La
seconda parte dell'intervista all'ex leader di Potere Operaio
Franco Piperno tutta dedicata al
caso Moro e alle condizioni per la
chiusura politica e storica degli anni di piombo.
Parla delle trattative, della geometrica potenza, del significato
politico del rapimento di Moro. E lo fa con il suo consueto tono a volte
provocatorio a volte sorpreso nel
constatare quanto le cose semplici possano, facilmente, diventare complicate e
controverse.
Ha la piena visione dei fatti, Piperno. Per averne vissuti in parte gli eventi e
per aver conosciuto molto bene chi, quegli stessi eventi, li ha determinati e ne
ha pagato le conseguenze. Una
chiacchierata che a prima vista può sembrare non aggiunga nulla al già nutrito
dibattito ma che, invece, offre un paio di spunti sui quali forse non tutto è
stato detto
A ridosso
dell’anniversario dell’agguato di via Fani, lei ha definito i brigatisti “delle
ottime persone anche se hanno ucciso” perché c’è una morale grazie alla quale
“ci sono persone che vanno a bombardare una città e sono considerate degli eroi
e persone che sparano su un bersaglio determinato che sono considerate dei
criminali. Nel secondo caso solo perché sconfitti”. Naturalmente l’opinione ha
scatenato reazioni da molte parti rilanciando l’etichetta del “cattivo maestro”.
Lei si sente un “cattivo maestro”? Chi sarebbero, al contrario, i “buoni
maestri”?
Io non mi sento un maestro di
nessuno. Ho fatto ciò che nella mia generazione è molto più frequente di quello
che si crede. Ho partecipato a quello in cui capitavo. Avevo solo 24 anni e
quindi non ho avuto un ruolo come invece, certamente, altri intellettuali come
Mario Tronti o Toni Negri hanno avuto.
Quanto alla moralità dei
brigatisti, mi sembra evidente, basterebbe un dato statistico di che cosa è
accaduto nelle loro vite rispetto a ‘comportamenti devianti’. Voglio dire che
nonostante tutti coloro che hanno partecipato a quegli anni siano stati
condannati anche per omicidi e attualmente sono parzialmente liberi, non è più
accaduto che avvenisse da parte loro la più piccola violazione della legge o
delle consuetudini né in Italia né altrove (penso alla Petrella a Parigi).
Potrei addirittura citare il caso di uno di loro che trovò un portafoglio su un
bus di Roma e si recò in Questura per restituirlo e lì fu riconosciuto ed
arrestato. Potrei citare quelli che a Parigi lavorano all’istituto Pasteur con
delle condanne in Italia di oltre 30 anni e sono ricercatori molto stimati. Dico
questo non perché essere ricercatori debba preservare dalla severità della
legge, ma per dire che si è trattato di un periodo propriamente eccezionale in
cui c’è stato uno scontro sociale che per alcuni aspetti, almeno a mio giudizio,
ha rasentato la ‘guerra civile’. Quello che è successo in quegli anni va
collocato, appunto, quanto meno in un clima da ‘guerra civile’, ed in un
contesto simile è possibile che arrivino ad uccidere anche persone
straordinariamente appassionate che in realtà sacrificano la loro stessa vita e
il loro stesso talento.
La stupidità italiana di non
riconoscere quel clima, fa si che esistano ancora oggi politici che si fanno
vanto che la loro posizione di allora, e cioè il ridurre la lotta armata a
fenomeno criminale, era giusta. Quando è evidente che è una bugia e questa bugia
impedisce all’intero Paese di conoscere la sua storia.
Ci sono le condizioni,
oggi, affinché sia possibile arrivare ad una “chiusura condivisa” di quegli anni
per una riappacificazione sociale? Cosa lo impedisce e quale sarebbe, secondo
lei, la soluzione?
Questo io l’ho detto con
molta onestà al Senatore Pellegrino, quando presiedeva la Commissione Stragi. Su
questo terreno la prima condizione è che si vari una legge che riconosca che c’è
stato uno scontro civile in quegli anni e che non si trattava né di banditi né
di profittatori. Solo un provvedimento di amnistia per quegli anni (direi almeno
dal ’68 al ’77) può permettere la ricostruzione della verità. Ed è una verità di
cui il Paese ha bisogno. Perché è chiaro, e succede anche a me, che per
ricostruire cos’è accaduto, occorre che non ci siano conseguenze giudiziarie
nelle dichiarazioni che si fanno. Altrimenti io per primo mi rifiuto di
ricordare. Sarebbe oltremodo vile che dopo 30 anni delle persone venissero
arrestate perché hanno dato alloggio ad un latitante o curato dei feriti.
