Ho iniziato a conoscere Giacomo Pacini tramite i commenti
sul sito. Grazie a FaceBook ho potuto scoprire più a fondo il suo modo di
lavorare e le sue competenze. Quando l’amico Paolo Cucchiarelli mi ha
preannunciato l’uscita di un lavoro sull’Ufficio Affari Riservati mi chiesi
subito chi fosse stato così “matto” da caricarsi l’onere di scavare in quello
che per me era un grosso buco documentale su uno degli apparati più potenti e
misteriosi (forse il più potente e perciò misterioso) della nostra Repubblica.
Quando ho saputo che l’autore era Giacomo ho avuto la
certezza che si dovesse trattare di un lavoro ineccepibile e la curiosità di
leggerlo è stata immediata. Un testo completo (per quanto si possa apprendere su
simili strutture), onesto, rigoroso. Un lavoro che non ti aspetti da un
giovanissimo come Giacomo ma che, evidentemente, storici più maturi e
“contemporanei” alla struttura non hanno avuto il coraggio o le competenze per
scriverlo.
Lo consiglio a tutti perché pur non essendo un romanzo la
sua lettura è piacevole, la struttura è ben articolata tra l’uso delle fonti e
l’analisi, l’indice del lavoro è chiaro e consente di spostarsi rapidamente da
un argomento all’altro. In questo può essere assimilato più ad un manuale che ad
un saggio storico.
Non potevo esimermi dal porre a Giacomo alcune questioni.
Come al solito mi auguro di aver interpretato anche le domande dei lettori ai
quali resta, come sempre, la possibilità di proporre nuove domande e
riflessioni.
Giacomo Pacini. Ricercatore Storia
contemporanea, laureato presso l’università di Pisa, si occupa di storia
dell’Italia Repubblicana con particolare riferimento alle vicende degli anni
settanta.
Ha svolto ricerche sulle violenze contro i
civili durante la seconda guerra mondiale.
Tra le sue pubblicazioni
-
“Le origini della operazione
Stay Behind (1943-1956)”, pubblicato sulla rivista “Contemporanea”,
Il Mulino, n. 4/2007.
-
“Le organizzazione paramilitari
segrete nell’Italia Repubblicana”, Prospettiva Editrice, Civitavecchia,
2008.
Tra i tanti argomenti che interessano la storia
d’Italia, mai erano state dedicate delle pagine ad un apparato come l’Ufficio
Affari Riservati. Secondo te, come mai?
Se è vero che
fino al 1996, quando Aldo Giannuli rinvenne il noto archivio di via Appia, la
documentazione era molto esile (e, spesso, di scarsa attendibilità), è in
effetti sorprendente la poca attenzione che nel corso degli anni vi è stata alle
vicende dell’Ufficio Affari Riservati (Uar). Eppure stiamo parlando di un
organismo che dal 1948 al 1974 è stato il vertice della polizia politica
italiana.
Tuttavia, il
fatto che se ne sia parlato cosi poco può anche voler dire che gli uomini dell’Uar
hanno saputo fare molto bene il loro lavoro di “spioni”.
In una vecchia
intervista Federico Umberto D’Amato (che dell’Uar è stato il più qualificato
dirigente) disse che uno spione degno di questo nome deve tenere sempre un piede
nella legalità e tre fuori, ma non deve mai farsi beccare, come invece era
accaduto a praticamente tutti i vertici dei servizi segreti militari.
Ecco, diciamo che
l’Uar era composto da veri e propri spioni, da “sbirri” di professione
che, sono sempre parole di D’Amato, “sapevano
di diritto e di investigazione”,
a differenza di quanto avveniva nel Sid (il servizio
segreto militare) dove poteva capitare che a doversi occupare di investigazioni
politiche fossero militari che provenivano dal genio, ammiragli laureati in
ingegneria navale o pluridecorati generali che magari conoscevano alla
perfezione le strategie belliche, ma che non avevano la minima idea di cosa
fosse una indagine informativa di natura politica. Con risultati spesso
disastrosi (vedi i casi Giannettini, Pozzan ecc. ecc.). Mentre gli uomini dell’Uar
erano “professionisti” del settore e, appunto, non si facevano mai “beccare” (o
quasi).
