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Brigate Rosse, ci vorrebbe una riconciliazione
``sudafricana``
Mancanza di memoria condivisa, pericolosità delle leggi speciali. In libreria
"Terroristi italiani" di Luigi Manconi
Con il suo libro sul terrorismo delle Brigate rosse, Terroristi Italiani - Le
Brigate Rosse e la guerra totale
1970 - 2008 (Rizzoli, pp.360, euro 18,50) Luigi Manconi ci riporta su
questioni che ci assillano con la loro attualità, date anche le ultime
"imprese", dagli efferati omicidi di Massimo D'Antona e Marco Biagi, agli
sporadici proclami di sedicenti Avanguardie di resistenza antimperialista (che
vedono addirittura nel "popolo dell'Islam" un nuovo proletariato internazionale
e un nuovo fronte di lotta) fino ad alcuni arresti del settembre del 2007.
Molte le questioni: perché terrorismo italiano e perché in Italia, quale
continuità tra le vecchie e le nuove Br, cosa si è fatto per contrastarlo, quali
prezzi ha pagato lo stato di diritto, se e come sia possibile chiudere
definitivamente una fase storica lacerante che sembra non passare mai e per la
quale tutti continuano a pagare un intuibile altissimo prezzo, a partire dai
familiari delle vittime .
Terroristi "italiani" innanzitutto, per sgombrare il campo dalle dietrologie
del coinvolgimento dei "servizi" di altri Paesi che potrebbero aver svolto un
ruolo di depistaggio o impedimento di possibili differenti soluzioni (caso
Moro), ma che nulla hanno avuto a che fare né con la nascita, né con una sorta
di eterodirezione delle strategie della lotta armata.
Il "perché in Italia" trova le sue ragioni e le sue radici in un complesso di
cause quali, innanzitutto, il "blocco del sistema" e la sua impermeabilità
rispetto alle domande collettive con le conseguenti frustrazioni sociali in
presenza di bisogni insoddisfatti. Ed, ancora, quella particolare "chiusura" del
sistema politico-normativo, specie dopo la strage di Piazza fontana alla quale
lo Stato non seppe né volle rispondere con gli strumenti di un diritto uguale
per tutti come prescritto dalla Costituzione, ma anzi imboccò la strada delle
leggi emergenziali, destinate a limitare e irrigidire gli spazi di espressione
del dissenso radicale e della lotta politica antisistema. Da ciò, la "fine
dell'innocenza" di quella generazione e la risposta di una assolutizzazione
della lotta contro l'ingiustizia e la legittimazione morale e religiosa della
"violenza giusta", che trovava terreno fertile anche in un elevato tasso di
ideologizzazione, in una tendenza alla politicizzazione di tutte le sfere e le
articolazioni della vita associata, nonché nell'epica della Resistenza e del
comunismo, nella perpetuazione del Sessantotto e nell'influenza delle culture e
dei movimenti sociali.
La evidente - ovviamente per le Br - impossibilità della via democratica per
sbloccare il sistema e superare così i guasti sociali consequenziali, mi sembra
la chiave di volta per una convincente interpretazione delle "ragioni" della
lotta armata, così come il suo fallimento è da ricercare nella prevedibile
tenuta del sistema stesso. Una risposta a questo dramma collettivo la trovo
nella citazione di Umberto Saba nell'epigrafe del libro. Il poeta, nel 1945,
chiedendosi come mai l'Italia non avesse avuto mai una sola vera rivoluzione da
Roma a oggi, individuava negli italiani l'unico popolo che aveva alla base della
loro storia un fratricidio e non un parricidio (Romolo e Remo, Ferruccio e
Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani), concludendo come solo
col parricidio (uccisione del vecchio) si potesse iniziare una rivoluzione. Le
Br, invece, nella loro folle ed irrealizzabile strategia di uccisione del
"vecchio" (il sistema di potere nella sua continuità storica), riuscirono ad
essere solo fratricide scaricando, tra l'altro, la loro furia omicidiaria su
soggetti votati più al servizio della democrazia che a quello dell'odiato
sistema imperialista delle multinazionali.
