1) Il contesto degli anni a cavallo tra la
fine dei '60 e l'inizio dei '70 era caratterizzato dalle lotte operaie nelle
grandi fabbriche, le lotte per la casa e per il lavoro e, in un secondo momento,
le lotte studentesche. Un periodo segnato anche dalle stragi, interpretate da
molti come la risposta violenta dello Stato a quelle lotte...
Affrontare la complessità dello scontro che lei
accenna con queste premesse, (i movimenti, la reazione, le stragi ecc) e tutti
gli elementi che lo hanno attraversato, più che una risposta necessiterebbe un
libro. Cercherò di limitarmi a sintetizzare il tutto attraverso delle date che
diano per sommi capi lo schema dei vari passaggi che quella realtà ha secondo me
espresso.
“Tra la fine dei ’60 e l’inizio dei ‘70” credo
che sia un conteggio limitativo, non solo sul piano temporale, ma anche su
quello politico e sociale di quel fenomeno.
E’ vero che il “Movimento” visto con la M
maiuscola porta il ‘68-’69 come data della sua più elevata visibilità, ma io
ritengo che per coglierne la complessità e la sua immensa capacità di tenuta e
durata protrattasi 15 anni, le date da osservarne come “preludio” vengano ben
prima.
E’ all’inizio degli anni ’60 che secondo me si
chiude in Italia la fase del primo dopoguerra, quella della “ricostruzione”
nella quale pur in presenza di contraddizioni e lotte, quella per la
sopravvivenza, è ancora dominante. E’ da li che iniziano a vedersi i primi
segnali di una società in una profonda fase di passaggio sociale e politico
prodotto dallo sviluppo del nuovo modo di produzione capitalistico (la catena di
montaggio, l’operaio massa) con tutte le contraddizioni che questo produrrà. Il
luglio ’60 con i suoi scontri di piazza e i suoi morti è sì la risposta al
governo Tambroni ed al ritorno dei fascisti sulla scena politica governativa, ma
è ancor più il segnale di una nuova figura sociale che sta materializzandosi e
prendendo forma nel paese. I ragazzi con le “magliette a striscie” sono
l’espressione di una brace che fora la cenere e comincia ad esprimere e
rivendicare dei bisogni che sono indotti dallo sviluppo che è avvenuto nella
società capitalista nel dopoguerra.
Una brace che porta segnali che sono sociali,
generazionali, culturali, ma che, messi assieme divengono un grumo che pone
problemi politici, con la P maiuscola, non quella del palazzo.
Come sempre tutti i fenomeni storici sono la
somma di mille contraddizioni vecchie e nuove, nazionali ed internazionali, che
si amalgamano, si contorcono, e producono il potenziale dell’esplosione. Ma il
nuovo che esprime quel fenomeno dei primi anni ‘60 è prorompente ed è da lì
secondo me che inizia il percorso sociale e politico che poi porterà agli
sviluppi del ‘68-’69.
Piazza Statuto è del ’62, e non è sola, ed è
chiaramente il segno ormai di una rottura totale, da parte delle nuove figure
sociali che stanno nascendo, con la politica del Pci e le vecchie forme
organizzative della sinistra del primo dopoguerra nel nostro paese. E’ attorno a
queste nuove figure che inizia anche nel mondo intellettuale una trasformazione
degli interessi di ricerca, la quale porterà al sorgere di strumenti di analisi
come quella dei “Quaderni”, etc.
Capire questo è secondo me importante per
spiegarsi il livello di sedimentazione che quella realtà ha prodotto, e i tempi
della sua tenuta.
Le stragi. Le stragi sono la risposta dello Stato, di una parte di esso, in quella fase, allo sviluppo della realtà di scombussolamento sociale e politico in corso. L’obiettivo che si pongono con quegli atti, è quello di “bloccare” il paese. Impedire che le tensioni che lo stanno attraversando possano spingerlo verso una sua trasformazione rivoluzionaria. Costringere sotto ricatto le forze politiche istituzionali, in particolare il Pci, ad ergersi a difensore dello stato di cose presente, contro il pericolo di una sua trasformazione reazionaria. E’ un nodo importante questo da cogliere.
La situazione sociale e politica del momento è rivoluzionaria. Le stragi servono ad impedirne un suo sviluppo. Trent’anni dopo lo stesso Cossiga parlerà del ruolo “stabilizzante” di quelle stragi. Ritengo che mai parola d’ordine di quel periodo fu più centrata che l’identificarle appunto come “stragi di Stato”.
2) Lo scenario storico vede le lotte sociali
al centro di uno scontro politico-sociale di livello elevatissimo. La politica,
ed il PCI in particolare, si mostrò sorda alle richieste provenienti da quelle
lotte. Ci fu un arrocco, più che un tentativo di comprendere e rispondere.
