Moro. gen. Bozzo “scoprimmo covo di via Montalcini prima
del rapimento. Ma ci fu il vuoto attorno”
L’Intervista rilasciata nei giorni scorsi dal generale Nicolò Bozzo, braccio
destro di Carlo Alberto dalla Chiesa, a Stefania Limiti e Sandro Provvisionato,
autori di “Complici, il caso Moro e il patto segreto tra Dc e Br” (Chiarelettere)
da oggi in libreria. Un’intervista del generale Bozzo era già presente nel
libro, ma il 4 aprile ha richiamato gli autori per fare un’aggiunta alle sue
dichiarazioni che, per motivi tecnici di stampa, non ha trovato spazio nel
volume.
“Alla prigione, in quel posto dove Aldo Moro fu portato, potevamo arrivarci,
l’avevamo scoperta. Addirittura prima che il sequestro di Moro avvenisse”.
Parla di via Montalcini?
“Sì, parlo proprio di quell’appartamento”. Nicolò Bozzo, classe 1934, porta
con sé il peso di anni faticosi passati dentro l’Arma, al fianco di Carlo
Alberto dalla Chiesa. Per conto di Dalla Chiesa coordinò tutta l’operazione di
via Monte Nevoso dove il 1° ottobre 1978 fu scoperto l’archivio delle Br, carte
di Moro comprese, e dove furono arrestati due dei 4 componenti dell’esecutivo
terrorista (Azzolini e Bonisoli) oltre a una militante (Nadia Mantovani).
È un galantuomo Bozzo, ed è sempre stato dalla parte della Repubblica
democratica. Tanto da prendere la coraggiosa decisione, nel 1981, quando le
istituzioni erano incistate di piduisti, ufficiali infedeli e mercenari della
destabilizzazione, di rendere una testimonianza spontanea ai giudici di Milano
Giuliano Turone e Gherardo Colombo che stavano indagando sul crac del banchiere
Michele Sindona.
Generale, si spieghi meglio.
“Circa tre mesi prima del sequestro di Aldo Moro, all’epoca io ero
colonnello, un mio ufficiale mi chiese di aiutarlo a cambiare sede. Era a Milano
e suo figlio, diciottenne, aveva preso a frequentare un brutto giro di
estremisti di sinistra e temeva che finisse nei guai. Quell’ambiente non gli
piaceva affatto, anzi lo preoccupava.
Domandai a Dalla Chiesa di poterlo trasferire, ma non riuscii ad
accontentarlo perché il generale suggerì, al contrario, di aspettare per vedere
se potevamo ricavarne qualche informazione. Andò così e, di lì a poco, venne
fuori che gli amici di suo figlio gli avevano chiesto una mano: fare un lavoro
di muratura dentro un appartamento a Roma”.
Quello di via Montalcini?
“Sì, proprio quello”.
Lei, anni fa, in un’audizione davanti alla Commissione stragi, ha già
raccontato di un infiltrato da cui apprendeste che era in preparazione una
grossa azione terroristica a Roma contro un uomo politico di alto livello. Lei
raccontò che vi era arrivata la notizia che la colonna romana delle Br aveva
chiesto l’aiuto di “un compagno muratore” che si sarebbe dovuto recare nella
Capitale per costruire un muro, una paratia. Perché in quell’occasione non disse
che il luogo era via Montalcini?
“Al contrario. L’opinione pubblica non lo seppe mai, ma le nostre
informazioni furono trasmesse a chi di dovere, eccome se furono trasmesse!
Pensammo che fosse in preparazione una cella per un sequestro di persona. Andai
io personalmente dal capo di Stato maggiore dell’Arma, il generale Mario De
Sena.
Gli raccontai tutto, per noi era una notizia importante, ma lui, alla
napoletana, mi rispose: ‘Guagliò quello delle Brigate rosse è un problema
vostro, del Nord, qui a Roma di Brigate rosse non c’è traccia’. In pratica
sottovalutò quella notizia, e con ciò non intendo dire che non volle
approfondirla, in quel momento erano convinti che la Capitale non correva grandi
pericoli. Subito dopo, però, ci fecero il vuoto attorno”.
È noto che anche il capo dell’Antiterrorismo, Emilio Santillo, inviò un
appunto al capo della polizia Angelo Vicari, poco prima del sequestro Moro, per
informarlo che da una loro fonte qualificata avevano appreso che era in corso il
progetto di rapire un importante uomo politico a Roma.
Ed è noto anche che il segretario socialista, Bettino Craxi, disse in una
intervista, tempo dopo la fine della vicenda Moro, che tra le tante segnalazioni
arrivate anche alla signora Vittoria Leone, la moglie del presidente della
Repubblica, c’era anche quella di via Montalcini.
Generale non crede che avreste dovuto denunciare le vostre informazioni in
modo più prepotente durante quei drammatici 55 giorni, pretendendo che almeno si
controllasse quell’appartamento?
“Penso che Dalla Chiesa e io facemmo il nostro dovere. Tra l’altro non
toccava a me riferire alle autorità ma a Dalla Chiesa e io non so se il generale
lo fece. Di più non potevamo fare. Riferimmo tutto ai nostri superiori
gerarchici. Dirò di più: il generale, con lo scopo di dare man forte al comando
generale dell’Arma, mi spedì a Roma. Vi rimasi dieci giorni durante i quali non
mi fecero fare nulla. Passavo le giornate con le mani in mano”.
Perché racconta questo episodio solo ora, dopo tanti anni?
“Perché ho maturato la convinzione che sia giunta l’ora di spostare un po’
più avanti la ricerca della verità sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. E
credo che la nuova Commissione d’inchiesta possa farlo. Se saltasse fuori ancora
qualche piccolo pezzo di verità, sono convinto che verrà giù tutto”.
Anche lei è convinto che ci sia ancora molto da scoprire?
“Sì, penso proprio di sì”.
Stefania Limiti, Sandro Provvisionato (17 aprile 2015, Il Fatto Quotidiano)
|