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Nel 1980 i Carabinieri potevano salvare Walter Tobagi.
Nuove testimonianze nel processo d’appello ai giornalisti Renzo Magosso e
Umberto Brindani
Un processo per diffamazione intentato al giornalista Renzo Magosso e al
settimanale “Gente” diretto da Umberto Brindani riapre il caso dell’omicidio di
Walter Tobagi e delle avvisaglie di quell’attentato che erano note agli
inquienti dell’epoca svariati mesi prima di quel terribile 28 maggio del 1980.La
storia del terrorista confidente dei carabinieri di Milano, Rocco Ricciardi,
personaggio a cavallo tra le Br e Prima Linea, era già nota da tempo ed era
stata anche oggetto di memorabili sedute nella indimenticabile Commissione
Stragi presieduta da Giovanni Pellegrino. In particolare di Ricciardi e di
alcuni retroscena delle indagini sugli assassini di Tobagi aveva parlato il
generale Nicolò Bozzo, uno degli uomini di punta della squadra di Carlo Alberto
Dalla Chiesa. Ed erano state parole dure riservate ai suoi superiori della
caserma Pastrengo di Milano, che, secondo quanto ha sempre ribadito lo stesso
Bozzo, ancora nel 2007 alla presentazione del “libro bianco sul caso Tobagi”,
guardavano male il potere e le indagini di Dalla Chiesa sul terrorismo rosso e
le ostacolavano burocraticamente in mille maniere. Per esempio facendo “mobbing”
ai suoi collaboratori. Come lo stesso Bozzo. All’epoca peraltro buona parte
dell’Arma aveva ai propri vertici elementi che nel marzo 1981 apparvero negli
elenchi della famigerata Loggia P2 di Licio Gelli.
Fatto sta che queste cose rievocate prima in un libro di Magosso e poi in un
servizio su “Gente” alla fine hanno portato a una serie di querele per
diffamazione. E a una prima condanna in primo grado al tribunale di Monza. Pochi
giorni fa però, nel processo d’appello a Milano contro Magosso e Brindani, ecco
un colpo di scena che è poi stato oggetto anche di una interrogazione
parlamentare del deputato radicale Elisabetta Zamparutti: i querelati citano
come teste a loro favore proprio il generale Bozzo il quale si presenta in aula
e dice che “l’Arma lo aveva costretto ad aggiustare la propria deposizione sulle
indagini successive all’omicidio Tobagi”. Ma Bozzo stavolta non si limita alle
parole e porta in aula anche un documento riservato di cui era ancora in
possesso dopo 28 e passa anni che dimostrerebbe proprio tutte le sue
dichiarazioni. Il documento in questione era stato preparato dai superiori
dell’epoca di Bozzo e in esso inequivocabilmente gli si chiedeva di dare una
versione “concordata” sul pentimento di Barbone. Che non sarebbe stato colto da
pentimento spontaneo 4 mesi dopo il delitto, come è passato alla storia
giudiziaria d’Italia, ma pedinato insieme alla sua compagna dell’epoca Caterina
Rosenzweig fin da poco dopo l’omicidio. “In particolare – si legge in quelle
carte - si raccomandava a Bozzo di rispondere, se interrogato al riguardo, che
Barbone aveva confessato spontaneamente senza che su di lui vi fossero prove di
alcun genere circa l’omicidio Tobagi.”
“Ma nello stesso documento – scrivono i Radicali nell’interpellanza - si
attesta una verità diversa, dato che vi si afferma che in data 5 giugno 1980,
cioè una settimana dopo l’omicidio, iniziano i pedinamenti del Barbone e a tale
data risale anche la prima relazione di servizio”. “Si tratta di una smentita
clamorosa della verità ufficiale, per come sinora conosciuta”, affermano i
giornalisti querelati. “In particolare – secondo l’interpellanza Zamparutti -
viene smentita la posizione della Procura milanese, la quale ha sempre affermato
che la confessione e collaborazione di Barbone era da ritenersi eccezionale,
inaspettata e spontanea (tanto da avergli guadagnato eccezionali benefici
giudiziari ed evitato pesanti condanne), essendo ufficialmente avvenuta solo
dopo ben 4 mesi dalla data di inizio dei pedinamenti e controlli a suo carico
quale sospetto per l’omicidio Tobagi”. Barbone quindi fu probabilmente indotto a
collaborare sottobanco prima del pentimento. E il prezzo del pentimento, oltre
alla libertà, potrebbe avere compreso l’esclusione del nome della Rosenzweig
dagli arresti successivi. Una storia abbastanza simile a quella avvenuta con
Leonardo Marino nel caso Calabresi prima delle accuse a Sofri. E peraltro una
prassi di polizia giudiziaria sempre costante nelle indagini di terrorismo,
probabilmente anche prima del pentimento di Patrizio Peci: si individuava grazie
agli informatori il “soggetto debole”, lo si avvicinava, gli si faceva
un’offerta che non poteva rifiutare e poi si portava a termine la messinscena
del “pentimento”.
Nella interpellanza viene richiamata la testimonianza di un sottufficiale
dell’Arma dei carabinieri, Dario Covolo, detto “Ciondolo”, all’epoca incaricato
di tenere i rapporti con un il suddetto informatore nei gruppi armati della
sinistra, Rocco Ricciardi. “Sulla base delle confidenze del terrorista –
scrivono i deputati radicali - Covolo avvisò i suoi superiori di un progetto di
attentato contro Tobagi sei mesi prima dell’attentato, senza che venissero però
presi adeguati provvedimenti per salvargli la vita”. Quindi nessuno avvisò
Tobagi. Perché? La versione di Bozzo è che all’epoca i suoi superiori facevano
“cose strane”, che poi lui rilegge ex post sulla base dell’appartenenza di
alcuni di loro alla P2. Sergio Segio, ex capo militare di Prima Linea e adesso
persona inserita nel volontariato nel gruppo “Libera” di Don Ciotti, ha una
teoria più chiara: “ci hanno usati per ammazzare la gente che a loro non
piaceva, ci hanno strumentalizzati e poi ci hanno arrestati quando faceva loro
comodo, anche se potevano farlo molti anni prima”. E Segio queste “confessioni”
le ha fatte, guarda caso, durante la presentazione del libro bianco su Tobagi a
Milano nel 2007, presente proprio il generale dei carabinieri a riposo Nicolò
Bozzo.
Dimitri Buffa (L'Opinione delle Libertà, 27 settembre 2008
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