Il PCI, per molti giovani di
sinistra dell'epoca, rappresentò un po' una delusione. Larghe parti della
sinistra estrema entrarono in contraddizione con la linea ufficiale del partito.
Il '68, in questo senso, rappresentò una rottura con il partito e gli anni
successivi furono il tentativo di proporre un'alternativa...
Il Pci era stato costruito e si era sviluppato
nel primo dopoguerra in un bagaglio storico e sociale che veniva messo
fortemente in discussione da quelle nuove figure operaie e giovanili che lo
sviluppo capitalista di quegli anni aveva prodotto.
L’operaio del Pci era stato quello che nel ’45
aveva difeso le fabbriche dai tedeschi, le aveva ricostruite dopo i
bombardamenti, come “ricchezza del paese”, anche se di proprietà di padroni che
prima erano stati un buona parte fascisti. La figura classica dell’operaio del
Pci era quella dell’operaio professionista che “creava” produzione, che
“partecipava” allo sviluppo del paese che proveniva dalla guerra e dalla
miseria.
Il risultato di questi sacrifici andava al
padrone, ma per lui “militante”, queste erano solo le premesse del sol
dell’avvenire, o nella parte più cosciente, della ricchezza prodotta nel paese,
da raccogliere poi in un futuro prossimo con … “la presa del potere”.
La nuova figura dell’operaio massa, sorta con
lo sviluppo della produzione capitalista del dopoguerra, radeva al suolo questa
ideologia, la base di questi “valori”.
Il nuovo operaio non era più “solo” uno
sfruttato che doveva fare propria, attraverso la lotta politica e sociale,
quella produzione. Ne era una figura “estranea”. La nuova organizzazione della
produzione e del lavoro, la catena di montaggio non gli appartenevano: ne viveva
solo la sua estraniazione, assommata ai ritmi dello sfruttamento,
dell’emarginazione e dalla precarietà delle condizioni nelle quali viveva.
Questo in relazione con una società che si sviluppava e produceva ricchezza… per
pochi. Rabbia e lotta “spontanea”, che parte da bisogni primari, (la
sopravvivenza, la casa..) ma che prende presto coscienza della sua potenzialità:
il padrone per produrre la sua ricchezza non può in quella fase fare a meno di
lui. Questo rende politico lo scontro.
Le parole d’ordine che lo attraversano non sono
solo sul salario, sono oggettivamente, e pian piano per molti anche
soggettivamente, di potere.
I “bisogni” del salario, dei ritmi, visti come
staccati dalle “leggi” della produzione e del mercato.
Questo il Pci non poteva capirlo. Era estraneo
alla sua storia ed al suo percorso sia di analisi che di esperienza politica. Lo
sviluppo del capitalismo produceva un nuovo quadro sociale, e questo a sua
volta, si immergeva in una condizione internazionale (vedi tracollo del
colonialismo, Cina, Vietnam, America Latina) che rendeva potenzialmente
rivoluzionaria la situazione.
E’ questo secondo me che va tenuto presente per
comprendere la “sordità” del Pci di fronte a quella realtà. Non poteva guidarla
perché non poteva nella sua interezza concepirla.
3) L'esperienza delle Brigate Rosse nasce
dalle lotte sociali, nei quartieri e nelle grandi fabbriche fuori dalle logiche
partitiche ed istituzionali. Le "avanguardie" che portano avanti quel tipo di
lotte non si pongono come una rottura dal PCI ma sono un'altra cosa rispetto al
PCI. Quali sono state le logiche che hanno portato dalle lotte sociali alla
scelta della lotta armata? Scelta che si relaziona con l'evoluzione delle lotte
che portano alla formazione di una sinistra comunemente definita
extraparlamentare all'interno della quale si rafforza il pensiero che "era
possibile vincere". In un certo senso voi proponente una sinistra offensiva
mentre la sinistra istituzionale, da voi criticata, mostrava un eccesso di gioco
difensivo...
Le Brigate Rosse nascono da un percorso interno
a quella situazione. E’ un percorso nel sociale, nella materialità dello scontro
in corso, ma è ancor più il prodotto di una interpretazione tutta politica della
fase nella quale ci troviamo, che ne fanno i suoi militanti.
E’ da li che ne vengono i passaggi e le scelte.
Il prodotto di una analisi delle condizioni esistenti in quel momento, ed una
scelta politica che abbiamo ritenuto la naturale conseguenza.
Le lotte in corso in quel periodo in se, non
sono “soggettivamente” contro il Pci, ne sono fuori oggettivamente.
Sono “fuori dalle logiche partitiche ed
istituzionali”, ma non sono fuori dalla politica.