Un altro tema del libro assolutamente condivisibile, è la continuità nella
ricerca, da parte delle Br, di un collegamento con la fabbrica e gli operai. Pur
nella individuazione di vari "nemici" - di volta in volta obbiettivi delle varie
"campagne" - (nella prima fase la fabbrica, lo Stato, la repressione, il
carcere, il cuore dello Stato, l'imperialismo e, nella seconda fase, il
riformismo specificamente giuslavorista, con il ferimento di Gino Giugni e
Antonio Da Empoli e gli omicidi Delcogliano, Tarantelli, Conti, Ruffilli,
D'Antona e Biagi, nonché lo sventato attentato a Pietro Ichino) al centro della
riflessione delle Br c'è la condizione operaia, una vocazione operista armata
che è rimasta sempre dominante e che «nasce nelle fabbriche negli ani '70 per
riemergere oggi nel contesto della precarizzazione del lavoro e dello
sgretolamento di quella coscienza di classe che univa, invece, 30 anni fa,
uomini e donne in battaglie comuni forse oggi impensabili».
La condizione operaia, precarizzata e frantumata, porterebbe oggi le nuove Br
a tentare una ulteriore scorciatoia, ricollegandosi idealmente, come si è detto,
al nuovo "proletariato internazionale", il popolo dell'Islam: credo che la folle
idea preconizzante una rivolta popolare e di massa come conseguenza della lotta
armata, si perpetui nella previsione di una palingenesi determinata da una
rivoluzione islamica tesa, tra l'altro, alla affermazione di un modello di
società che, dove si è realizzato, ai "comunisti" ha sempre riservato il carcere
o il plotone d'esecuzione.
Un lungo periodo segnato dalla violenza non poteva non avere conseguenze
negative, ovvie sia per i protagonisti che per le istituzioni. Non c è dubbio
che la lotta armata, oltre a coinvolgere i militanti a tempo pieno, aveva
"contaminato" molti altri che, come ricorda autocriticamente l'autore, avevano
vissuto in quella fase il "sogno di una cosa" e conosciuto, specie dopo la
palese impunità delle stragi, "una educazione non democratica" come unica via
possibile alla democrazia. Non da meno si era comportato lo Stato e Manconi
analizza le contraddizioni delle strategie di contrasto al terrorismo adottate
sin dagli anni '70. Strategie riemerse purtroppo oggi con la normalizzazione di
normative di eccezione e deroghe significative a diritti e libertà altrove
dichiarati come inviolabili: un cliché ben sperimentato che dovrebbe convincerci
della pericolosità, oltre che della inutilità, di leggi che servono solo a far
arretrare permanentemente, e non eccezionalmente, il sistema delle garanzie.
Ma questa prevalenza della ragion di Stato sui principi dello Stato di
diritto non ha soltanto determinato torsioni nel sistema democratico del nostro
Paese che, come detto, riemergono oggi di fronte ad emergenze divenute
permanenti. Di più, ha impedito l'elaborazione del lutto collettivo e la
ricomposizione della frattura sociale prodotta dalla lotta armata di quegli
anni, una frattura che trova motivi di contesa politica, come è capitato l'anno
scorso, persino sulla scelta del giorno da dedicare alla memoria delle vittime
delle stragi: e ciò forse perché, secondo Manconi, su quei lutti collettivi non
è mai stata fatta luce fino in fondo.
Il non aver fatto i conti con quell'esperienza è una delle cause principali
del clima di scontro che si riaccende periodicamente ogni qual volta si torna a
parlare della ricerca di una via di uscita dagli anni di piombo: una soluzione
che non si può pensare di trovare senza la ricostruzione di una memoria storica
comune e di una verità condivisa e che non può venirci dai soli processi
giudiziari.
Il pensiero corre allora all'unica, riuscita esperienza della Commissione per
la verità e la riconciliazione istituita in Sudafrica nel 1995 che, come ricorda
Manconi, ha permesso di chiudere il dramma dell'apartheid ascoltando le vittime
o i loro parenti: un bisogno d'ascolto che qui, in Italia, è fortemente sentito
da questi ultimi e che potrebbe davvero aiutarci a percorrere il cammino che
porta alla riconciliazione come ben dimostra il bel libro di Mario Calabresi
Spingendo la notte più in là .
La Commissione sudafricana ha dimostrato che esiste un'altra giustizia che ha
la forma e la forza della ricostruzione collettiva del passato e che questa, a
volte, è la sola forma di pacificazione possibile. Anche qui da noi, pur
mancando le gigantesche figure morali e politiche di un Nelson Mandela o di un
Desmond Tutu, si dovrebbe riflettere su questa giustizia altra, che si fonda non
sulla pena e sulla vendetta, ma sull'esigenza umana, politica e sociale, di una
condivisa ricostruzione della verità e della memoria. Questo è il messaggio di
Luigi Manconi che, con il suo libro, dà un rilevante contributo ad una tale
ricostruzione.
Giuseppe Di Lello - Liberazione - 02/09/2008
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