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Il faccia a faccia 30 anni dopo il sequestro e il delitto
Andreotti, stretta di mano e dialogo con Morucci
Il presidente: «Era una guerra, sbagliata l'analisi». L'uomo che rapì Moro:
«Troppo indulgente con noi»
Alla fine si stringono la mano; il rapitore di Aldo Moro dice «Lietissimo» e
Giulio Andreotti risponde con un conviviale «Ciao». La serata è terminata,
Valerio Morucci se ne va mentre il nemico d'un tempo consuma le ultime
chiacchiere con gli altri ospiti. I quali hanno assistito alla stretta di mano e
— prima — a un dibattito inimmaginabile nel 1978, nell'Italia del sequestro e
dell'omicidio di Aldo Moro, dell'attacco brigatista al «cuore dello Stato».
Trent'anni dopo i due rappresentanti delle Br e dello Stato di allora
s'incontrano per la prima volta nel salotto borghese di un professionista
romano, che periodicamente organizza appuntamenti letterari per una ristretta
cerchia di conoscenti.
Venerdì scorso l'occasione è data dall'ultimo libro di Luigi Manconi,
sociologo ed ex sottosegretario alla Giustizia (trent'anni fa militante di Lotta
continua), intitolato Terroristi italiani. Le Br e la guerra totale, 1970-2008.
Presentatori d'eccezione (per l'eccezionalità del faccia a faccia) Andreotti e
Morucci, che prima di Moro aveva pedinato proprio l'ex capo del governo,
obiettivo alternativo del rapimento di un esponente democristiano. Ma Andreotti,
come ha svelato lo stesso ex terrorista, si rivelò obiettivo troppo complicato,
perché abitava in pieno centro e aveva l'auto blindata. Il dibattito comincia da
qui: che effetto fa al senatore a vita incontrare un brigatista che sparò sulla
scorta di Moro e sequestrò il presidente della Dc? Andreotti si rifugia in una
delle sue battute: «E' una fortuna esserci arrivati», ma nessuno dei presenti
ride. L'aria è tesa, tutti fissano il senatore e l'ex br seduto due poltrone più
in là. «C'era l'idea — continua Andreotti tornando al '78 — che il giusto fosse
tutto dalla propria parte, e che dall'altra fosse tutto sbagliato. Ma
distinzioni così nette non aiutano a capire. Sul terrorismo, ad esempio,
pensavamo a un fortissimo influsso straniero, che non era così rilevante. E'
possibile che abbiamo sbagliato qualcosa, soprattutto nell'analisi globale».
Quando tocca a Morucci ci sono dei lunghi secondi di silenzio, finché dice:
«Il discorso del presidente Andreotti mi pare molto indulgente verso le Brigate
rosse. Forse troppo. Dubito che in quel momento lo Stato potesse reagire
diversamente da come fece». L'ex terrorista tenta di spiegare il percorso che lo
portò in via Mario Fani, dove partecipò alla strage dei cinque uomini di scorta
e al «prelevamento» di Moro, ucciso dopo 55 giorni di prigionia: «L'ideologia
comunista prevedeva l'uso della violenza per la presa del potere, e passo dopo
passo arrivi a giustificare la morte del nemico. La Dc era lo Stato che noi
identificavamo con l'imperialismo delle multinazionali, e con Moro in mano
pensavamo di poter dare la scossa finale a quel sistema». Andreotti lo
interrompe: «Ma prendere Moro è un controsenso, perché lui aveva idee
diverse...», e Morucci: «Avremmo dovuto comprendere la complessità del sistema,
mentre la visione ideologica porta a semplificare tutto». Le lettere di Moro
prigioniero, che Morucci distribuiva durante il sequestro, portarono l'ex br a
cambiare posizione e a schierarsi (senza successo) per la liberazione
dell'ostaggio: «Ma io porto il peso della morte di Aldo Moro, al di là delle
condanne che ho avuto». E Andreotti, che guidava il «fronte della fermezza»
inutilmente contrastato dallo stesso Moro e dalla sua famiglia, sente anche lui
una parte di quel peso? «No — risponde senza tradire emozioni — C'era una
guerra, che altro potevamo fare? Qualcuno sosteneva che le lettere di Moro non
fossero autentiche...». Manconi interviene: «Non qualcuno, senatore. Lei e il
suo governo!». Andreotti taglia corto: «Sì, beh... C'era grande confusione. Fu
un momento di grandissima sconfitta. Eravamo in guerra. C'erano i morti di via
Fani, le loro vedove che minacciavano di bruciarsi in piazza se avessimo
trattato con le Br».
Questo è un dettaglio che Andreotti racconta da trent'anni, e da trent'anni
smentito dalle due vedove degli uomini della scorta, nonché da
un'intercettazione telefonica di quei giorni, quando la moglie del maresciallo
Leonardi chiamò la signora Moro per negare la stessa notizia riportata da
quotidiano. Qualcuno lo ricorda il senatore, che però insiste: «Venne da me a
dirlo, non credo fosse un'altra persona che si spacciava per lei». Alla visione
andreottiana della «guerra», Luigi Manconi contrappone l'immagine di una «guerra
civile simulata» dai terroristi, nonché «agevolata» da tanti fattori, tra cui le
stragi impunite e i depistaggi degli apparati istituzionali. Andreotti risponde:
«E' difficile fare chiarezza su personaggi ambigui... Il generale De Lorenzo (a
capo del Sifar e dei carabinieri negli anni Sessanta, ndr) in punto di morte mi
mandò il suo confessore a scusarsi per avermi dato qualche amarezza. Per fortuna
oggi non mi sembra che ci sia un clima che possa far tornare a quei tempi».
Morucci replica: «Non per merito della classe politica», e sostiene che la fine
delle Br ha anticipato la fine del comunismo. Andreotti ascolta attento e
chiede: «Avevate la sensazione di un grande influsso americano?». Morucci:
«Certo, enorme». Perché, non era così senatore? «Insomma. Bisognerebbe
distinguere periodo per periodo». Il dibattito finisce e gli ospiti si
accomodano a mangiare qualcosa, chiacchierando fra loro più che con i due
protagonisti della serata. Morucci regala ad Andreotti un suo libro, con tanto
di dedica, il senatore ringrazia. Poi il commiato: «Lietissimo», «ciao».
Giovanni Bianconi (Repubblica 24 novembre 2008 )
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