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Aldo Moro, patto con i
palestinesi per evitare attentati in Italia. La Cia impedì le trattive e ordinò
la sua morte
Intervista esclusiva a Bassam Abu
Sharif, ex leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Negli
anni Settanta, sostiene, lo statista voleva liberare il Paese dalla "subdola
dominazione statunitense". E almeno una volta "incontrò i vertici dei nostri
servizi" per avere rassicurazioni che non saremmmo stati colpiti da attentati.
Dopo il sequestro da parte delle Brigate rosse, "fummo contattati da Roma e
facemmo ogni tentativo per salvarlo. Ma una terza parte lo impedì"
Ancora oggi va su e giù per il Medio
Oriente il vecchio capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina,
Bassam Abu Sharif. Tu sai che è a Beirut, arrivi lì ma lui parte. Poi vai a
Gerico, dove abita, ma lui scappa in un’altra delle città infuocate di questo
pezzo di terra devastato: però alla fine accetta, grazie agli auspici di un
comune amico, alto dirigente del Comitato nazionale per il Diritto al ritorno, e
risponde alle domande di ilfattoquotidiano.it in una lunga conversazione
telefonica che si snoda in varie tappe per un mesetto circa. Gli spiego che
voglio riportarlo indietro nel tempo, quando lui era uomo chiave dei rapporti
internazionali dei palestinesi, e che qui da noi il dibattito sull’amicizia
dell’Italia per il suo Paese è sempre aperto e ruota attorno a una figura
chiave, quella di Aldo Moro. “Eh sì … ovvio …”, mi dice interrompendomi, “Moro è
stato un vero patriota”.
Dunque, per favore, ci aiuta a capire
meglio cosa accadde tra l’uomo del compromesso storico e i dirigenti
palestinesi? “Lo faccio volentieri” dice, ma subito premette: “Non insista
troppo sulle date… ah le date! Sapesse quante carte sono andate perdute a Beirut
durante la guerra civile, e poi i nostri spostamenti. Tutto è successo troppo
tempo fa e i segni della guerra sul mio corpo sono ben chiari”. Mr Sharif è
incappato in un pacco bomba che gli fu recapitato nel 1972 a Beirut e gli
sfigurò il volto, portandogli via la mano destra. “Moro – mi spiega – voleva
rendere l’Italia più forte economicamente, politicamente e anche, in un certo
senso, tecnologicamente. Voleva rendere l’Italia libera dalla subdola
dominazione statunitense. Era consapevole che nel vostro paese venivano fatte
azioni illegali alle spalle degli stessi ufficiali italiani. Era perfettamente
informato di cosa accedeva nelle basi aeree e navali della Nato e degli Usa che
voi ospitavate. Gli americani arrivarono al punto di avere le loro prigioni
segrete in Italia. Mi pare che recentemente la cosa è diventata pubblica, non è
così?”.
Solo in parte, gli dico, pregandolo di
ritornare indietro nel tempo: “Sì, sì ha ragione, Aldo Moro. Era un italiano
orgoglioso, provò a rafforzare i servizi segreti che considerava una istituzione
fondamentale per sostenere l’azione dei governi: credeva che le scelte
dell’Italia, nel rispetto degli interessi nazionali degli italiani, spettassero
solo ai suoi governi. E noi lo rispettavamo moltissimo per questo suo
temperamento”.
I vostri rapporti con Moro passavano
solo attraverso il colonnello Giovannone (dal 1972 referente dei Servizi, o
almeno di una parte di essi, in Libano)?
“E’ noto che il ruolo di Stefano
Giovannone fu centrale ma l’approccio di Moro alla questione palestinese fu il
risultato di una serie d’iniziative coraggiose prese da alcuni ufficiali della
vostra intelligence che conoscevano molto bene Beirut negli anni ’70. All’inizio
erano contatti tesi a realizzare iniziative di carattere umanitario: l’invio di
aiuti sanitari, di medici volontari o di farmaci. Poi si stabilirono relazioni
politiche più complesse.
Ci furono moltissimi incontri tra
esponenti palestinesi e rappresentati dell’Italia, a Beirut e nella vostra
capitale Roma. L’Olp, per rafforzare la collaborazione, inviò in modo permanente
un nostro uomo a Roma, Abu Iyad (il suo nome era Salah Khalaf), il capo dei
servizi segreti dell’Olp e una delle figure preminenti della dirigenza
palestinese, anche se Moro …” – Bassam Sharif non tradisce l’orgoglio della sua
vecchia appartenenza – “si rese conto rapidamente che era necessario intrecciare
rapporti con il Fronte popolare di George Habash per rafforzare la sicurezza
italiana. Abu Iyad incontrò diversi ufficiali e gli diede la sua parola d’onore.
Una sola volta anche Aldo Moro incontrò i vertici dei nostri servizi, insieme a
Abu Iyad, per mettere a punto l’accordo (Lodo Moro) che firmò George Habash.
Moro sapeva che la strada migliore e più breve per evitare il coinvolgimento
dell’Italia in fatti che non la riguardavano passava attraverso il Fronte
popolare. Così nacque quell’accordo senza precedenti con il quale noi ci
impegnavamo a evitare operazioni militari in Italia. Infatti, da allora nessuna
azione da parte nostra fu condotta sul suolo italiano. L’accordo guardava anche
al futuro”.