Per fare un esempio, se i legami e le complicità che, negli
sessanta/settanta, vi furono fra alcune parti dell’estremismo di destra ed il
Sid sono ormai documentati, prove documentali (e sottolineo documentali)
di una conclamata collusione tra l’Uar ed il neofascismo non sono mai state
trovate. Emblematico il caso del fondatore di Avanguardia Nazionale, Stefano
Delle Chiaie; di un suo presunto legame col ministero dell’Interno si è parlato
numerose volte (perfino un ex funzionario dell’Uar ha sostenuto che Delle Chiaie
aveva contatti col Viminale), ma non è mai emerso un documento capace di
provarlo con certezza.
Nel libro descrivi con grande accuratezza documentale la
storia dell’Ufficio Affari Riservati sin dalle sue origini. Quale è stato il suo
ruolo nel tempo e, se è cambiato, secondo te per quale motivo?
L’Uar nacque nel 1948 sulle ceneri della
“vecchia” Divisione Affari Generali e Riservati che operava sotto il fascismo ed
il suo compito essenziale era quello di coordinare il lavoro degli Uffici
Politici delle questure. A fine anni cinquanta, tuttavia, quando al vertice
dell’Ufficio giunse un nucleo di funzionari provenienti dalla questura di
Trieste (chiamati dall’allora ministro dell’Interno Tambroni e tra i quali vi
era una figura molto importante per la storia degli apparati di polizia, Walter
Beneforti), l’Uar subì un profondo mutamento, sganciandosi completamente dalle
questure e diventando una vera e propria polizia parallela al diretto ed
esclusivo servizio del Viminale, indipendente rispetto a qualunque altro
apparato informativo allora esistente in Italia.
La struttura
operativa creata dai “triestini” rimase sostanzialmente immutata anche dopo il
loro allontanamento dagli Affari Riservati.
A fine anni
sessanta, così, l’Uar era divenuto una sorta di organizzazione piramidale con
D’Amato al vertice e numerose “squadre periferiche” attive in varie città
italiane, composte da sottufficiali di pubblica sicurezza (autonomi dalle
questure, visto che il loro quartier generale era situato in anonimi uffici
privati) che gestivano tutti gli informatori disseminati all’interno di partiti
politici, quotidiani, sindacati o movimenti extraparlamentari. I componenti
dell’Uar, peraltro, avevano tutti la qualifica di ufficiale di Polizia
Giudiziaria, ma potevano anche non informare la magistratura qualora venissero
in possesso di notizie inerenti un reato, muovendosi come agenti di un vero e
proprio servizio di sicurezza, cosa che, però, l’Uar (da un punto di vista
legale) non era.
Federico Umberto D’Amato è stato un personaggio molto
potente che ha acquistato un ruolo importante nel 1963 (dal 1966 è diventato il
capo della struttura). Nel 1963 c’è stato il primo governo Moro con l’apertura
ai socialisti e nel 1964 il tentativo di golpe De Lorenzo. Che ruolo ha avuto
l’Ufficio Affari Riservati, ed in particolare D’Amato, in questa determinante
fase storica?
Ufficialmente
nessun ruolo. In quegli anni, infatti, l’Uar, almeno stando alla documentazione
di cui disponiamo, visse una sorta di fase di transizione, mentre un rinnovato
“protagonismo” in campo spionistico lo riacquisì solo nella seconda metà degli
anni sessanta grazie appunto ad una figura come Federico Umberto D’Amato, il
quale seppe sfruttare con grande abilità le conseguenze della grave crisi in cui
precipitò il Sifar (dal 1965 Sid) dopo lo scoppio del noto scandalo delle
schedature illecite di migliaia di italiani e la rivelazione del cosiddetto
Piano Solo. Coi servizi segreti militari gravemente compromessi agli occhi della
opinione pubblica (e con gran parte della stampa che cominciò a parlare
apertamente del Sid come di una struttura “deviata”, se non perfino composta da
golpisti), D’Amato riuscì a tessere con grande abilità la sua tela, ridando all’Uar
un ruolo da protagonista ed acquisendo un potere che mai nessun dirigente degli
Affari Riservati aveva raggiunto.
