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Le memorie inedite a 100 anni dalla nascita
Giovanni Leone e il «complotto»
«Il Pci volle le mie dimissioni Ma fu la Dc ad abbandonarmi»
«Onorevoli colleghi, non mi fate dubitare della vostra saviezza... la
Democrazia Cristiana non si lascerà processare nelle piazze».
Era l' 8 marzo 1977 quando Aldo Moro pronunciò in Parlamento, con toni tra il
liquoroso e il minaccioso, questa difesa del proprio partito, stretto nella
morsa dello scandalo Lockheed. Un anno dopo sarebbe stato rapito e processato
dalle Br, e condannato poi a morte. Destino che, qualche settimana più tardi,
sarebbe toccato a un altro eccellente della Dc chiamato in causa per lo stesso
affaire, il presidente della Repubblica Giovanni Leone.
Il quale sarebbe stato anch' egli processato (nella piazza mediatica e al chiuso
delle segreterie di partito, anzitutto il suo) e condannato politicamente a
morte. Costretto cioè a dimettersi e a sparire dalla scena.
E' un intreccio di cronologie e misteri quello che lega le sorti di Moro e
Leone. E se sulla fine del primo si pretende che ogni interrogativo abbia avuto
risposta - sul piano processuale - sulla parabola del secondo certi dubbi sono
rimasti a lungo irrisolti. La verità è affiorata poco per volta in tempi
recenti. Una verità a pezzi che è giusto rimettere insieme almeno in parte alla
vigilia del centenario della nascita, che cade domani, e dei trent' anni dalla
cacciata dal Quirinale. Mentre il Senato sta per onorarlo solennemente (il 12
novembre, presenti Napolitano, Schifani e Fini), La storia siamo noi gli dedica
una puntata (in onda mercoledì alle 23.30 su Rai Due), nella quale affiorano
stralci delle memorie inedite dell' ex capo dello Stato, incrociati con le
testimonianze di alcuni protagonisti di quella stagione: da Andreotti a Cossiga
e Macaluso.
Le domande attorno alle quali ruota quest'ambiguo capitolo della storia
repubblicana restano le stesse di sempre.
Perché Leone entrò nel mirino? Erano fondate i sospetti contro di lui? Ci fu
un complotto per farne il capro espiatorio di un sistema in crisi, mettendo nel
tritacarne addirittura la sua famiglia? E se fu così, chi guidò la cospirazione
e diede la spallata definitiva?
Dopo che le accuse (corruzione, abusivismo edilizio, frode fiscale) caddero
in fretta, una replica senza appelli alla questione di fondo la offre ora
Cossiga, per il quale egli fu «dopo Moro, la più grande vittima della Dc».
Una lettura confermata dalle stesse memorie riservate di Leone: «Politicamente
le mie dimissioni furono volute dal Pci e accettate, o subite, dalla Dc, che mi
lasciò solo, mi abbandonò». Un esempio di quella solitudine affiora dagli
annotazioni sui giorni più difficili, quando il capo dello Stato già in bilico
chiese aiuto al segretario del partito, che gli negò perfino il diritto di
difendersi cestinando una sua intervista all' Ansa e suggerendo in tal modo che
Leone era sacrificabile: «Sono convinto che Zaccagnini agì in quell' occasione
in maniera ostile e che alla base del suo atteggiamento, oltre alla malcelata
ostilità politica di sempre, ci fu anche il risentimento per il forte contrasto
che avevamo avuto nella conduzione di tutta la vicenda Moro».
Ecco: il caso Moro si conferma lo snodo di una partita dura e spregiudicata.
Nella quale i vertici dello scudo crociato sono bloccati sulla linea della
fermezza nel confronto con i terroristi, mentre il Quirinale «era pronto a
firmare la grazia per la brigatista Besuschio o anche per altri», nella
convinzione che quella mossa evitasse la morte dell' ostaggio. «Ho già la penna
in mano», spiegò Leone a Eleonora Moro, che gli aveva chiesto un intervento in
extremis. «La telefonata mi dava l'opportunità di un intervento diretto. Io ero
nel mio studio e c' era con me Cossiga. Gli dissi che stavo per telefonare a
Zaccagnini. Cossiga mi bloccò la cornetta, dicendomi che tutto era registrato e
che bisognava valutare bene il peso della mia telefonata». C'era il rischio che
il Quirinale fosse criticato per «interferenze», fu l'ammonimento di Cossiga.
Senza contare che la Besuschio aveva mandati di cattura per vari reati e poteva
dunque restare in carcere anche se parzialmente graziata, chiosò Andreotti, ciò
che alle Br «sarebbe sembrata una provocazione».
Due obiezioni tra le tante. Che comunque non fermarono il pressing del Colle
sulla Dc, anche se era ormai troppo tardi per Moro. Poche settimane e, nel Paese
ancora sotto shock, la campagna contro Leone divenne martellante. A combatterla
furono giornalisti (su tutti, Camilla Cederna) e politici, con i radicali in
prima fila, cui si aggiunsero i comunisti. Che si prepararono a chiedere le
dimissioni del capo dello Stato, ma quasi controvoglia. «La direzione era molto
perplessa», racconta a La storia siamo noi Emanuele Macaluso. «Ho avuto dei
dubbi anch' io, poi però la logica del Pci era unitaria...
Il passo fu fatto d'accordo con Andreotti e la segreteria della Dc. Non si
pensi che il partito comunista da solo potesse fare questo passo, che era una
cosa eccezionalissima». Inghiottito in un gorgo di intrighi nel quale compare
perfino l' ombra di Gelli e senza che per lui valesse mai il minimo garantismo,
Leone si arrese. Ma non senza lasciare scritto, a futura memoria: «Spero che chi
non mi ha conosciuto possa cominciare a riconsiderare chi è stato veramente, dal
1971 al ' 78, il presidente della Repubblica». Marzio Breda
Breda Marzio (Corriere della Sera, 2 novembre 2008)
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