Proprio perché non si pongono il problema della
“mediazione” della politica, sono oggettivamente politiche a tutti gli effetti:
sono antagoniste. Sono senza mediazione possibile. Il “salario uguale per
tutti”, “la casa si prende, l’affitto non si paga”… due delle tante parole
d’ordine espresse da quel movimento, sono fuori dalla possibile contrattazione
sindacale. La classe operaia non si “dialettizza” con la controparte padronale:
esige direttamente una trasformazione totale della sua condizione di vita.
Questo è chiaro che il movimento lo vive come
un’onda prodotta dalle sue condizioni precarie ( emigrato emarginato e senza una
casa, schiavo di un lavoro che lo rende un ingranaggio della catena, ecc) che
esige trasformare. Ma è proprio da questo inizio delle lotte che prendono vita
due fenomeni importanti, i quali trasformano oggettivamente lo scontro:
- la scoperta da parte del movimento della sua
forza e di conseguenza della potenzialità dirompente che contiene la sua
lotta;
- la presa d’atto da parte della sua
avanguardia cosciente che questo potenziale può esprimersi su problematiche
ben più ampie, in grado di modificare nella sostanza politica lo stato di cose
presente: la questione del potere.
E’ quello che è successo allora. Ed è da
questo, che susseguono le scelte politiche ed organizzative che man mano poi
prenderanno forma.
La questione della lotta armata sta nel
processo, ma è un suo sviluppo. E’ una scelta soggettiva, ma che è via via
sviluppata dalla condizione dello scontro. Ma qua siamo già sulle forme
organizzative.
Le prime Brigate Rosse nascono nelle grandi
fabbriche del nord come forma organizzata, all’interno delle lotte, in grado di
tenere lo scontro in atto di fronte alla controffensiva padronale che sta
sviluppandosi (licenziamenti delle avanguardie, denunce e processi, ecc).
Costruire cioè un contropotere organizzato all’interno della fabbrica che sia in
grado di condizionare le scelte e il comportamento della controparte. Questa è
la prima fase delle Brigate Rosse.
Lo scontro col Pci e con il sindacato in questa
condizione è tutto politico: mettere in evidenza come un’altra forma organizzata
all’interno della classe operaia sia in grado di sostenere quelle esigenze
operaie che loro stanno svendendo al padronato.
E’ da questa realtà che man mano si dipana la
maturazione di un processo prodotto da mille rivoli.
Il primo è che la lotta, portata a quel
livello, prende anche nella sua sostanza l’altezza dello scontro politico,
quella di un dualismo di potere sulla lotta per il comando; il secondo è che la
contraddizione esce dalla fabbrica, attraversa la vita sociale della metropoli,
divenendo così sempre più contraddizione politica con l’istituzione che la
governa. Questi sono i fenomeni oggettivi che sorgono da quei passaggi. Ma non
sufficienti per spiegarne gli sviluppi.
Infatti in quella condizione, anche buona parte
della sinistra antagonista di quegli anni (Potere Operaio; Lotta Continua, ecc
ecc), in un modo o nell’altro c’era arrivata, seppur con forme organizzate tra
loro differenti.
Quello che fanno i militanti delle Brigate
Rosse è un passaggio oltre. L’analisi che esse fanno è tutta politica, ed essa,
li porta alla conclusione che ci sono i potenziali e le condizioni per
trasformare quelle lotte sociali ed economiche in scontro politico per il
potere.
Qui sta il filo rosso per seguire man mano lo
sviluppo dei percorsi e delle scelte successivamente fatte dall’Organizzazione .
Ovviamente questa scelta soggettiva si è via via misurata, scontrata e
condizionata, dagli sviluppi dello scontro in atto nel paese, e dalle scelte
politiche della controparte. Basti vedere P.za Fontana, ecc. Ma la cosa che ci
tengo a chiarire è che il nodo delle scelte effettuate all’origine è tutto
politico, e ne sta a monte, anche se ci si relaziona.
Forse, con l’aria che tira oggi, molti se
leggeranno questo ci prenderanno per pazzi, ma noi (per fortuna e con orgoglio)
eravamo “figli del novecento” e cioè pensavamo non solo che fosse possibile, ma
anche che fosse necessario e giusto, come si dice ironizzando Lenin: “prendere
il palazzo d’inverno”, cioè il potere politico dello stato.
Questa penso sia la chiave interpretativa
prima, di “quali sono state le logiche che (ci) hanno portato dalle lotte
sociali alla scelta della lotta armata”.
4) La sinistra istituzionale non rispose
alle istanze provenienti dalle lotte: non seppe o non volle?