D’Amato,
tuttavia, fu ufficialmente a capo dell’Uar solo per un breve periodo a cavallo
fra 1971 e 1972. Infatti, pur essendo fin dagli anni sessanta la figura
preminente dei servizi informativi del Viminale egli preferì mantenere sempre un
ruolo defilato, tenere la sua figura poco esposta, lasciando la direzione dell’Uar
in mano ad altri funzionari (i vari Lutri, Catenacci, Vigevano) che, di fatto,
erano alle sue dipendenze. Fu anche grazie a questa sua sorta di basso profilo
che, negli anni settanta, riuscì a rimanere sostanzialmente immune da inchieste
giudiziarie o da campagne giornalistiche ostili (come quelle che, ad esempio, si
abbatterono sugli uomini del Sid). L’unica volta che finì nel mirino della
magistratura fu nel 1976, quando fu accusato di peculato nell’ambito di un
filone collaterale di una più vasta indagine su intercettazioni telefoniche
abusive effettuate da uomini dei servizi. L’accusa era di aver indebitamente
usato, nel 1973, fondi del ministero per acquistare 180 microspie che sarebbero
state utilizzate per intercettazioni mai autorizzate dall’autorità giudiziaria.
L’inchiesta, tuttavia, si sgonfiò nel giro di pochissimo tempo.
Taviani in Commissione Stragi escluse che
l’organizzazione dell’Ufficio Affari Riservati potesse filtrare le notizie
raccolte sul territorio per trasmettere alla magistratura solo ciò che i vertici
dell’apparato ritenevano opportuno. Eppure il dubbio resta. Possibile che
un’organizzazione così verticistica abbia resistito alla tentazione di “gestire
le informazioni” per aumentare il proprio potere?
Il dubbio è più
che legittimo visto che proprio per la sua organizzazione verticistica l’Uar era
certamente in grado di tenere per sè le informazioni più scottanti e riservate
senza fornirle alla magistratura (per poi magari usarle ad “altri” fini).
È nota, ad
esempio, la vicenda delle borse di Padova su cui mi soffermo a lungo nel libro.
Già pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana, infatti, la commessa ed il
titolare di una valigeria di Padova riferirono alla locale questura di aver
venduto, due giorni prima della strage, delle borse simili a quelle usate per
nascondere gli ordigni usati negli attentati del 12 dicembre. La questura
padovana trasmise questa rilevante informazione all’Uar che però la tenne per
sé, fino a quando, alcuni anni dopo, essa non riemerse quasi per caso. Ne seguì
una inchiesta che tuttavia non approdò a nulla e che non coinvolse mai D’Amato
(anche perché, come detto, egli, almeno ufficialmente, non era al vertice dell’Uar
e a dover rispondere di quanto avvenuto fu l’allora direttore Elvio Catenacci).
Quanto a Taviani,
se nel suo libro di memorie ha sostenuto di essere sicuro che mai D’Amato
nascose delle prove, nella parte della sua audizione in Commissione Stragi
tenutasi in seduta segreta, alla specifica domanda del Presidente Giovanni
Pellegrino se, visto il modus operandi dell’Uar non vi fosse stato il rischio
che gli Affari Riservati fossero in grado di nascondere le informazioni più
scottanti sottraendole all’autorità giudiziaria, l’allora Senatore a vita dette
questa testuale risposta: “di questo a me è giunta eco
solo per quanto riguarda Milano e la Lombardia. Ed è per questo che ho sciolto
l’Ufficio Affari Riservati”.
Veniamo alla strategia della tensione. Nel libro parli
di infiltrazione e di polizia parallela. Come venivano gestite queste
operazioni? Vi era trasparenza o si può parlare di vera e propria clandestinità?
Studiando le attività dei servizi segreti (ed in particolare
dall’Uar) negli anni della strategia della tensione è spesso difficile
distinguere il confine che passava tra una legittima attività di infiltrazione
in un gruppo terroristico ed una attività clandestina di provocazione.
Faccio un esempio; vi sono documenti da cui risulta che in alcuni
incontri di alto livello del cosiddetto Club di Berna (come era
convenzionalmente denominata una struttura “creata” da D’Amato, il cui compito
era coordinare ed armonizzare il lavoro delle
principali polizie europee)
venne auspicata (e programmata) la necessità di una infiltrazione nei gruppi
eversivi di sinistra da parte di agenti di polizia. Il che è cosa normale, se
non fosse che, in certi casi, si arrivava anche ad ammettere la possibilità che
l’eventuale infiltrato potesse essere uno specialista in uso di armi ed
esplosivi. Circostanza che, sebbene non vi sia alcuna prova documentale, può far
sorgere qualche dubbio sul labile confine che, certe volte, può esserci tra
infiltrato e provocatore.
