L’Infame e suo fratello. Un film ben fatto che racconta,
per la prima volta, la storia dei fratelli Peci a partire dalle origini a San
Benedetto del Tronto. Lo vedremo in Italia?
Il film è stato presentato al Festival del Cinema di Roma,
nella sezione “extra d’essai” – Cinema del Reale e in alcune rassegne. La
versione ridotta è andata in onda all’interno del programma “La Storia siamo noi
di Giovanni Minoli” e su History Channel.
Come le è venuta l’idea è perché ha pensato di
raccontare proprio la storia dei Peci?
Io sono nato a San Benedetto del Tronto, proprio come
Patrizio e Roberto e abitavo a qualche centinaio di metri da casa loro. Ma
questo è solo uno dei motivi. Nel 1981 avevo sei anni, troppo pochi per capire
cosa stesse accadendo. Per anni tornando da scuola mi capitava di passare
davanti casa di Ida Peci e vedere la camionetta dei carabinieri che mitra alla
mano pattugliavano la zona.
Poi, come quasi tutti a San Benedetto, ho dimenticato. Fino
a quando, nell’era del terrorismo mediatico i video dei terroristi islamici
hanno cominciato ad invadere l’etere di ogni angolo del pianeta.
Mi venne in mente che questa cosa era accaduta proprio
dietro casa mia tanti tanti prima. E così ho iniziato a lavorarci
Quali sono le principali difficoltà incontrate nel
realizzare il film?
Le persone dimenticano. Penso sia normale e per certi versi
anche un bene.
La mente umana elabora quello che ha vissuto e a distanza
di un quarto di secolo ricorda solo quello che l’aveva colpita. Spesso nelle
interviste emergevano dati contrastanti. All’inizio pensavo a chissà cosa ci
fosse dietro quelle imprecisioni che mi sembravano dette per coprire chissà
quale altra verità, poi ho capito che non era così.
Come ha accolto la famiglia Peci questa sua idea? E’
stato difficile riportare Ida a quei giorni?
Ida ha fatto un salto nel passato. E’ stato doloroso per
lei, ma nonostante tutto sentiva il dovere di farlo per Roberto. Non le andava
giù che suo fratello, un lavoratore, un proletario, un uomo che in tutta la sua
vita non aveva mai fatto male una mosca, venisse messo al muro e ucciso da
traditore, da persone che predicavano una rivoluzione del popolo, ma attuavano
vendette trasversali in stile mafioso contro esponenti del popolo stesso.
Dei Peci, si sa, non è disponibile molto materiale.
Persino dei 7 comunicati delle Br nei 55 giorni del rapimento sono presenti solo
alcuni stralci tra le carte processuali. Come ha risolto il problema delle
fonti?
Ho usato gli atti dei vari processi, soprattutto quello
relativo a Senzani e company che si è svolto presso il tribunale di Macerata.
Particolarmente importante è stato il memoriale di Roberto Buzzatti, il
carceriere di Roberto, divenuto poi pentito e testimone chiave di quel processo.
Un film documentario ha bisogno soprattutto di
testimonianze ed avrei voluto intervistare le persone coinvolte, ma nessuno dei
brigatisti del “Fronte delle Carceri” di Senzani ha voluto partecipare. Alcuni,
dopo avermi dato la massima disponibilità, si sono ritirati all’ultimo minuto.
Hanno una nuova vita, sono circondati da persone che poco sanno del loro passato
e molto serenamente hanno ammesso di non avere la forza per rimettere tutto in
discussione.
Altri hanno avuto un approccio completamente diverso.
Ricordo ancora la telefonata con Stefano Petrella, uno
degli autori materiali dell’omicidio. Mi ha detto, molto cordialmente a dire la
verità, che non era disposto ad analisi speculative di stampo giornalistico o
documentaristico. Parlerà di Brigate Rosse solamente il giorno in cui il
Parlamento deciderà di affrontare il tema, in maniera politica.
In occasione della riedizione di “Io, l’infame”, si è
animata una polemica tra il Maresciallo Incandela e Patrizio Peci relativa alle
reali motivazioni che avrebbero spinto l’ex brigatista a collaborare con la
giustizia. All’accusa di Incandela che i veri motivi che portarono Peci al
pentimento furono molto più dipendenti dal richiamo della “gola” che
“dell’anima”, Peci ha replicato accusando a sua volta l’ex capo delle guardie
carcerarie di Cuneo di essere un “boia” senza scrupoli, e di non avere alcun
merito del suo pentimento. Che idea se ne è fatta lei?