Quello che io posso interpretare delle scelte
che il Pci fece in quegli anni è che siano state il risultato naturale di un
miscuglio di problematiche composito, che erano poi il prodotto di tanti
elementi: sviluppo del suo percorso storico, della sua composizione sociale,
della collocazione politica del paese, ecc. Il ruolo di “frontiera” nel campo
della politica internazionale nel quale si trova il nostro paese, in un mondo
diviso in blocchi, con tutto ciò che significava e con le scelte conseguenti
fatte al proposito da Togliatti, e man mano sviluppate dal partito dopo Salerno;
l’ambito sociale e storico nel quale si è costruito il suo militante, (la
“Costituzione” la “politica dei sacrifici”)… Tutti “principi” in contraddizione
stridente con le problematiche che poneva l’operaio della catena di montaggio o
lo studente di Valle Giulia in quegli anni.
Ritengo che in questo quadro di problematiche,
nel partito non potesse che dominare l’incapacità di capire questa nuova realtà
e i fenomeni che essa conteneva.
Ciò che aveva di fronte era un movimento
soggettivamente antagonista a quelle regole.
Date queste premesse, dal partito, come
naturale, tendeva ad emergere una contraddizione che è “storica”, purtroppo, nel
movimento comunista: chi negli ambiti sociali “miei” non è d’accordo con me è
sicuramente un “nemico” o un provocatore prezzolato. Una storia che conosciamo
bene.
Con questa chiave di lettura è chiaro che poi
non possa altro che determinarsi una classe dirigente del partito molto
incancrenita, ed incapace non solo di dialettizzarsi con gli avvenimenti
sociali, ma anche solo di “governare” quelle tensioni e quelle modifiche
dirompenti, che in qualche modo lo coinvolgono. (Basti vedere dal suo interno la
contraddizione “Manifesto”)
5) Per molto tempo (e forse ancora oggi in
qualche maniera accade ciò) le Brigate Rosse sono state sedicenti, cosiddette.
Il 16 marzo, ad esempio, il Corriere della Sera utilizza le virgolette e scrive:
Il Paese rifiuta il ricatto delle "Brigate Rosse". Perchè questo alone di
mistero...
C’è un dato in politica, nella storia del
movimento comunista, che è oggettivo: non ammettere la differenza di visione
politica o sociale all’interno dell’ambito nel quale sei radicato.
Una brutta malattia, ma purtroppo esisteva… ed
esiste.
E’ chiaro che partendo da questa premessa, chi
si muove diversamente da te in quell’area, è l’avversario da estirpare.
Il passo successivo è che ovviamente non può
essere che… “al servizio del nemico”
Un caso che può dare luce di questo, sta
proprio qui a Reggio Emilia, da dove vengo io. La maggioranza di noi (5/6) ,che
eravamo divenuti nomi noti come brigatisti, venivamo dal Pci, e tutta la città
lo sapeva benissimo… Il mistero di Pulcinella. Eppure pubblicamente esistito per
anni.
Ritengo comunque che, al di là della propaganda
dei mezzi di comunicazione, in quegli anni ci siano state situazioni e
condizioni nel paese tra loro molto differenti. Un problema è ciò che appare sui
giornali, un altro è ciò che sanno, pensano o vivono, quegli operai e quei
cittadini che oggettivamente si relazionano nelle fabbriche o nei quartieri con
la nostra presenza attiva di propaganda e di combattimento. Nelle grandi
fabbriche del nord, la presenza brigatista era ben conosciuta ed accettata,
anche se non necessariamente sempre condivisa, da buona parte degli operai
presenti. Non è un caso che è proprio quando arriviamo a Guido Rossa che
recepiamo, seppur in ritardo, il grosso mutamento in corso nella realtà del
paese. Che una fase politica si stava chiudendo. O in molti settori era già
chiusa.
Per arrivare a come poi i giornali o i mezzi di
comunicazione della classe al potere gestiva l’informazione, è chiaro che essa
veniva usata come strumento di guerra contro l’avversario.
E’ una legge di tutte le guerre, affermare e
propagandare che il nemico, è prezzolato, brutto e cattivo. Su questo basti
leggere ciò che successivamente Cossiga, una volta smesso il suo ruolo di
ministro, e ancor più una volta sconfitti noi, scrive. Arriva tra le altre cose
ad affermare placidamente degli svariati incontri e riunioni svoltesi in quegli
anni tra lui e Pecchioli per concordare quali falsità mettere in circolazione
con l’obiettivo politico di screditarci e isolarci. Niente di nuovo sotto il
sole.