Emblematico, a
suo modo, il caso della fonte Anna Bolena, al secolo Enrico Rovelli, il
principale infiltrato dell'Uar tra gli anarchici milanesi del Ponte della
Ghisolfa. Sarebbe stata infatti tale fonte a indirizzare le indagini sulla
strage di Piazza Fontana verso la pista anarchica, nonchè a dare informazioni
del tutto inventate che descrivevano Dario Fo nientemeno che come il vero capo
delle Brigate Rosse. Inoltre ci sono documenti da cui risulta che sempre Anna
Bolena avrebbe attribuito agli anarchici quasi tutti gli attentati dinamitardi
avvenuti in Italia nel corso del 1969, anche quelli di cui è oggi certa la
matrice di estrema destra. Questo dimostrerebbe che Rovelli non era un
“semplice” confidente, ma un vero e proprio infiltrato responsabile dei
depistaggi successivi a Piazza Fontana. Va anche detto, tuttavia, che Rovelli,
davanti all'autorità giudiziaria, pur ammettendo il suo rapporto con l’Uar, ha
negato di aver fornito quelle informazioni ed ha sostenuto di essere lui per
primo vittima degli Affari Riservati, in quanto essi avrebbero usato il suo nome
come paravanto mentre la mente dei depistaggi era solo ed esclusivamente il
vertice dell'Uar.
Nella quarta di copertina c’è un interrogativo che
oserei definire “decisivo” nella comprensione del ruolo dell’Ufficio Affari
Riservati: “Che ruolo ha avuto l’UAR nella drammatica stagione della strategia
della tensione?”. Vogliamo provare a dare una seppur sintetica risposta ai
nostri lettori?
Tra
i documenti inediti che riporto nel libro ve ne è uno, risalente al 1955 e la
cui autenticità è certa, che sembra anticipare di quasi 15 anni gli scenari
della strategia della tensione, visto che, stando a quanto si legge, all’epoca,
i servizi americani stavano reclutando militanti di estrema destra da inserire
in strutture segrete che avrebbero dovuto provocare artificialmente disordini
sul territorio italiano per favorire l’ascesa di un governo forte. Gli stessi
vertici dell’Uar si dicevano preoccupati per queste incaute azioni dei servizi
angloamericani.
Venendo, tuttavia, agli anni
settanta ed al possibile ruolo dell’Uar, sulla base degli elementi disponibili è
plausibile ritenere che gli Affari Riservati fossero quantomeno a conoscenza di
quello che sarebbe accaduto il 12 dicembre 1969.
Secondo un ex generale del Sid,
tale Nicola Falde, “l’attentato di Piazza Fontana sarebbe stato organizzato
dall’Uar e poi il Sid si sarebbe incaricato di coprire il tutto”, ma
significative sono anche le dichiarazioni dell'ex dirigente dell'Ufficio
Politico della questura di Roma, Domenico Spinella, che ha rivelato che, negli
anni settanta, ogni qual volta a Roma avvenivano degli attentati, D’Amato era
solito inviare all’Ufficio politico della Capitale alcuni suoi agenti di fiducia
per collaborare alle indagini. Tuttavia, ha sostenuto Spinella, l’allora capo
dell’Ufficio politico, Bonaventura Provenza (già funzionario dell’Uar), pur non
potendo rifiutare quella collaborazione, faceva di tutto affinchè gli uomini di
D’Amato non interferissero, poichè temeva che essi avrebbero potuto attuare “un
qualche tentativo di depistaggio delle indagini".
Sui possibili depistaggi dell’Uar
dopo Piazza Fontana, poi, rimando alle già citate vicende delle borse di Padova
e della fonte Anna Bolena.
Dalla documentazione, inoltre,
emerge che nel marzo 1970 due dei più noti estremisti di destra romani, i
fratelli Bruno e Serafino Di Luia, all'epoca latitanti in Spagna, chiesero un
contatto con gli apparati di polizia promettendo delle rivelazioni sugli
attentati del 1969. Come luogo di incontro venne scelto il posto di Polizia al
Passo del Brennero. Non sappiamo con certezza se questo contatto si concretizzò,
anche se è provato che, pochi giorni dopo la “richiesta” dei Di Luia, un alto
dirigente dell’Uar quale Silvano Russomanno si recò effettivamente al posto di
polizia del Brennero. È dunque quantomai plausibile ritenere che vi sia andato
per incontrare i Di Luia. Tuttavia, non esiste alcun documento che permetta di
capire di cosa si discusse in quell’incontro, del quale, ovviamente, la
magistratura non fu minimamente messa al corrente.
