Eleonora Moro: «Uccisero Aldo, li perdono ma non gli stringo la mano»
«Chi l’ha assassinato è vivo. E non penso a quei poveretti che gli hanno
sparato»
Intervista di Ferdinando Imposimato a Eleonora Moro
Questa, a trent’anni dall’uccisione di Aldo Moro, è la prima intervista
rilasciata dalla moglie Eleonora su quei tragici momenti. Lo sfogo della vedova
dello statista democristiano è stato raccolto da Ferdinando Imposimato,
magistrato, docente, parlamentare, che lo pubblica nel volume "Doveva morire -
Chi ha ucciso Aldo Moro. Il giudice dell’inchiesta racconta".
«Non lo faccia perché è troppo triste...»
Quando ho riletto le dichiarazioni che lei ha fatto alla Commissione Moro,
sono rimasto sconvolto. Lei afferma fatti e circostanze con precisione e verità
assolute. Lei denuncia le inerzie del potere.
«Quella gente desiderava eliminarlo perché era scomodo. La gente scomoda sta
dalla parte della giustizia e della verità. E poi c’è da dire che tutti avevano
una paura terribile perché lui sapeva tutto di tutti, e quindi si sentivano
sotto un riflettore che li inquadrava. Purtroppo non avevano capito che Aldo non
avrebbe mai fatto del male a qualcuno se non fosse stato necessario per il bene
comune...».
Nelle sue testimonianze, davanti alla Commissione Moro e alla Corte di
Assise di Roma, lei fa un’affermazione che mi ha colpito. Dice che la tipografia
delle Brigate rosse di via Pio Foà era stata scoperta molti giorni prima...
«Certo».
Lei domanda: perché, se questa tipografia era stata individuata, non è
stata fatta alcuna perquisizione? E aggiunge: perché i documenti trovati
nell’appartamento brigatista di via Gradoli non sono stati esaminati? Perché
nessuno li ha letti? Perché sono rimasti imballati per tanto tempo? A lei chi
aveva detto tutto questo?
«Erano cose che sapevano tutti. Le conoscevo io perché ero in contatto con la
segreteria di Aldo. E le conoscevano quelli che avevano potere nel governo.
Vede, Aldo Moro era un uomo che non aveva paura. Camminava verso la sua morte
tranquillo, come se andasse a fare una passeggiata. Quando una persona non la si
può corrompere, né spaventare, l’unica possibilità è quella di eliminarla perché
troppo pericolosa. Aldo conosceva fatti che risalivano a dieci, vent’anni prima.
Loro si rendevano conto di essere i veri prigionieri. E che c’era un’unica cosa
da fare: ucciderlo. Anche perché, conoscendo la profonda onestà di Aldo Moro,
erano certi che egli non aveva lasciato scritto la storia di ognuno di loro su
dei pezzi di carta, consegnandoli a un notaio». Aldo Moro ha scritto: «Le cose
saranno chiare, saranno chiare presto». Lo ha scritto in una delle sue lettere
più belle. È una lettera che rileggo spesso...
Moro, dopo gli episodi avvenuti in via Savoia, davanti al suo studio,
disse: «Questa è la prova generale».
«Anche gli uomini della sua scorta, che erano ragazzi buoni, dicevano: "Noi
siamo i bersagli di un tiro a segno". Lo dicevano continuamente. Quindi Moro e i
suoi custodi avevano la sensazione di essere sotto tiro. Era una sensazione che
aveva anche il portiere di casa nostra. Erano tutti sorvegliati».
Ma perché non ci fu alcun controllo da parte dello Stato?
«Perché lo Stato voleva la morte di Aldo Moro. Quelli che erano nei vari
posti di comando lo volevano eliminare».
Può indicare qualche persona?
«Io non posso indicare nessuno. Non li ho visti operare. Io sono una
cristiana e se non ho la prova sicura che quello è un mascalzone, io non lo
accuso. Prego Dio per lui. Prego affinché gli tenga la Sua santa mano sul capo».
Comunque in quei giorni prima del sequestro c’era una percezione di
pericolo imminente.
«Gli uomini della sua scorta, e soprattutto l’autista, vivevano con l’idea
chiara che un giorno o l’altro li avrebbero ammazzati. Perché Moro doveva essere
ammazzato. Gli uomini della scorta erano sicuri di essere nel mirino di qualche
gruppo, ma non erano intimoriti. Mi dicevano: "Signora, noi siamo certi del
pericolo, ma non morirà da solo, noi siamo pronti a sacrificarci con lui"».
[...]
A un certo punto della sua audizione davanti alla Commissione Moro, usa
questa espressione: «Quei poverini mi hanno detto che era stata trovata la
tipografia delle Br molti giorni prima dell’uccisione di Aldo Moro e che non era
stato fatto nulla». Chi erano quei poverini?
«Credo gli autisti e anche la sua segreteria. Ad Aldo la gente voleva bene. E
tutti quelli che gli volevano bene non hanno mai smesso di interessarsi alla sua
sorte in quei terribili giorni. Vede, a coloro che lo hanno fatto uccidere non
posso stringere la mano. Se li incontro, li saluto da lontano e filo via
rapidamente».
Non riesce a dar loro la mano?
«Io non sono una cristiana così santa. Sono una cristiana molto semplice...».
E questo accade quando ci sono le cerimonie commemorative?
«Sì. Ma succede anche quando li incontro per strada».
Quindi quando ci sono le cerimonie lei è costretta a incontrarli?
«Non vado mai alle cerimonie. Non ci volevo andare quando Aldo era vivo, ma
lo dovevo fare come moglie di mio marito. Figuriamoci adesso. Ma il mondo è
piccolo. Incontri la gente quando meno te l’aspetti. Per esempio: vado al
funerale di una mia amica dell’Azione cattolica, ed ecco che me li trovo lì.
Vede, dopo la morte di mio marito mi sono messa a studiare, dal punto di vista
cattolico, la difficoltà del perdono. Perché uno può dire: li voglio perdonare.
E io, nel profondo, li ho perdonati. Ma quando li vedo, attraverso la strada e
vado dall’altra parte. Più che la morte di mio marito, mi ferisce il fatto che
sia morto un innocente a causa delle perverse mire di quattro stupidi
mascalzoni. Se solo fossero stati modestamente intelligenti avrebbero capito che
al potere non si arriva mai attraverso il delitto».[...]
Aldo Moro si è sacrificato per tutti.
«Io glielo dicevo: guarda come cammini verso la tua morte. E lui lo sapeva
benissimo. Era il suo abito mentale, il suo modo di vivere. Era un uomo che
amava il merito, la pulizia morale, l’onestà delle persone, la bontà. È un dato
di fatto che Aldo, arrivato al potere, non lo abbia usato per fare del male a
qualcuno. Continuamente il male gli cadeva sotto gli occhi: il tale aveva
rubato, quell’altro aveva imbrogliato, l’altro ancora aveva messo nei guai tutta
la famiglia. Lui cercava sempre di riparare, ma poi cercava di mettere chi aveva
sbagliato in un angolino, in modo che non potesse nuocere più di tanto. In un
paese come l’Italia, con la voglia di fare carriera che hanno tutti, non era
poco».[...]
La Stampa, 25 febbraio 2008
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