6) La risposta del PCI alle lotte nelle
fabbriche fu il tentativo di realizzare un'unione tra le classi, anche sulla
base dell'esperienza del Cile che, a detta del PCI, dimostrava come non fosse
possibile andare al potere se non con un accordo con la borghesia. La sinistra
rivoluzionaria, invece, riteneva che c'erano le condizioni per continuare lo
scontro ad un livello superiore...
Quello è un passaggio. L’analisi di Berlinguer
sul colpo di stato in Cile è sicuramente una accelerazione di questo percorso.
Ma non è secondo me la sua origine. Da parecchio tempo il partito traccheggiava
tra l’ambiguità e il vivere di rendita. “La resistenza”, “la Costituzione”, “la
Pace”, tutti elementi sicuramente radicati nella sua anima di fondo, tra i suoi
militanti, ma che partivano tutti da un dato molto preciso e fatto proprio già
da Togliatti quando è venuto via dall’Unione Sovietica: un pianeta diviso in
blocchi; e noi appartenevamo a quello occidentale.
Le tensioni “Secchiane”… “ha da venir baffone”…
ecc ecc, erano sovrastruttura all’interno del partito che coinvolgevano una
certa base, e ancor più noi giovani, ma non era la linea e le prospettive del
suo progetto politico.
La trasformazione sociale che produce quel
movimento esce da questo impianto.
La sinistra rivoluzionaria che da quella realtà
prende forma, per davvero ragiona e vive, immaginando la possibilità di una
rivoluzione totale. Qualcosa che modifichi, nella sostanza, il modo di
produzione esistente, la collocazione internazionale del paese, i rapporti in
atto tra le classi sociali. Quello che si esprimeva non era una tattica diversa
all’interno della trasformazione della stessa società. Erano due strategie
differenti per due società differenti. Qui sta il nodo.
7) Quando si parla degli
"anni di piombo" si parla quasi sempre di Brigate Rosse e delle altre
organizzazioni rivoluzionarie, contando i morti e criminalizzando un'intera
generazione. Quando qualcuno esce di galera o fa qualcosa come personaggio
pubblico (alludo alla recente semiliberta' concessa alla Balzerani o alle tante
conferenze di Curcio) si sollevano i soliti cori di coloro che vorrebbero veder
marcire in galera gli ex militanti di organizzazioni di lotta armata.
Il fatto che in Italia vi siano state stragi di "Stato", attentati, tentativi di
golpe, repressione contro anche forme pacifiche di lotta sociale sembra
interessare davvero poco e scandalizzare ancor meno. C'e' qualcosa che non
torna, o no?
Molto semplice: perché un
movimento rivoluzionario che attacca “il palazzo”, che pone come elemento base
della sua stessa esistenza il tentativo di scardinare le basi della società
capitalista, è un nemico totale, assoluto. La sua presenza antagonista mette in
discussione gli elementi basilari del potere, dello Stato. Va annientato, non
solo organizzativamente, ma ancor più va creato su di lui il terrore per le
generazioni a venire, impedire così con ogni mezzo che possano avere anche solo
la malsana tentazione di poterci riprovare.
Le stragi, i tentati o
recitati golpe, le repressioni contro anche le forme pacifiche di movimento e
lotte sociali, stanno nel DNA dello Stato, del potere politico e delle
sue stesse leggi di esistenza.
In Italia è da quando ero
ragazzo che si parla di “servizi segreti deviati”, ma nessuno ha mai avuto la
malaugurata idea di “raddrizzarli”. Perché così servono, e così continueranno a
servire. Ogni tanto, al massimo, c’è qualche grido “al lupo”, ma più che altro
per far sentire qualche rumore di sottofondo che ricalibri all’interno del
quadro politico i rapporti di forza tra strutture, apparati e forze politiche.
Niente più.
8) .. e quando si parla
di Brigate Rosse, si finisce sempre per parlare della vicenda Moro. Ma la storia
delle BR è un'altra, fatta di centinaia di azioni contro esponenti che
nell'ambito delle lotte sociali erano visti come nemici...
Il sequestro Moro è una
azione che avviene nel 1978. Le Brigate Rosse sono presenti nello scontro
italiano dal 1969-70, quando partono nella attività combattente con gli incendi
delle macchine dei capi officina alla Pirelli, alla Sit-Siemens di Milano….
Quasi dieci anni di presenza,
di azioni grosse e piccole, di disarticolazione o di propaganda, di scelte
sviluppate nella conduzione dello scontro, con passaggi politici man mano
praticati.
Il fronte di intervento è
stato vasto e articolato per tutta la storia dell’organizzazione, dalle
fabbriche e le sue strutture di direzione, alla Confindustria, agli “apparati
della repressione”: Carabinieri, Magistratura, personale delle carceri,
Polizia.