Da questo punto di vista
bisognerebbe, una volta tanto, imparare da un paese come il Sudafrica che sulla
base di un riconoscimento di una tragedia civile, come è stata la loro
soprattutto nelle ultime due decadi, hanno istituito una commissione fondata
sull’amnistia generale. E’ chiaro che questa amnistia dovrebbe riguardare anche
i giovani di allora di estrema destra. E‘ una cosa, dal mio punto di vista
grave, ma inevitabile ma si devono necessariamente considerare anche quei
giovani che sono stati maneggiati dai Servizi Segreti. E’ necessario un
provvedimento di questo genere, che riconosca l’eccezionalità di quegli anni
come eccezionali furono anche le misure punitive che furono utilizzate in dose
eccessiva, come del resto hanno riconosciuto gli stessi promulgatori di quelle
leggi.
Io penso che questo
servirebbe anche ad impedire che una generazione più giovane sia come obnubilata
da un’idea di vendetta e di continuazione. E’ un rischio che corrono tutti i
paesi dove ci sono stati fenomeni di lotta armata sconfitti non con un
allargamento ma con un restringimento delle libertà, e poi con la manipolazione
e la calunnia. Se si vuole evitare che questo filone alimenti la rabbia e che ci
siano giovani generosi, anche se sprovveduti, che prendono le pistole in mano,
il migliore antidoto è che i protagonisti di questa generazione tragica ma
certamente molto motivata siano liberi nelle città italiane, perché la loro
stessa presenza permette di ridimensionare quegli anni ed è in qualche modo
garanzia che episodi disperati, colpi di coda tipici di una società che non ha
riconosciuto né risolto i suoi problemi, non si ripetano. Se una società non è
in grado di riflettere sul suo recente passato, quel passato è destinato a
ritornare.
Due sono le etichette
celebri che riguardano l’affaire Moro. La prima riguarda le “operazioni di
parata” con le quali il procuratore Pascalino definì le indagini di polizia che
si incentrarono sugli indiscriminati ed inutili posti di blocco invece che su
operazioni di “intelligence”. Erano davvero impreparate le forze dell’ordine di
fronte ad un evento letteralmente “straordinario” o vi fu dolo?
Il dolo presupporrebbe un
disegno preventivo, ed io trovo ridicole queste teorie dietrologico-cospirative.
Le trovavo ridicole allora e a maggior ragione le trovo ridicole a distanza di
30 anni. Sono cresciuto incontrando queste storie di colpi di Stato quando il
partito in cui ero, il PCI, stava li ad agitarle come si agita il rosso davanti
al toro. Una tale sciocchezza… La verità è che la società italiana è incapace di
un disegno autoritario serio e per mettere in piedi una restaurazione
autoritaria bisogna avere una certa capacità. E il ceto politico italiano è
completamente incapace. Ora non ci poniamo neanche il problema, ma negli anni
’70 un colpo di Stato era totalmente inattuale, perché i nostri Generali non
erano in grado di fare un colpo di Stato. Il colpo di Stato è una cosa seria.
Che ci sia qualcuno che abbia mosso le fila di tutto lo scontro sociale, almeno
nei suoi aspetti radicali e armati, è talmente ridicolo conoscendo il nostro
Paese…
La cosa vera è che le
istituzioni italiane, i partiti, non si erano neanche accorte di cosa gli stava
succedendo sotto i piedi ed in fondo alcuni di questi che hanno preso le armi
erano figli di Ministri, di uomini di partito e quindi era qualcosa che avevano
in casa e non aver capito che il loro figlio, finita la cena usciva per fare un
agguato, testimonia della separazione abissale che esisteva fra il livello
istituzionale e ciò che accadeva tra i giovani in quegli anni.
L’altra etichetta celebre
fu da lei stesso attribuita alla precisione con la quale le BR condussero
l’agguato di via Fani definendola “geometrica potenza”. L’espressione ha dato
luogo a diverse interpretazioni più o meno dietrologiche perché c’è anche chi ha
inteso nelle sue parole l’allusione all’intervento di forze militari esterne
alle BR. Da dove proviene e quale è il significato preciso di quella “geometrica
potenza”?
C’è un elemento propriamente
spettacolare in tutti i tirannicidi e in tutti gli agguati. Il fatto di avere
limitato i morti al numero strettamente necessario, di non aver per esempio
colpito il fioraio che stava lì all’angolo al quale la notte prima erano state
tagliate le gomme… Questa efficienza propriamente geometrica perchè è fatta di
misura nelle azioni e nelle loro conseguenze, che aveva un aspetto bello e
terribile come accade quando in mezzo c’è la morte.
Quale era all’epoca il suo
giudizio politico sull’operazione Moro? E, se era negativo, lei o altri
militanti dell’area dell’Autonomia tentaste di “contrastare” il progetto
brigatista? Con quali risultati?
