Parla Cossiga: "Ecco i misteri del caso
Moro"
Claudio Sabelli Fioretti
È ora di parlare dell’assassinio di Moro,
l’avvenimento tragico che ha segnato di più la sua vita. Aldo Moro scrisse: «Il
mio sangue ricadrà su di voi». Ricorda? Era una maledizione o una preveggenza?
«Tutti dicevamo leggendo le sue lettere: è lui
o non è lui? Io ho detto, sbagliando, che non era lui. E me ne pento. Era lui.
Era lui e aveva capito come stava andando a finire. Quella frase non era una
maledizione, perché lui era profondamente cristiano e non malediva nessuno. Era
una preveggenza».
È pentito?
«Sicuramente».
Quand’è che si è convinto a dire che si era
sbagliato?
«Tre o quattro anni dopo».
Se avessero rapito Cossiga, Moro sarebbe
stato per la trattativa?
«Assolutamente sì».
Che cosa succedeva quando arrivavano le
lettere di Moro?
«La prima lettera era indirizzata a me e mi fu
portata da Rana. Lui mi disse che gli avevano telefonato i brigatisti che gli
avevano indicato il luogo di ritrovamento. Ma io sono convinto che fin da quel
momento era iniziata l’attività di un personaggio al quale noi non avevamo
pensato. Noi avevamo messo sotto controllo tutti i telefoni possibili, amici,
parenti, tutti. Ci sfuggì il viceparroco don Antonello Mennini, figlio del
vicedirettore generale dello IOR. Io credo che le Br gli abbiano permesso di
recarsi nel covo per incontrare e confessare Moro; almeno lo spero. Anche se
Moro non ne aveva certo bisogno!».
C’è una frase di Moro abbastanza singolare:
«Se tu, Francesco, potessi raggiungermi, e se io ti potessi parlare, ti
convincerei». Sembra un messaggio...
«E dice una cosa. Che io sono intelligente e
bravo ma debbo essere guidato. Perché sono plagiato da Enrico Berlinguer».
Moro cercava di stimolare il suo orgoglio...
era un invito... vieni...
«Ma mi sembra impensabile che il ministro
dell’Interno potesse entrare in un covo delle Br».
Moro ha scritto tante lettere...
«Scrisse due lettere anche a una sua
studentessa dell’alta borghesia che si era innamorata di lui. In un primo tempo
le nascosero. Sono saltate fuori dopo. La famiglia ha fatto una cosa miserevole:
un comunicato Ansa per dire che questa ragazza non c’entrava niente. Io ero
furibondo... questa povera ragazza che gli aveva voluto bene e con la quale non
c’era stato nulla. Lei gli aveva spesso messo a disposizione il salotto di casa
sua dove lui faceva la cosa che gli piaceva di più: incontrare gli studenti».
In questa lettera che cosa le diceva?
«La salutava, la ringraziava per l’affetto che
aveva avuto per lui».
Qual è stata la cosa che l’ha convinta che
don Antonello aveva visto Moro?
«La serenità con cui si sentiva che ha
affrontato la morte. Era la serenità di uno che si era confessato, che era a
posto con Dio. E poi c’è quel problema della borsa, delle carte che lui ha
chiesto: qualcuno deve avergliele portate. Il giorno dopo che Moro fu ucciso Don
Mennini, il prete, da sacerdote diocesano è entrato, di autorità, nella carriera
diplomatica. Ed è stato fatto partire segretamente per la nunziatura del Congo.
Adesso è vescovo».
E anche il fatto che Moro sapesse che Misasi
non era sulla linea della fermezza...
«Misasi aveva esposto i suoi dubbi a non più di
quattro di noi. Qualcuno di questi quattro lo disse alla famiglia. Ma come fece
la famiglia a farlo sapere a Moro?».
Altri indizi?
«Una delle figlie andò da un amico magistrato a
chiedergli se fosse disposto a fare l’avvocato difensore di Moro nel processo
che le Br gli stavano facendo. Il magistrato si disse disposto ma avvertì subito
i carabinieri. Si salvò così dai guai che poteva passare».
Quante volte ha letto le lettere?
«Le so a memoria».
Sapeva che lo avrebbero ucciso?
«Io ero uno dei pochi che capiva che la linea
della fermezza avrebbe portato alla sua uccisione. Io da giovane ho letto tutto
o quasi Lenin, tutto o quasi Stalin. Le Br erano composte da giacobini-leninisti
fuori dalla storia. Io sapevo che loro dovevano essere implacabili. Per loro era
assolutamente logico prendere, condannare e ammazzare Moro. Quando io sono
andato a trovare Gallinari in carcere, la prima cosa che mi ha detto fu:
“Chiariamo una cosa, io sono stato, sono, e rimarrò sempre comunista e lei per
me rimane sempre il ministro dell’Interno”. Mi disse anche: “Io sono un operaio
figlio di contadini, autodidatta, io non sono come quei compagni colti che lei
ha incontrato”. Intendeva dire Curcio, evidentemente».
E lei che cosa gli ha detto?
«Gli ho detto che non avevano capito nulla. Non
avevano innanzitutto capito che avevano vinto alla grande. Sarebbe bastato che
aspettassero qualche ora. Il consiglio nazionale della Dc avrebbe dato il via
alle trattative. Io ne ero tanto certo che giravo con la lettera di dimissioni
in tasca perché il ministro dell’Interno dell’intransigenza non poteva essere il
ministro della trattativa. E gli dissi anche che avevano sbagliato a non
approfittare dell’appello del Papa. Se lo avessero liberato dopo le parole del
Papa, il Pci e la Dc sarebbero rimasti in braghe di tela. Ma loro non avevano lo
spessore culturale per gestire politicamente un evento di questo genere».
Che cos’altro le ha detto Gallinari?
«Mi ha detto: “Molta gente ormai sapeva dove
eravamo, se si fosse avvalso dei vigili urbani invece che dei commando della
marina ci avrebbe scoperto”».
Le ha detto che eravate arrivati vicino?
«Me l’ha fatto capire».
La Dc non tratta per Moro ma tratta per
Cirillo... perché questa doppia morale?
«La vera morale della Dc era quella di Cirillo:
si tratta».
E allora perché non si trattò?
«Perché fummo determinanti Andreotti, io, Donat
Cattin e Berlinguer. In caso di trattativa Berlinguer avrebbe fatto saltare il
governo in due minuti».
La Stampa, 4 dicembre 2007
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