Se man mano che lo scontro si
sviluppa, si arriva a Moro, è perché nella nostra analisi politica dello scontro
in atto, è da tempo che noi abbiamo individuato la Democrazia Cristiana come
anello centrale e “cuore” politico dello stato imperialista che combattiamo.
Obiettivo di conseguenza
centrale da disarticolare.
Quando si arriva a Via Fani
infatti, le azioni contro la Democrazia Cristiana da noi portate a compimento
nel paese sono già state decine e decine (macchine bruciate, perquisizioni di
sedi, ferimenti di dirigenti, ecc).
E’ da quell’analisi e dal
percorso combattente sviluppato in quegli anni che si arriva a Via Fani, alla
“questione Moro”. Tolto dal contesto quell’azione diviene un’altra cosa da
quella che è invece veramente stata per noi nella sua programmazione e
conduzione.
9) Lei ha più volte affermato che le Brigate
Rosse hanno raccontato la loro storia, una storia politica. Ma qualcun altro,
forse, la sua storia non l'ha raccontata per nulla, soprattutto in relazione al
caso Moro. Ma di questo non si può chieder conto alle Brigate Rosse...
Raccontare quella storia, da parte del quadro
politico dei partiti e delle strutture istituzionali allora presenti nello
scontro in atto, vorrebbe dire “mettere in piazza” i progetti e gli interessi,
anche di “bottega” che li hanno in quel momento coinvolti.
A modo suo, e ovviamente con progetti ed
interessi suoi, a tentare di aprire dal lato del potere una rilettura di quegli
avvenimenti almeno più basata sui fatti avvenuti realmente, ci ha provato
Cossiga dopo che aveva concluso il suo iter istituzionale. C’è stato una
reazione a spron battuto da parte di tutte le forze politiche allora in campo,
dalla destra alla sinistra… anche estrema, per farlo passare per pazzo. Non è un
caso. Soluzione migliore, piuttosto che confrontarsi realmente con gli
avvenimenti di quegli anni, e che costa loro meno sul piano politico, è invece
lo spingere l’informazione, la propaganda, per alimentare la teoria dei
“misteri”e dei “complotti”.
Noi abbiamo sempre affermato in modo chiaro il
perché, e l’obiettivo politico che ci siamo preposti con quell’attacco. Le
uniche “voci discordanti” dall’interno vengono da uno come Franceschini, il
quale era in galera da cinque anni quando avvengono i fatti, e le sue “voci”
arrivano svariati anni dopo gli avvenimenti, quando era oramai giunta la
sconfitta e la fine dell’organizzazione. Ricostruzioni… per il miglior
offerente.
Tornando invece ad un ragionamento serio: Aldo
Moro è stato rapito ed ucciso dalle Brigate Rosse. Questo deve essere chiaro. E
l’ultimo atto, della sua uccisione, l’hanno fatto assumendosene la piena
responsabilità e come compimento dell’attacco che avevano portato. Il tutto,
ovviamente, perché di fronte ad un rifiuto di qualsiasi altra soluzione da parte
del quadro politico, abbiamo ritenuto non ci fosse altro sbocco possibile.
Detto questo, quando avvengono dei fatti di
quella portata, nella politica, può succedere che soggetti con interessi
contrapposti tra loro, salgano sulla scena e cerchino di averne un tornaconto.
Questa non è collusione, o l’essere “manovrati”
o “eterodiretti”, è la legge banale della politica.
Quali erano i progetti in campo? Il nostro,
molto chiaro e lo abbiamo urlato e dichiarato mille volte: distruggere la DC,
mettere in crisi il quadro politico allora al potere.
Quali erano le altre forze in campo allora, in
quella situazione, che hanno spinto cercando di condizionare ed indirizzare gli
sviluppi e la conclusione di quell’azione?
Primo, il Pci, padre e padrone della “politica
della fermezza”, scelta che ha impedito qualsiasi altra possibilità di sviluppo
all’azione, in quella situazione. Politica che in quel contesto gli ha permesso
di assumersi un ruolo di primo piano, condizionando le scelte di tutto il quadro
politico allora presente. Scelta “centrata”, anche se poi la ha pagata
sonoramente nel suo sviluppo negli anni che sono seguiti. Non da meno Andreotti,
che all’interno del suo partito ha ovviamente utilizzato quella situazione per
modificarne i suoi rapporti di forza interni.
C’è chi dice, forze economiche,… gli americani…
può darsi…
E penso che l’elenco a chi volesse proseguirne
la ricerca potrebbe allungarsi parecchio.
Anche il fronte “opposto”, del resto aveva suoi
interessi per orientare la conclusione dell’operazione. Basti vedere l’entrata
in scena, completamente contrapposta di Bettino Craxi, in quel contesto.
