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La ragione e il dolore di Sabina Rossa
19/10/2008 - Liberazione - Salvatore Cannavò  
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La ragione e il dolore di Sabina Rossa
Elogio a lei che separa la civiltà dall'inciviltà

Questo articolo è un elogio di Sabina Rossa, figlia di Guido, ucciso dalle Br, che chiede di scarcerare uno degli uccisori - Vincenzo Guagliardo - di suo padre. Senza rinunciare al dolore né all'indignazione.

Non è un articolo sugli anni 70, sulla lotta armata, sui torti o su presunte ragioni. Non si tratta di disquisire sul rapporto tra "Caino e Abele", né di intervenire sulle interminabili polemiche che la stampa italiana ha montato ogni volta si sia cercato di affrontare una questione controversa e difficile come questa. No, vogliamo semplicemente tessere l'elogio di una donna di 46 anni che, nonostante il dolore accumulato per la perdita del padre, è capace di pronunciare parole declinate sul concetto di speranza: «Io non cerco vendetta né mi compiaccio della sofferenza degli altri. Per me gli ex brigatisti sono persone e non reati. Sono contraria al fine pena mai, il carcere deve mirare alla riabilitazione e credo che Guagliardo abbia pagato con 28 anni di carcere. Quello che ha fatto a me è un'altra cosa, è su un altro piano e appartiene a me». In quattro frasi, Sabina Rossa sintetizza una concezione moderna e civile della giustizia, scindendola dal dolore privato, bene anch'esso inalienabile e non commerciabile politicamente. A un Luca Telese che, su Il Giornale , la intervista alla consueta ricerca di prove per una tesi precostituita - "gli ex br non devono fare show in tv" - lei riesce a dire con molta semplicità e serenità: «la giustizia è un bene collettivo. Lo dico anche alle vittime come me: non può essere desiderio di vendetta privata».

Si badi, non stiamo facendo l'elogio del "politicamente corretto" o l'ennesima serenata garantista in onore di Cesare Beccaria. Non ci interessa perorare la causa degli ex br né soffermarci sul senso profondo della giustizia o del sistema carcerario. A noi interessa quel miscuglio di ragione e dolore che viene praticato da una donna che prova ad articolare un discorso pubblico convincente. Le parole di Rossa hanno forza e impatto perché al riconoscimento del principio costituzionale che vuole la pena come riabilitazione non sovrappongono il dolore umano che chiede rispetto per le vittime e ascolto delle loro ragioni. In lei il dolore e la ragione si sommano e ognuno trova il proprio spazio senza scacciare via l'altro. Non è un caso se dice che «perdono è una parola che mi infastidisce, riduce tutto a vuote formule e spettacolo». La realtà è più complessa, quella umana è sempre più intricata specialmente quando si ha a che fare con il dolore.

Saper mescolare dolore e ragione è una virtù, rende le persone più intense. Forse per questo Sabina Rossa ha qualcosa di civile da dire all'Italia di oggi e resta un'anomalia dei tempi. Le sue parole, infatti, sono l'esatto contrario, giuridico e civile, del discorso incolore, senz'anima ma violento che fa la Lega di Maroni, il discorso di chi vuole confinare i bambini immigrati nelle classi dell'apartheid. Il discorso politico, alla perenne ricerca di facile consenso e di voti freschi, che vuole trasformare la giustizia in un bene privato, altro che comune, in clava dei rapporti sociali. Il discorso di chi usa il disagio sociale (una forma comune di dolore) come password per la barbarie. Ieri le impronte ai bimbi Rom - c'è qualcosa di inquietante in questo ricorrente accanimento contro i bambini, nemmeno Alessandra Mussolini è disposta a seguire questo terreno - poi il permesso di soggiorno a punti, poi, ancora i Rom integrati con la raccolta di rifiuti tossici. Se qui la giustizia è un filtro per negare la stessa convivenza civile, nelle parole di Rossa è una leva per favorirla. E il dolore - o il disagio sociale - non diventano alibi.

Per questo ci interessa tesserne l'elogio, per segnalare uno sguardo sul mondo che semplicemente separa la civiltà dall'inciviltà.

 

Salvatore Cannavò (Liberazione, 19 ottobre 2008)

 

       

 

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