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Non sapevo che a metà degli Anni Settanta
l'Italia fosse in guerra.
So per certo che in quel tempo - sindaco di Torino - ogni giorno correvo da una
parte all'altra della città dove era stato consumato un attentato, un omicidio,
un gambizzato (terribile neologismo coniato proprio negli anni di piombo). Ora
Piero Fassino, in riferimento al Caso Moro, ci dice a trent'anni di distanza,
che "in tempo di guerra si tratta con il nemico". Dunque l'Italia era in guerra
con le Brigate Rosse e affini? Cioè con un branco di esaltati assassini, per
altro vigliacchi (cioè, privi di coraggio) perché era troppo facile uccidere un
poliziotto, un avvocato, un giornalista sparandogli alle spalle. In nome di che
cosa? Di una fantomatica rivoluzione proletaria di loro invenzione?
Non mi sorprende l'ultima sortita di Piero. Lo
chiamo amichevolmente così perché ero presente il giorno del suo incontro con il
segretario della Federazione Torinese del PCI, Adalberto Minucci, quando venne a
ringraziarci perché avevamo partecipato noi comunisti al funerale di suo padre,
stimato partigiano delle Formazioni Autonome. Quella nostra presenza lo aveva
colpito. Fu in quell'occasione che Piero manifestò interesse per la politica e
l'intenzione di aderire alla Federazione Giovanile.
In questi anni ci ha abituati a sorprendenti
"folgorazioni". Nel suo libro "Per passione" ci fa sapere, attraverso una
metafora del gioco degli scacchi, che Berlinguer ha preferito morire un minuto
prima dello scacco matto onde evitare l'impatto con la crisi della sua strategia
politica. Berlinguer aveva sbagliato tutto, Craxi aveva ragione.
Poi presentando il suo libro con Romiti ha
detto che nell'Ottanta (35 giorni di sciopero, marcia dei 40 mila) tutto sommato
la Fiat non aveva tutti i torti e che i sindacati (che avevano respinto i
quindicimila licenziamenti) non avevano capito praticamente niente dei
cambiamenti in atto. Adesso è la volta di Moro. Pazienza. Aspettiamo il prossimo
ripensamento prima della nascita del Partito Democratico.
Ma se il comportamento di Piero è un po'
stucchevole, con queste sue piroette tendenti ad una legittimazione, non si sa
bene da parte di chi, leggere oggi sul "Corriere della Sera" ciò che ha
dichiarato Pietro Ingrao, sempre sul Caso Moro mi ha riempito di amarezza. Cosa
vuol dire: "si doveva trattare per liberare Moro", e che ciò "non avrebbe
impedito di riprendere il giorno dopo la lotta al terrorismo"? Il giorno dopo
avrebbe significato un altro rapimento e, dopo un'altra trattativa, un altro
rapimento e così via. Pur rimanendo validi tutti gli interrogativi che Ingrao si
pone sul Caso Moro, stare al gioco dei terroristi avrebbe voluto dire protrarre
la "lunga notte" chissà per quanto tempo ancora, ringalluzzendo i fautori della
lotta armata, creando attorno a loro non il vuoto (come è accaduto) ma un
terreno fertile per il reclutamento. Questa vocazione della sinistra all'autoflagellazione,
all'insegna di "abbiamo sbagliato tutto", che traspare anche dall'ultimo libro
di Ingrao, non solo è preoccupante ma rattrista.
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