Anch’essa era altrettanto indirizzata da un interesse di partito, o detto in
termini volgari “di bottega”. Quello di porsi come contraltare al processo
politico in atto.
Penso sia questo “groviglio” di interessi e di
progetti politici l’aspetto primo del perché “qualcun altro, forse, la sua
storia non l’ha raccontata per nulla”. E la stravolge tutt’ora per battaglie di
palazzo.
10) Si parla di giornate della memoria, di
amnistia, di soluzione politica e, puntualmente, si assiste a battaglie da curva
sud contro curva nord. Chiudere con quegli anni deve essere una priorità per riappacificarsi con
il passato e costruire insieme una memoria condivisa e le responsabilità
collettive (come dice anche Maria Fida Moro). Ma come superare quegli anni?
Io ed altri compagni/e abbiamo speso anni della
nostra attività, dopo la dichiarazione da parte nostra della chiusura di quella
esperienza, perché si aprisse un dibattito che desse la possibilità al paese di
storicizzare e cogliere perché un fenomeno di quella portata avesse attraversato
l’Italia in tutti quegli anni. Coinvolgendo nel suo percorso decennale migliaia
di donne e di uomini che ne erano stati i protagonisti.
Questa scelta, anche pagandone un prezzo,
assumendo cioè spesso posizioni politiche e ruoli che non sempre erano condivisi
da molti dei militanti, protagonisti di quel bagaglio.
Il tutto ovviamente senza voler invertire ruoli
o giudizi da dare tra le controparti sui fatti avvenuti.
Pensavamo che capire vuol dire anche superare
quella fase, coglierne i nodi sociali e politci che l’hanno generata. Questo
ritengo sarebbe stato un interesse per tutto il paese, anche per le forze
politiche che lo governano. Non si nasconde una storia di quella portata
scopandola sotto il tappeto.
Ritengo che il non averlo voluto e saputo fare
da parte delle forze politiche, sociali e culturali che “stavano dall’altra
parte”, non ha solo stravolto gli avvenimenti di tutti quegli anni, ma ha anche
reso più confuso e debole il quadro politico istituzionale.
Il prossimo anno è il trentennale di Via Fani…
ci siamo oramai abituati che massimo una volta all’anno “riesplode” il problema,
si scambiano accuse tra forze politiche o apparati, si immettono sulla scena
possibili “misteri”… o ruoli svolti. E in questa condizione, il ciclo si ripete
e si ripeterà all’infinito. Senza soluzione.
Oggi non ci credo più, non credo che sia
possibile, neppure all’interno della sinistra affrontare quei nodi. Per me è una
sconfitta , ma io in fondo sono un soggetto, e mi porto la mia storia personale
e politica, con tutti i suoi drammi e pregi, sulle spalle. Molto peggio ritengo
sia per lo sviluppo del paese e del suo quadro sociale e politico, incancrenito
da quegli anni. Basti vedere le reazioni scomposte dei mezzi di comunicazione e
delle forze politiche in campo, ogni qualvolta avviene una pisciatina che possa
far risalire a quegli anni, per dimostrare lo stato nel quale si trovano.
Ritengo che pur avendone sofferto e soffrendone
direttamente di persona, in un dolore che è famigliare (ed è ben altra cosa dal
fatto politico) sia ben più lucida e lungimirante su questo, la signora Moro
quando accenna al percorso di costruire una memoria condivisa ed una
responsabilità collettiva. Non per invertire ruoli, posizioni politiche, o metri
di giudizio, ma per andarne oltre veramente.
Per venire poi, come accenna nella domanda,
alle giornate della memoria “sul terrorismo” di recente applicazione da parte
del Parlamento, provo una grossa tristezza. In un paese che è vissuto e si è
trovato orientato lo scenario politico attraverso stragi, fasciste, ma anche “di
Stato”, si diceva una volta, - che potremmo elencare partendo da Peteano, ma
possiamo “limitarci” guardando a quelle degli anni ’70 con P.za Fontana, P.za
della Loggia, San Benedetto Val di Sambro, la stazione di Bologna, ecc ecc, le
quali hanno provocato la morte di centinaia di cittadini inermi- e si arriva a
nominare come la giornata del ricordo e contro il terrorismo, come suo simbolo,
la giornata della morte di Aldo Moro, chiarisce quanta cenere si intenda mettere
sulla storia e su quella del vero terrorismo avvenuto nel paese.
11) A proposito
dell'apertura del dibattito avviato subito dopo aver dichiarato la conclusione
dell'esperienza armata, voi avete cercato di aprire una discussione politica. Ma
le forze politiche, sociali e culturali non hanno saputo (o voluto) raccogliere.