E’ lo stesso di quello
attuale. Il mio giudizio era pubblico perché furono pubblicati da diversi
giornali i documenti con le nostre prese di posizione di allora. Se è evidente
che c’era un’opera di disintossicazione nel dire che i brigatisti erano dei
delinquenti da parte delle BR c’è stato un formidabile errore politico nello
spostare lo scontro sul terreno militare su cui era evidente che era impossibile
vincere. Non c’è bisogno del tempo per capirlo, era evidente anche allora. Non
aveva alcuna consistenza la possibilità di vincere proprio portando lo scontro
sul livello militare. E lì Cossiga è stato abile perché il Ministro dell’Interno
di allora puntava a spingere sullo scontro. E questo, a mio parere, anche se non
ci fossero state le BR, come dimostra il caso di Giorgiana Masi,. Come un grande
provocatore. Ovviamente lo faceva con un senso dello Stato tutto sardo e
piemontese di uccidere i nemici prima che diventino grandi…
C’è stata un’obiettiva
convergenza ma non nel senso che le BR fossero d’accordo con Cossiga, il che è
ridicolo, ma nel senso che l’errore delle BR ha facilitato la strategia di
Cossiga. Io penso, ad oggi, che se non ci fossero state le BR magari avrebbe
usato… Comunione e Liberazione. Ovviamente è una battuta. Ma resta il fatto che
il Ministro era talmente deciso in questa sua strategia che indubbiamente era
intelligente, anche se assai costosa dal punto di vista della sofferenza.
All’epoca del caso Moro
lei e Pace cercaste, con l’intervento dei socialisti, di evitare l’uccisione di
Moro attraverso una soluzione umanitaria. Claudio Signorile, in un’intervista
del 2001 a Claudio Sabelli Fioretti, ha fatto una considerazione molto precisa:
«Ti dico una cosa che susciterà anche qualche polemica. Conoscendo Piperno penso
che lui fosse convinto di poter governare le cose. Franco è molto ambizioso e
autoreferente. Credeva di poter gestire le contraddizioni all’interno delle Br
orientandole verso uno sbocco politico, la scarcerazione di Moro. Piperno non
faceva un’operazione umanitaria bensì politica all’interno dell’area
dell’Autonomia…». “Gestire le contraddizioni all’interno delle Br”? In quale
maniera?
C’era un vero dibattito
politico, per quanto sembri strano, e certo un dibattito politico più leale di
quello che avveniva a colpi di coltello dietro la schiena nella DC o nel PCI.
Conoscevo alcuni brigatisti da prima della loro scelta di praticare la lotta
armata. Moretti non lo conoscevo e non l’ho incontrato durante il rapimento
Moro. Poichè non sono uno sciocco e capivo, per quanto impreparati fossero e per
quanto mi fidassi della lealtà dell’On. Signorile, che mi sarei prestato ad
essere un facile bersaglio, per prudenza mi sono ben guardato dall’incontrarli.
Quindi si è trattato di dibattiti e documenti scritti, la maggior parte dei
quali furono sequestrati. Alcuni dei brigatisti venivano da Potere Operaio ed
alcuni erano miei amici ed io ero convinto che un ragionamento lucido li avrebbe
aiutati nelle decisioni. Peraltro penso che sia andata così perché c’era
all’interno delle BR la linea che voleva rimandare, se non altro, l’esecuzione
della condanna. Questa linea c’è stata e che sappia io si trattava in gran parte
di compagni che provenivano da Potere Operaio. Quindi l’idea pubblica, cioè
quello di dire le cose pubblicamente, era quella giusta. La gente poteva
ragionare, decidere e caso mai non accettare. Noi abbiamo adottato in quelle
settimane questa strategia ma non ce l’abbiamo fatta e anche se per alcuni versi
ho avuto molti guai personali, per altri sono contento di averci tentato.
Se, come sostiene
Signorile, Fanfani avesse dichiarato “Dobbiamo prendere in seria considerazione
le ragioni dell’atto umanitario” le Br avrebbero davvero ritenuto quella
dichiarazione un passo sufficiente per non uccidere Moro?
Sono sicuro, sono sicuro.
Anche se è probabile, come ha detto poco tempo fa l’On. Signorile, che Fanfani
avesse già comunicato che lui non poteva farla e l’avrebbe fatta fare a
Bartolomei che era un esponente autorevole in quanto braccio destro di Fanfani.