Molto interessante, infine, è un documento dell’Uar fino ad oggi
inedito inerente il golpe Borghese da cui risulterebbe che dietro quella vicenda
non c’era l’intento di favorire una svolta autoritaria, ma, attraverso l’uso
strumentale della estrema destra, l’obiettivo era rafforzare l’assetto di potere
allora esistente in Italia
Ufficio Affari Riservati e caso Moro. Sei riuscito ad
individuare delle possibili connessioni tra il ruolo degli inquirenti e le
attività dell’Ufficio? L’Ufficio Affari Riservati, secondo te, si è mosso più di
quanto non ne sappiamo durante i 55 giorni? E se si, con quali finalità?
Nel giugno 1974
dopo la strage di Brescia, l’Uar, almeno ufficialmente, era stato sciolto ed al
suo posto Taviani aveva “creato” l’Ispettorato Antiterrorismo diretto dal
questore Emilio Santillo, mentre D’Amato era stato mandato a dirigere la Polizia
di Frontiera. Durante la vicenda Moro, dunque, l’originario Uar non esisteva
più; all’epoca, infatti, era appena stato istituito l’Ucigos che, anche in
conseguenza della riforma dei servizi di fine 1977, aveva preso il posto
dell’Ispettorato di Santillo.
Altro discorso è
capire che ruolo ebbe D’Amato durante i 55 giorni del sequestro dello statista
democristiano, in particolare all’interno dei tanto discussi Comitati di crisi
creati presso il Viminale. Cossiga in Commissione Stragi sostenne che durante il
caso Moro D’Amato era fuori dai giochi poiché ormai era diventato “unpolitically
correct” collaborare con lui (a causa del veto posto dalle sinistre,
soprattutto dai socialisti, sulla sua figura), mentre, ha aggiunto l’ex
presidente della Repubblica, se ci si fosse potuti avvalere dell’apporto di una
personaggio del suo calibro, le indagini avrebbero preso un’altra piega.
Tuttavia, in una
missiva riservata che D’Amato inviò nel 1981 all’allora ministro dell’interno
Virginio Rognoni egli scriveva di aver continuato ad occuparsi di investigazioni
politiche anche dopo lo scioglimento dell’Uar ed aggiungeva che negli ultimi
anni:
“non c'e'
stato argomento di rilevanza di cui non sia stato chiamato ad occuparmi: dalle
origini, la natura, i collegamenti internazionali del terrorismo, al caso Moro;
dalla strutturazione, competenza, funzionamento dei nuovi servizi segreti, al
mantenimento e sviluppo di rapporti con i servizi paralleli ed alleati”.
Dunque, è lui stesso a sostenere di essersi
occupato del caso Moro; eppure ad oggi non esiste alcun documento e nessuna
testimonianza capace di documentare quali compiti D’Amato svolse durante i 55
giorni del rapimento del Presidente della DC.
Nel libro si parla di collegamenti tra Federico Umberto
D’Amato, Zorzi e Avanguardia Nazionale. Ma anche Sofri ha recentemente rivelato
di aver ricevuto da parte di D’Amato la proposta di cooperare per l’esecuzione
di un omicidio. Quindi l’Ufficio Affari Riservati aveva collegamenti non
ortodossi sia a destra che a sinistra?
Non c’e’ dubbio.
D’altronde, anche in questo caso è lo stesso D’Amato a confermarlo nella già
citata lettera inviata a Rognoni nel luglio 1981 e che riporto all’inizio del
libro. Rognoni, all’epoca, aveva chiesto a D’Amato di fornire spiegazioni sul
perché si fosse iscritto alla loggia P2 (il nome di D’Amato infatti comparve
nelle note liste ritrovate nel marzo 1981 a Castiglion Fibocchi negli uffici
della Giole di Licio Gelli). D’Amato scrisse allora una polemica lettera di
risposta, affermando di essersi incontrato con Gelli al solo ed esclusivo fine
di raccogliere informazioni sulle attività della P2 e che se per questo doveva
essere considerato un sodale del Venerabile allora Rognoni lo avrebbe dovuto
considerare anche un fiancheggiatore del terrorismo rosso o nero, visto che,
sempre a fini informativi, aveva avuto rapporti con l’estrema destra e con
l’estrema sinistra.
