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Era un terrorismo tutto politico.
Era un terrorismo tutto politico. Lottava con le armi per prendere il
potere. E l'obiettivo era scandito da omicidi di persone inermi o di funzionari
dello Stato, da rapine alle banche e sequestri di persona, dal reclutamento
nelle università, in alcune fabbriche del Nord o nelle carceri.
La grande illusione terrorista ha al suo attivo il più clamoroso scacco allo
Stato con il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro e della sua scorta. Non li
abbiamo dimenticati quei mesi in cui lo statista catturato scriveva lettere
dignitose e intense che calavano come una scure su un paese attonito.
Ancora si discute su quanto questo terrorismo possa essere stato manovrato da
servizi segreti interni o stranieri, ma quel che sappiamo è che non avrebbe
potuto godere di oltre un decennio di vita se non avesse avuto solide protezioni
nella società, in quella che conta in particolare, si pensi ad un apparato
pubblico, a un circuito di intellettuali arrabbiati e delusi, a zone sindacali
di frontiera, a professionisti della borghesia bene.
Del terrorismo sappiamo anche che è stato storicamente sconfitto, ma non del
tutto. Siamo l'unico paese in cui di tanto in tanto si scopre una nuova cellula
Br ancora in attività o in cui si ha sentore che settori della nuova anarchia
lavorino in profondità dentro alcune curve di ultras o nell'emarginazione
sociale. La sconfitta non è, quindi, definitiva. Lo sarebbe, se tutti avessero
fatto la loro parte. Soprattutto gli ex terroristi.
Molti di loro si sono pentiti e vivono fra di noi. Altri si sono dissociati
senza pagare il prezzo della denuncia dei «compagni» e dell'organizzazione.
Altri ancora stanno uscendo dal carcere per fine pena. Alle loro spalle c'è
un'intera stagione. Sono donne e uomini incanutiti, ormai anziani, che spesso
hanno mantenuto gli antichi convincimenti oppure dichiarano di averli cambiati.
In quasi tutti loro c'è l'orribile orgoglio di aver combattuto una battaglia
militare. Non la rifarebbero, ma si sentono protagonisti di un combattimento
alla pari fra due eserciti.
Spesso si sono rifatti una vita. Addirittura è capitato che alcuni di loro
abbiano lavorato come consulenti di ministeri. Una volta mi capitò di
partecipare ad un dibattito a Roma che si svolgeva in un giardino pubblico e
scoprii che a metà discussione uno degli interlocutori dovette abbandonare il
tavolo della presidenza perché si avvicinava l'ora del ritorno in carcere per
trascorrervi la nottata.
Non devono più parlare? Devono patire tutta la vita in silenzio, emarginati e
esclusi? Meno vittimismo. La richiesta che rivolgiamo è più semplice. C'è
bisogno di una maggiore sobrietà, in loro e in chi li invita. Anche perché hanno
parole pensose su tutto, ma di una cosa non parlano volentieri. Di loro, della
loro esperienza. Criticano lo Stato, le carceri dello Stato, i servizi sociali
pubblici, ma sul loro passato hanno tirato giù una saracinesca. Ci sono tante
zone buie nei racconti degli ex terroristi. Nessuno sa, ad esempio, quanti
fossero i loro sostenitori non armati, quelli che ne ospitavano le riunioni, ne
favorivano la fuga o ne proteggevano la latitanza, che davano informazioni sugli
obiettivi da colpire. È mai possibile che fosse in armi un esercito di militanti
senza un retroterra nelle principali città italiane? Un pentito di mafia deve
raccontare tutto di sé, della sua famiglia, delle sue relazioni. Un terrorista
pentito, dissociato o libero per fine pena, invece, può tenere tutto in serbo,
può continuare ad avere relazioni con chi lo aiutò un tempo, teoricamente può
ricattare chi tifava per lui. Di fronte a queste domande viene opposto uno
sdegnato silenzio, come se il passare del tempo imponesse di mettere una pietra
sopra. Non è così. Non ci stiamo.
Dite tutto. Dite tutto, se volete avere il diritto di continuare a contestare
pacificamente lo Stato in cui vivete. Altrimenti, abbiate pietà di noi, banali
cittadini disarmati e rispettosi delle leggi, e statevene un po' zitti!
Peppino Caldarola (Il Tempo, 28 settembre 2008)
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