In che senso?
“Prevedeva una fase 2, un’evoluzione
dei nostri rapporti; in pratica erano state programmate iniziative per il
rafforzamento della cooperazione sulla base del sostegno italiano al diritto di
autodeterminazione del popolo palestinese. Si pensava a un futuro nuovo per il
Mediterraneo. Fu una vittoria di Moro che gli americani e gli israeliani non
gradirono affatto. Anzi, erano davvero molto arrabbiati, per loro l’accordo con
i palestinesi era un sostegno ai ‘terroristi’. Gli israeliani volevano usare
l’Europa per la loro caccia ai palestinesi: figuratevi se potevano accettare la
politica di Aldo Moro. Di fatto avviarono una guerra contro di lui e contro
l’Italia”.
Lei cosa sa delle trattative condotte
per salvare la vita di Aldo Moro? Qualcuno vi chiese di mediare?
“Di certo so che le Brigate rosse
volevano trattare e liberarlo. Quando Moro fu rapito noi fummo davvero sorpresi.
E lo fummo ancora di più quando apprendemmo della rivendicazione delle Brigate
rosse. Eravamo increduli, davvero le Brigate rosse? Non potevamo crederci.
Nessuno ufficialmente ci chiese qualcosa. Noi ci sentimmo obbligati a fare ogni
tentativo per salvare la vita di Moro, cercammo di fare quanto era in nostro
potere, lo abbiamo sempre detto pubblicamente. La prima telefonata arrivò nel
mio ufficio di Beirut. Qualcuno ci chiese di intervenire e trattare. Non so chi
fosse la persona dall’altra parte, ci diede un numero per tenere i contatti che
fino ad allora non avevamo mai usato. Non so francamente a chi appartenesse
quell’utenza, non so se dall’altra parte ci fosse un agente dei servizi o un
funzionario del ministero, non posso davvero dirlo perché non lo so. Certamente
l’argomento delle nostre conversazioni era la salvezza di Aldo Moro. Per noi
liberare Moro era fondamentale, avevamo di lui un’altissima opinione come uomo e
come politico ed era a favore della nostra autodeterminazione, disapprovava la
politica di Israele ed era molto simile a uno dei leader europei che sentì il
dovere di condannare l’occupazione della Palestina, penso a De Gaulle”.
Quante telefonate ci furono?
“Diverse, l’uomo che chiamò l’ultima
volta ci disse espressamente che i rapitori di Moro lo volevano liberare, aveva
una gran fretta, si sentiva che era sotto pressione, che era in uno stato di
grande ansia, ‘hurry up, we don’t know what to do’, disse, sbrigatevi, non
sappiamo più che fare”.
E’ vero che all’aeroporto di Beirut
era pronto un aereo? Anche Carlos lo ‘Sciacallo’, il famoso terrorista di nome
Ilich Ramirez Sanchez, reclutato e poi ripudiato da Sharif, parlò di un estremo
tentativo di salvare Aldo Moro che ebbe come scenario la pista dell’aeroporto di
Beirut dove un executive dei servizi segreti italiani attese invano, l’8 e il 9
maggio del 1978, che a Roma si sbloccasse qualcosa: brigatisti liberi contro la
vita di Moro.
“Certamente, l’aereo a Beirut era
pronto. Le Brigate rosse chiesero un accordo che comprendesse l’uso dell’aereo.
Ma tutto fu improvvisamente interrotto nonostante la loro volontà di rilasciare
Moro. Una terza parte, fortemente contraria, anzi intenzionata a liberarsi di
Aldo Moro e della sua politica d’indipendenza, riuscì ad impedire le trattative.
Per questo quel telefono non squillò più”.
Lei sostiene che qualcuno si mise in
mezzo, dunque che c’erano interferenze dirette, infiltrati o contatti in grado
di avere notizie su quanto si stava muovendo?
“La situazione era perfetta per la
penetrazione di un gruppo come le Brigate rosse. In giro per l’Europa c’erano
militanti brigatisti legati a Carlos che stavano cercando di organizzare un suo
gruppo autonomo, dopo la famosa azione di Vienna (l’incredibile assalto al
quartiere generale dell’Opec organizzato da Carlos nel 1975) e la spaccatura con
Wadi Haddad (un attivista espulso dall’Olp nel 1973). La situazione di quei
gruppi era porosa e offriva l’opportunità di forti, fortissime infiltrazioni.
La Cia giocò un ruolo eccezionale
nella penetrazione di questi gruppi in Europa, era una partita che giocava in
proprio, senza avvisare i governi europei, ovviamente. Insisto: ordinarono la
morte di Moro. Intervennero per interrompere le trattative che erano ancora in
corso, erano quasi fatte. Certamente chi ha ammazzato Moro non era amico della
nostra lotta di liberazione. Ed ora mi scusi, devo salutarla, ho troppo da fare,
qui siamo dentro una nuova Intifada. Gli israeliani stanno diventando selvaggi:
sparano direttamente sui bambini, qui da noi c’è l’orrore”.
Stefania Limiti (16 ottobre 2015, Il
fatto Quotidiano)
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