Se dopo tutto quello che è successo si trovano dopo 25 anni
a litigare per un paio di quaglie, forse si sono persi qualche passaggio.
La ripubblicazione di Io, l’infame è stata una nuova
occasione per far riemergere la polemica sul presunto (almeno secondo qualcuno)
doppio arresto di Patrizio Peci. Quale è la sua opinione su questa storia?
A mio avviso, porre l’accento su questo aspetto è
abbastanza sterile.
Lo Stato era in guerra con i terroristi e mi sembra
plausibile che gli uomini dello stato abbiano provato ad entrare in
un’associazione segreta di cui sapevano poco o niente, infiltrando qualcuno al
loro interno. Qualcosa di simile era già accaduto con Frate Mitra per l’arresto
del primo nucleo e potrebbe essere accaduto ancora, quando il generale Dalla
Chiesa ha assunto il comando del Nucleo Speciale Antiterrorismo. Detto questo
non ci troverei nulla di strano, ma non ho trovato nessuna prova del doppio
arresto di Patrizio e non credo che lui, da brigatista, abbia mai lavorato per
conto dei Carabinieri.
Non ci sono prove. E di illazioni su questi anni ce ne sono
pure troppe.
Come hanno vissuto i familiari di Peci in tutti questi
anni?
Certe cose non si dimenticano molto facilmente.
Durante il sequestro di Roberto Peci, i brigatisti
chiesero alla famiglia di dichiarare pubblicamente che le confessioni del
prigioniero corrispondevano al vero. Il loro obiettivo era che in cambio della
liberazione di Roberto, avrebbero probabilmente portato alle dimissioni di due
“pericolosi” nemici come il giudice Caselli ed il Generale Dalla Chiesa. La RAI
si rifiutò di ospitare la sorella e la moglie di Roberto, ed il loro appello fu
raccolto solo da Radio Radicale. Purtroppo, non servì a nulla. C’era una via
d’uscita a quella vicenda?
Nel film Ida Peci ha voluto leggere la lettera che le ha
inviato Roberto Buzzatti, uno dei carcerieri di suo fratello. Buzzatti le ha
scritto che Senzani era disposto a salvare Roberto Peci solo nel caso in cui le
istituzioni avessero ammesso il doppio arresto. Considerando che quelle stesse
istituzioni non permisero nemmeno la messa in onda di quel video dell’orrore,
non credo.
Il momento più toccante del film è quando Roberta Peci,
figlia di Roberto nata dopo la morte del padre, si lascia andare ad una
riflessione: “Se mio zio non si fosse pentito, mio padre non sarebbe stato
ucciso”. Un’amara considerazione, non le pare?
Sicuramente. Dal punto di vista di una ragazza cresciuta
senza il padre, gli affari di Stato diventano irrilevanti.
Secondo lei la storia di Roberto e Patrizio Peci
presenta ancora dei lati oscuri? Quali?
A mio avviso, più che la storia dei Peci è la figura di
Giovanni Senzani a presentare delle zone d’ombra. Quello che subito dopo
l’arresto i giornali battezzarono professor Bazooka, ha un ruolo tutto da
chiarire in questa fase degli anni di piombo. Ora ha scontato la sua pena ed è
tornato ad essere un uomo libero, ma non ha voluto incontrare Ida. Nell’unica
dichiarazione rilasciata dice di essere rammaricato di non aver i soldi per
ripagare le vittime, ma non spiega le ragioni dei suoi contatti con i servizi
segreti e la camorra.
Nel film, Ida Peci torna a Roma per parlare con Sergio
Zavoli, all’epoca Presidente della RAI, e chiedere una spiegazione per il gesto
che, 27 anni fa, costò la vita al fratello. Zavoli non la riceve e si affida ad
un comunicato nel quale ribadendo che, se si fosse comportato diversamente, si
sarebbe creato un precedente che avrebbe spinto le Br ad altre iniziative del
genere. Non era evidente che il caso Roberto Peci era “particolare” e che non si
trattava di un rapimento qualsiasi del fratello di un pentito?
Zavoli ha scambiato quattro chiacchere con Ida in un
corridoio del Senato, ma non ha voluto le telecamere. Sinceramente non so cosa
si siano detti.