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Il mistero di Tobagi. Nascosta la carta che poteva salvarlo
Un interessante e documentato articolo di Libero. Naturalmente, non
ripreso da nessun altro giornale
A 28 anni dall'omicidio del giornalista del Corriere spunta un'altra verità:
Marco Barbone era sorvegliato
Milano - Il killer Marco Barbone era sorvegliato dall'Antiterrorismo dal 5
giugno 1980, cioè una settimana dopo l'omicidio del giornalista del Corriere
della Sera Walter Tobagi. Lo afferma un appunto riservato consegnato dal
generale Nicolò Bozzo al tribunale di Monza il 16 gennaio 2008.
Ma la ricostruzione non collima con numerosi altri elementi emersi durante le
indagini e nel corso del processo.
ERA STATO AVVISATO
Durante i processi per diffamazione al giornalista Renzo Magosso e all'ex
vicebrigadiere dei carabinieri Dario Covolo, il generale Alessandro Ruffino,
parte civile, aveva sostenuto che Tobagi era stato avvisato dai carabinieri di
essere in pericolo. Ma l'"Iter delle indagini" che, secondo la deposizione di
Bozzo, gli fu consegnato dal capitano Umberto Bonaventura nel 1984, e che non
avrebbe mai dovuto vedere la luce, annota: «Il diretto interessato non fu
informato per varie ragioni: sostanzialmente perché la notizia di fonte
confidenziale non era direttamente a lui riferita in quanto il suo nome era
stato fatto solo in via di ipotesi. Pertanto non lo si voleva allarmare
ulteriormente, essendo noto che il Tobagi era stato già avvertito del
ritrovamento sia della scheda in via Negroli, sia di quella nella valigetta».
In realtà un documento redatto il 13 dicembre 1979 dal brigadiere Covolo
indica che «il gruppo sta operando in via Solari», esattamente dove abitava e
dove è stato ucciso Tobagi. E, nel 1983, l'allora ministro dell'Interno del
governo Craxi, Oscar Luigi Scalfaro, esibisce alla Camera dei Deputati proprio
quel documento, di cui si negava addirittura l'esistenza. Mancano soltanto i
nomi dei terroristi che però, secondo due deposizioni di Covolo, l'ultima del 22
settembre scorso, compaiono in una informativa successiva redatta da lui stesso
nel gennaio 1980. Ma il generale Ruffino, allora capitano dell'antiterrorismo,
nega di averla mai ricevuta. E allora, dove si trova attualmente l'informativa
completa dei nomi? si chiede la deputata Elisabetta Zamparutti, parlamentare del
Pd di area radicale, in un'interpellanza al presidente del Consiglio, al
ministro della Giustizia e a quelli dell'Interno e della Difesa, per sapere se
intendano «riscontrare i riferimenti espliciti e inequivocabili fatti da testi e
imputati davanti al tribunale di Monza e - ad avviso dell'interpellante -
colpevolmente trascurati, a partire dal contenuto delle informative secondo le
quali si sarebbe saputo in anticipo di mesi i nomi dei terroristi che stavano
progettando l'attentato a Tobagi e che poi effettivamente l'uccisero, per finire
al contenuto del documento presentato dal generale Bozzo davanti al Tribunale di
Monza nella udienza del 16 gennaio scorso secondo il quale gli sarebbero state
date dai suoi superiori indicazioni per fornire, se interrogato dalla
magistratura, la versione "concordata" sulle indagini».
LA GRAFIA DI BARBONE
Inoltre non quadrano con la versione proposta nell'"Iter delle indagini"
nemmeno gli sviluppi successivi alla scoperta del covo del brigatista Corrado
Alunni in via Negroli a Milano il 13 settembre 1978. Da uno dei 5mila documenti
sequestrati, emerge un manoscritto di rivendicazione di una rapina a due vigili
urbani con la grafia di Marco Barbone. Difficile pensare che qualcuno la
conoscesse, se Barbone non era mai stato arrestato né sottoposto a indagini.
Così come appare curioso che, tre giorni dopo il delitto Tobagi, i carabinieri
abbiano pensato proprio a quel manoscritto. Eppure, malgrado vi fossero
nell'area della Lombardia oltre 2mila terroristi conosciuti come pericolosi,
sette giorni dopo il delitto Tobagi si decide di pedinare proprio Barbone.
Soltanto lui. Tre giorni dopo parte la richiesta anche di intercettare il suo
telefono. E, puntualmente, gli esperti calligrafici dei Carabinieri di Roma, nel
giro di 20 giorni, fanno sapere che la calligrafia di Barbone è compatibile con
il documento di via Negroli. Non si spiega nemmeno perché nell'appunto riservato
di Bozzo, si raccomandi all'allora braccio destro di Dalla Chiesa di rispondere
a «eventuali domande» dicendo che Barbone aveva confessato spontaneamente dopo
l'arresto, «senza che su di lui vi fossero prove di alcun genere circa
l'omicidio Tobagi». E gli si dice anche di specificare che lui ha accompagnato
il generale Dalla Chiesa il 2 ottobre 1980, ma che ha presenziato solo
saltuariamente al colloquio; già perché sempre nel documento si specifica che
Dalla Chiesa aveva informato solo oralmente la magistratura di quell'incontro e
solo dopo la confessione i magistrati andarono a ratificarla.
LA CONFESSIONE
Dall'appunto riservato esibito dal generale Bozzo in udienza si deducono in
maniera evidente almeno due circostanze: non è vero che gli inquirenti non
sapessero nulla della responsabilità di Barbone per l'omicidio Tobagi fino alla
sua confessione. In secondo luogo, non è vero che fu fatta davanti ai
magistrati, ma, informalmente al generale Dalla Chiesa.
C'è un ultimo particolare non coincide. E non è di scarso rilievo. Riguarda
la "talpa" infiltrata nel partito armato. Durante tutti i processi Tobagi, è
stato fatto notare che l'allora fonte Rocco Ricciardi aveva dato ben poche e non
rilevanti notizie sul partito armato. E che dopo l'informativa del 13 dicembre
1979 non aveva praticamente più dato notizie. Lui stesso nel 1985, evidentemente
ignorando il documento presentato da Bozzo, scrive in un suo memoriale dato alla
magistratura di essersi limitato, sei mesi prima del delitto Tobagi, a
ipotizzarlo, senza fornire altre notizie in seguito. Invece, nel 1984, con
l'appunto riservato che doveva rimanere interno all'Arma dei Carabinieri,
l'allora capitano Umberto Bonaventura raccomanda a Bozzo: «Pericoloso rivelare
quale fosse l'O(rganizzazione) di cui la fonte parlava e pericoloso rispondere
ad altre domande sul punto in quanto si correrebbe il rischio di rivelare
indirettamente l'identità della fonte che è ancora attiva». Delle due l'una: o
aveva smesso di collaborare già nel 1980 o nel 1984 era ancora un informatore. A
questo punto, è d'obbligo che si accerti la verità, storica e giudiziaria.
Andrea Morigi (Libero 27 settembre 2008)
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