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Moro, la Dc e il dialogo sconfitto
Gli Anni 2000 sono risultati così diversi dagli Anni 1900 che di questi si
perde la memoria. In un tempo in cui il presente è tutto, il futuro è un
problema, il passato non è più un maestro di vita, ciò che è stato perde i suoi
diritti. Il tempo comincia con l’oggi e del «doman non v’è certezza». È perciò
un atto meritorio dell’Università Luiss di Roma dedicare domani un convegno alla
figura più drammatica dell’Italia nella guerra fredda: Aldo Moro. Di guerra
fredda morì, perché tentò di dare forma politica al Paese, alla maggioranza
italiana di allora, composta da cattolici e da comunisti. Dai «due vincitori»
delle elezioni, come disse a Benevento dopo il voto del ’76.
Ma il caso Moro ha, per la sua potenza simbolica, un fascino particolare. È
un dramma perfetto: personale, familiare, di sinistra, politico, istituzionale.
Moro cercò di creare negli interstizi della guerra fredda un’eccezione italiana
in cui un partito comunista, il più grande dell’Europa occidentale, accettava
con il suo segretario la tesi che il socialismo si poteva costruire all’ombra
della Nato. Forse era troppo ardito sperare che il partito di Togliatti rompesse
i vincoli con l’Urss, troppo radicato il mito del «socialismo realizzato» da
noi: un Paese credente, in cui il comunismo, assunta la forma d’una religione
popolare, si conciliava con il culto della Madonna e dei santi. Gramsci aveva
voluto proprio questo. L’Italia era stata un’eccezione ai tempi della guerra
fredda perché il Paese è sede del Papato e Roma intendeva parlare anche col
potere sovietico e non diventare un avamposto dell’Occidente. Ma l’ipotesi che
la sede romana del cattolicesimo fosse così forte da essere una tale eccezione,
era un concetto troppo ardito. Sia vera o falsa la tesi di Giovanni Galloni che
vede nell’assassinio di Moro la vendetta di Kissinger, è certo che le Br
eseguirono su lui una sentenza che aveva l’approvazione di Washington e di
Mosca.
La storia di Moro non è inclusa nella storia Dc se non in parte. La sua vita
politica e anche quella nel carcere Br fu tesa a mostrare che l’idea del
dialogo, con cui Paolo VI affrontava il postconcilio, era politicamente
praticabile. Moro non intese il dialogo come cedimento: evitò l’errore di
Dossetti e Fanfani di fare della sinistra Dc la chiave del rapporto col Psi, poi
col Pci. Anche le lettere dal carcere sono la testimonianza di una vita politica
e del dialogo come principio che l’ispirava. La sua coerenza nell’estrema
sventura fu intesa come debolezza. Di una cosa Moro volle essere garante: che
tutta la Dc fosse presente nei governi che nascevano con una maggioranza prima
col Psi e poi col Pci. Il criterio che guidò Moro nel dialogo fu l’unità della
Dc. Ma il dialogo era una categoria politica sufficiente? Una scelta papale che
interpretava il Vaticano II aveva la forza di diventare un fatto spirituale e
politico in Italia? La vicenda di Moro ci dice di no. Le sorti di cattolici e
comunisti si bipartirono definitivamente dopo la sua morte.
Ricordo che la prima lettera di Moro fu indirizzata al ministro dell’Interno,
Cossiga, e che vi era il chiaro appello a non farsi incantare dalla «ragion di
Stato». Fu per questa parola che, chiamato dal direttore del Secolo XIX Afeltra
cui la lettera era giunta a dare un consiglio sulla sua autenticità e quindi
sulla sua pubblicazione, risposi che il termine «ragion di Stato» era della
penna di Moro. Sua la tesi che i conflitti presenti nella società non fossero
conflitti di Stati, ma conflitti nei popoli e che, per salvare la democrazia,
occorreva usare uno strumento che desse dignità politica alle parti coinvolte,
anche se non erano governi in esilio o forme istituzionali o paraistituzionali.
Il dialogo teorizzato da Paolo VI come forma di presenza della Chiesa nelle
modernità diveniva per Moro uno strumento politico di cui non solo la comunità
internazionale, ma nessun singolo Stato era in grado di fare a meno. La ragione
di rivoluzione è la più radicale delle ragioni di Stato: e le implacabili Br non
risposero all’atto solenne con cui Paolo VI cercò di coinvolgerle nel dialogo da
esse cercato con le istituzioni mediante l’appello diretto ai brigatisti di
salvare Aldo Moro «senza condizioni», cioè senza trattativa delle Br con lo
Stato. Le Br non consideravano la Chiesa come potere, volevano il riconoscimento
del potere reale: quello dello Stato italiano che non ebbero.
Gianni Baget Bozzo (La Stampa, 3 dicembre 2008)
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