Lei, nel 1993, nel motivare la sua volontà di non parlare in sede giudiziaria
affermò che eravate pronti ad affrontare quegli avvenimenti invitando gli
Andreotti, i Forlani a partecipare al dibattito in aula. Ma evidentemente l'aula
giudiziaria, per ragioni strutturali, non era la sede adatta ad un processo di
quel genere. Cosa vi aspettavate dagli Andreotti e dai Forlani, quale tipo di
contributo?
Il dibattito che abbiamo
tentato di aprire nel momento in cui abbiamo dichiarato chiusa la nostra
esperienza, era rivolta ai movimenti sociali, alle forze della sinistra anche
istituzionale, ed aveva come obiettivo primario il tentativo di storicizzare,
per superarlo, il fenomeno della lotta armata che aveva attraversato il paese in
tutti quegli anni, coinvolgendo migliaia di operai e studenti. Fenomeno che
aveva condizionato fortemente la realtà sociale e politica in Italia.
Ripercorrere una storia alla
sua estinzione politica ed organizzativa, anche per oltrepassarla.
Cosa che non è stata fatta,
non la si è voluta affrontare, e questo sul piano politico dà secondo me anche
spazio oggi, a chiunque lo voglia, di sentirsene “rappresentante” o
“discepolo”.
E’ chiaro che poi, da questo
lavoro poteva sorgere un passaggio che coinvolgesse tutto il quadro politico
istituzionale del paese e che portasse, al suo compimento, ad una “soluzione”
in grado di affrontare anche la questione della detenzione e del carcere dei
suoi protagonisti.
Ma questo è un altro punto
rispetto alla nostra richiesta in quel momento specifico, e cioè durante lo
svolgimento del processo, di chiamare a testimoniare in aula i dirigenti
politici della DC e del potere politico di quegli anni. La nostra chiamata in
aula allora era più legata ad un tentativo di trasformare un atto giudiziario,
come la magistratura, secondo la sua funzione e logica, stava conducendo il
processo, in un atto politico, come del resto il sequestro Moro era stato nel
corso del suo compimento. Coinvolgendone in questo modo “la controparte” che ne
aveva condizionato sviluppo e conclusione.
12) Se nel 1987 i detenuti politici
dichiarano congiuntamente "i militanti delle BR coincidono con i detenuti delle
BR" e, quindi, in un certo senso nessuno è più autorizzato ad utilizzare quel
simbolo e quel nome, perché dopo oltre 15 anni si parla ancora di Nuove Brigate
Rosse? E' un progetto senza contesto sociale?
Quella storia si è chiusa, e si è chiusa non
solo per noi, ma per tutte le organizzazioni combattenti espressione della
realtà di quegli anni, con una sconfitta. E potremmo dire ancora un pò prima del
1987. Ma noi ci assumemmo allora la responsabilità di quella dichiarazione
perché effettivamente venivano arrestati in quei giorni gli ultimi compagni/e
che la rappresentavano.
Ciò che avviene dopo è un’altra storia. Questo
è importante capire. A me non interessa giudicarla, o esprimere valutazioni
morali o “sentenze” sui suoi protagonisti. Anzi, ritengo sia giusto sul piano
umano sempre solidarizzare quando della gente come i compagni arrestati in
questi anni vive delle condizioni di vita durissime in carcere. Ritengo però
anche che l’analisi politica delle condizioni e delle forze in campo debba stare
sempre al primo posto per esprimere valutazioni sui fatti.
E’ una fase storica che si è chiusa allora.
Sono condizioni sociali e politiche sulle quali quella realtà è sorta e si è
potuta esprimere, che sono terminate. Qualsiasi giudizio se ne voglia dare, la
lotta armata in Italia, è stata possibile perché un’area sociale e di classe
vasta gli è stata per diversi anni attorno. Acqua alimentatrice, ma anche girino
del pesce. Questa realtà non esiste più. Una rivoluzione non si inventa. Si
relaziona alle condizioni ed ai soggetti che si trova di fronte.
Quella si è chiusa, non per nostra volontà, ma
perché siamo stati sconfitti e la realtà che si è sviluppata nel nostro paese e
nel mondo in tutti gli anni che ne sono seguiti è un’altra.
Con questo non voglio certo dire in meglio… ma
la realtà non si inventa a proprio piacimento.
Del “fare notizia” o clamore che poi ne
sussegue, ogni volta che viene arrestato uno, che quasi sempre poi non ha mai
sparato un colpo, o perché da qualche parte è apparsa una “scritta”, di questo
già ne parlavo prima... ed è tutta un’altra storia. Mi sa tanto che sia il cane
che si mangia la coda… o meglio, una classe politica ingabbiata su se stessa che
urla al lupo per non cercare di capire perché un giorno è stata morsa.
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