Queste le parole
testuali di D’Amato;
“Operando in modo
autonomo e personale, ho preso contatto e ho sviluppato rapporti in tutti i
settori e con ogni persona che ritenevo utile a tali fini. Se le mie
frequentazioni dovessero essere interpretate come una scelta, io, come chiunque
peraltro svolga compiti di tale genere, potrei essere considerato, caso per
caso, fiancheggiatore di Autonomia Operaia o del terrorismo palestinese, agente
del servizio americano o sovietico, emissario di questo o di quel partito
politico (…)”
In Commissione Stragi,
Andreotti (che con D’Amato ebbe pessimi rapporti) definì inquietante questo
documento.
In effetti colpisce il
modo sfrontato ed allusivo con il quale l’ex capo dell’Uar si rivolgeva al
ministro dell’Interno in carica, “invitandolo” a smetterla di accusarlo, perché,
si legge chiaramente tra le righe, altrimenti lui sarebbe stato in grado di far
“tremare” il palazzo.
Un lavoro unico nella storia d’Italia e per questo
motivo immagino abbia incontrato delle difficoltà nel reperimento delle fonti.
Quanto è stato complicato il “puro lavoro da storico”?
Come è stato accolto il libro? Ritieni di aver, in
qualche modo, svolto un lavoro scomodo?
In passato gli
storici hanno avuto una forte riluttanza ad occuparsi di vicende quali servizi
segreti/strategia della tensione ecc., sia perché si tratta di argomenti in cui
è forte il rischio di prestarsi ad interpretazioni dietrologiche tese solo alla
ricerca dello scoop a sensazione, sia perché si riteneva non fosse possibile
“fare storia” su avvenimenti troppo recenti e sui quali la documentazione è
scarsa e di bassa attendibilità scientifica.
Oggi, finalmente,
anche fra gli storici le cose stanno cambiando e, d’altronde, ormai uno dei
problemi principali è spesso proprio la sovrabbondanza di materiale e la
conseguente necessità, specie allorché si maneggiano documenti dei servizi, di
un rigoroso vaglio critico che consenta di separare ciò che è attendibile dalle
classiche “patacche”. Quanto al rischio del sensazionalismo, io credo che
dietrologia ci sia quando si parte da una idea precostituita e poi si vanno a
cercare le prove che ci danno ragione. A quel punto si procede attraverso
deduzioni e si elimina o sottovaluta tutto quello che, apparentemente, smentisce
la nostra tesi di partenza. Per fare un esempio su un argomento che conosci
molto bene; prendi il caso Moro. Se, prima ancora di guardare le carte, io mi
convinco che Moro lo ha rapito la Cia, sarò poi in grado di trovare decine di
elementi che apparentemente mi danno ragione, perché sistematicamente non
considero o svaluto quelli che mi danno torto. Al tempo stesso se, sempre prima
di guardare le stesse carte di cui sopra, sono già certo che dietro al caso Moro
c’e’ il KGB, sarò a mia volta in grado di trovare altrettante evidenze che
confermano la mia tesi di partenza, sempre perché andrò sistematicamente a
eliminare quelle che mi danno torto.
Ecco, senza falsa
modestia credo, nell’analizzare la storia dell’Uar, di non aver commesso il
“classico” errore metodologico di partire dalle conclusioni e poi di andare a
trovare i documenti che supportano le mie tesi di partenza.
Per questo non
penso di aver scritto un libro “scomodo” e spero non venga considerato come
tale. D’altronde, sebbene nel libro vi siano numerosi documenti inediti (alcuni,
credo, di particolare rilievo) la mia intenzione non era quella di fare la
“rivelazione sensazionale” (e ringrazio l’editore che mai mi ha chiesto, magari
al fine di incentivare le vendite, una cosa simile), ma di provare a lumeggiare
una parte di storia italiana che fino ad oggi aveva goduto di limitata
attenzione.
Quanto
all’accoglienza del libro, non mi posso lamentare, visto che, a parte qualche
media che lo ha del tutto ignorato, è stato comunque ottimamente recensito da
buona parte della stampa nazionale.