La storiella che ci sarebbe stata una dichiarazione il giorno dopo a livello di
Direzione della DC naturalmente può essere stata una decisione autonoma dei
democristiani. Ma l’accordo informale che aveva mediato Signorile era che ci
sarebbe stato entro domenica 7 maggio, in uno dei comizi, un chiaro intervento
di un dirigente della DC. La dichiarazione di Bartolomei fu una specie di
scilinguagnolo. Qualcuno che aveva seguito le cose poteva comprendere che c’era
un accenno di apertura alla trattativa, ma era una dichiarazione talmente
ingarbugliata che non servì a convincere Moretti e gli altri a non uccidere
Moro. Fanfani lo sapeva che questa era l’ultima chance che veniva data.
E’ possibile che le cose
siano andate a monte proprio perché qualcuno, venuto a conoscenza degli accordi
dell’8 sera tra Signorile e Fanfani, costrinse i brigatisti ad accelerare
l’esecuzione del prigioniero?
Mi pare un’ipotesi un po’
rocambolesca. Per quello che so io era chiaro già dall’inizio di maggio che
questa era l’unica possibilità, era stato detto più volte. Mutare in una
situazione talmente tesa le cose, cioè accordarsi personalmente, era senza
significato. Una telefonata tra Signorile e Fanfani sarebbe stata totalmente
ininfluente proprio perché si era deciso di giocare tutto in una dimensione
pubblica. Questo anche se nessuno l’avesse registrata. Mi sembra una tipica
spiegazione ad hoc italiana, miserevole anche quando è fatta in buona
fede. L’idea che qualcuno abbia controllato le telefonate e abbia dato ordini ai
brigatisti… I brigatisti si muovevano semplicemente sulla base della sicurezza
dei loro rapporti e di quello schema organizzativo abbastanza impenetrabile che
erano le BR. Certamente non avevano infiltrati o informatori nei Servizi
Segreti. Mi sembra un modo di sfuggire alle proprie responsabilità.
Perché, secondo lei, a
tanti anni di distanza nessuno vuole ancora fare il nome del padrone di casa che
ospitò l’incontro tra Moretti, lei e Pace nel suo attico alle spalle di piazza
Cavour poco dopo l’assassinio di Aldo Moro?
Semplicemente perché non è
morto. Come ho già detto uno può parlare di queste cose e sforzare la sua
memoria magari prendendo un po’ di fosforo, sempre ammesso che io localizzi
perfettamente l’appartamento, solo se il diretto interessato e coloro che hanno
organizzato l’incontro non avessero conseguenze di nessun genere.
Dalla prigione di Poissy,
Carlos ha recentemente raccontato una vicenda che aveva già avuto modo di
accennare in due interviste del 2000. L’8 maggio del ’78 un gruppo di agenti del
SISMI che Carlos definisce “patriottici anti-NATO” aveva preparato un blitz per
liberare alcuni brigatisti in carcere e trasportarli in aereo a Beirut dove il
col. Giovannone e alcuni membri dell’FPLP erano pronti a condurli in un Paese
che li avrebbe potuti ospitare. Ma la sortita fallì a causa della soffiata che
un dirigente dell’OLP che informò la stazione della NATO a Beirut. Cosa ne
pensa? Ritiene che la fazione morotea interna ai servizi fosse così forte da
poter pensare di attuare un’iniziativa così “azzardata”?
Non sono al corrente delle
dichiarazioni di Carlos e, se devo dire la verità, non sono uno specialista di
queste cose per le quali spesso provo una noia profonda.
Quello che ha detto mi pare
del tutto irrilevante. Quello che è successo in Italia ha talmente tante
spiegazioni nel clima italiano che fosse anche passato da Roma in via Fani,
Carlos, non è lì che si deve trovare la spiegazione di quello che è successo.
Si tratta proprio di cambiare
piano. Dopo di che si può esaminare tutto, anche Carlos. Ma prima occorre
riposizionare le cose sul giusto piano.
E quale è il piano giusto?
In Italia c’è stata una
rivolta sociale ai limiti dell’insurrezione e dentro questo movimento ci sono
state anche organizzazioni armate, cosa peraltro tipica nella storia, che
commettendo un catastrofico errore politico anche dal loro punto di vista, hanno
spostato lo scontro sul terreno della lotta armata e quindi della risposta
militare. A quel punto la cosa era abbastanza risucchiata in questo attrattore
della violenza militare che si poteva solo perdere. Le cose sono andate così,
anche se naturalmente si può sempre continuare a dire che non c’è chiarezza
perché ci sono dettagli che non tornano. In realtà ancora oggi non si sa se il
pugnale che ammazzò Cesare era stato fabbricato da un artigiano di Pompei o da
uno di Sovra… In Italia ci sono tanti misteri ma la cosa più misteriosa è
l’attività della stampa italiana, oltre che dei nostri politici, impegnata a
crearne degli altri, anche quando non ci sono. Per alcuni aspetti anche il caso
Calabresi soffre di questa sindrome.
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