strada. Nacque un piccolo litigio che rischiò, secondo il sig. Mario, di allarmare i brigatisti compromettendo l’operazione. Entrambi i mezzi erano di disponibilità degli uomini impegnati nel controllo dell’appartamento.
Il sig. Mario parla anche della preparazione di un blitz che, giorno dopo giorno, appariva sempre più vicino. In previsione di ciò, uno dei compiti del gruppo era di contattare gli inquilini, con molta discrezione, per predisporre un temporaneo allontanamento dalle loro abitazioni mettendoli al riparo da rischi ed evitando intralci.
Di osservazioni ce ne sarebbero molte. Volendo delimitare il campo, possiamo provare ad iniziare con un paio:
- un’alfasud beige compare in via Fani subito dopo la fuga del commando, un’auto del Ministero dell’Interno in “borghese” dalla quale alcuni testimoni vedono scendere persone che sembrano poliziotti (ne parlo sia in Vuoto a perdere che in Via Fani ore 9.02 scritto con l’amico Romano Bianco). Quest’auto rappresenta uno di quegli interrogativi che è stato possibile porsi solo a distanza di 30 anni. Un’alfasud chiara è legata alle minacce ricevute dal figlio dell’edicolante Paolo Pistolesi, testimone chiave dell’agguato di via Fani. Se si trattasse della stessa macchina avremmo diversi indizi che portano in una stessa direzione: qualcuno nello Stato sapeva dell’agguato e sapeva della prigione, non è intervenuto in via Fani e non è intervenuto in via Montalcini. Si è limitato ad osservare;
- in un appartamento furono installate delle attrezzature (microfoni e registratori), altri inquilini furono avvicinati per valutare la possibilità di un loro spostamento. Se ne deve dedurre, se così fosse, che tutte queste persone abbiano subito pesanti minacce in quanto nulla di tutto ciò è mai stato riferito agli inquirenti che hanno interrogato, più volte, i condomini di quello stabile.
Sono passati 33 anni e credo sia giunto il momento di lanciare un appello sia ai commilitoni di Mario sia agli inquilini di via Montalcini n. 8: lo so che è difficile, che ci vuole molto coraggio, che forse a distanza di tanti anni potrebbe non servire nemmeno per scoprire la verità su quella vicenda. Ma proviamoci, con tutte le cautele del caso nei confronti delle persone. Abbiate fiducia.
Forse se a parlare è uno solo, il rischio di essere “insabbiato” o di subire conseguenze è concreto. Ma se a parlare sono in tanti, queste voci hanno davvero l’opportunità di cambiare la storia. E mai come in questo momento il nostro Paese ne avrebbe davvero bisogno.