«Chi si chiama fuori è un infame. E gli infami muoiono».
«Chi si chiama fuori è un infame. E gli infami muoiono». Così Valerio Morucci,
brigatista rosso doc e dissociato, ha spiegato quale sono le regole dei
carcerati che lui stesso ha accettato.
Detto da lui, pentito di comodo che ha raccontato una verità piena di omissis
sul rapimento e l'uccisione di Aldo Moro e di tanti altri episodi che hanno
insanguinato l'Italia degli Anni di piombo, dovrebbe aiutare a capire. A
comprendere quegli omissis. Quei misteri che ancora avvolgono tanta storia del
nostro Paese. Silenzi che gettano ancor più nello sconforto i parenti delle sue
vittime che non hanno ancora capito perché i loro genitori, i loro figli siano
stati ammazzati.
Ieri Valerio Morucci ha presentato la sua ultima fatica letteraria «Patrie
Galere. Cronache dall'oltre legge», alla Casa delle Letterature del Comune di
Roma. E l'occasione ha provocato la protesta delle «vittime del terrorismo»:
«Ancora una volta - ha detto Bruno Berardi - si è venuto meno al monito del capo
dello Stato che il 9 maggio scorso ammoniva tutti a non dare spazi ad ex
brigatisti. Ancora una volta un'istituzione pubblica, oggi il Comune di Roma,
concede spazio agli assassini».
La protesta, civile e silenziosa, è però servita al signor Valerio Morucci,
con il confortante appoggio di Piero Sansonetti, direttore in «equilibrio
precario» del giornale di Rifondazione comunista, di lanciare l'allarme censura.
Morucci ha sostenuto che impedirgli di scrivere e parlare è proprio di uno
Stato totalitario. La libertà di dire ciò che si pensa «non va negata a
nessuno». «Io - ha aggiunto - scrivo dei libri e qualcuno li legge. Impedire a
me di scrivere e di parlare lederebbe anche il diritto di chi legge i libri. Il
giudizio spetta solo a loro». E invece, «c'è qualcuno in questo paese, anche tra
le più alte cariche, che ha pronunciato queste frasi. Per me è un anticipo di
stato totalitario perchè solo». Morucci ha poi proseguito: «Qualcuno ha detto
che siamo prossimi al ritorno del fascismo ma credo che questo sia impossibile;
credo, semmai, che ci stiamo avvicinando invece alla situazione descritta in
1984 da Orwell».
Ma nessuno vuole impedire a lui e ai brigatisti di parlare e scrivere. «Ci
piacerebbe che lo stesso spazio venisse dato alla vittime e alle loro storie» ha
detto Berardi. Del resto Morucci ha spiegato che «se non si scrivono cose
indegne e i lettori comprano e leggono i libri» si ha il diritto di farlo e
impedirlo vorrebbe dire negare a tanti una lunga serie di diritti. Va però
preservato anche il diritto alla verità. Completa e senza omissis che Morucci e
suoi sodali continuano a negare ai parenti delle loro vittime e a tutti gli
italiani. Nessun nega la libertà di parola agli assassini, ma c'è anche la
libertà di sapere, di conoscere perché e per quale fine sono state ammazzate,
gambizzate, torturate tante persone. E suona molto strano che Morucci, che tace
su molti aspetti che lo hanno visto protagonista, dica: «Il carcere è un
abominio». E la prigionia di Moro, Peci, Sossi, dei giudici D'Urso e Di Gennaro,
di Cirillo?
Valerio Morucci non ha chiarito cosa accadde il 7 genniaio 1978 in via Acca
Larentia dove due giovani missini furono uccisi con un'arma trovata poi in un
covo della sua Colonna romana delle Brigate Rosse. Morucci non ha detto chi
fossero tutti i brigatisti presenti in via Fani così come non ha chiarito molti
aspetti dei quei 55 giorni. E non ha sentito la necessità di squarciare il velo
dei misteri a trent'anni da quei fatti. Preferisce raccontare e romanzare le
«sue prigioni». Del resto «chi si chiama fuori è un infame. E gli infami a volte
vengono ammazzati».
Maurizio Piccirilli (Il Tempo, 28 settembre 2008)
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