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Il giallo dei bossoli in via Fani e l'appunto sparito
il 10 marzo il magistrato Gianfranco Donadio – ex procuratore aggiunto della
Direzione nazionale antimafia e ora consulente della Commissione bicamerale
d'inchiesta sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro – ha depositato una
relazione segreta relativa a possibili accertamenti da condurre sui bossoli
rinvenuti a via Fani.
Si spiega meglio, conoscendo questa novità, la sorpresa che suscitò in tutta
Italia la Polizia scientifica, allorché dal 22 febbraio diede il via ad una
nuova serie di accertamenti in Via Fani, dove Moro venne rapito e i suoi cinque
agenti di scorta trucidati.
Oltre 37 anni fa, il giorno del rapimento, avvenuto il 16 marzo 1978,
all'angolo di via Fani con via Stresa, gli agenti di Ps e i Carabinieri
rinvennero 84 bossoli calibro 9 e 4 calibro 7,65, 12 frammenti di proiettili, un
caricatore con 25 colpi calibro 9 lungo, un paio di baffi posticci e la pistola
dell'agente di scorta Raffaele Iozzino, mentre non è stata ritrovata la pistola
mitragliatrice Beretta M12 in dotazione al brigadiere di scorta Francesco Zizzi.
La deposizione del 1991 Il gruppo di lavoro sul caso Moro della precedente
Commissione d'inchiesta, nella seduta del 10 ottobre 1991, sotto la presidenza
del senatore Francesco Macis, espletò l'audizione del senatore Sergio Flamigni,
forse il maggior analista italiano dell'affaire Moro. Flamigni (cartelle nn. 38
e 39) dirà che dei 91 bossoli delle armi usate che erano stati rinvenuti, ben 49
appartenevano ad un'arma sola (non è stato ancora ben individuato chi fosse il
tiratore). L'azione è stata definita «un gioiello di perfezione» da un ufficiale
dei servizi segreti, la cui intervista è stata pubblicata dalla “Repubblica” dll
18 marzo 1978. Secondo quell'ufficiale un'azione di tal genere poteva essere
portata a termine solo da due categorie di persone: o militari addestrati in
modo ultra sofisticato oppure, il che è sostanzialmente lo stesso, da civili che
fossero stati sottoposti ad un lungo e meticoloso training in basi militari
specializzate in operazioni di commando.
Alla luce di questa dichiarazione, disse Flamigni nel 1991, appare piuttosto
superficiale credere all'ex brigatista Valerio Morucci quando disse che «l'unica
prova dell'azione era stata compiuta nella villa di Velletri», naturalmente
senza poter sparare. A proposito della strage di via Fani, ricordò infine l'ex
senatore Flamigni nel 1991, c'è l'esigenza di chiarire il significato di certe
espressioni usate dai periti a proposito di 39 bossoli senza la data di
fabbricazione in uso ad eserciti non regolari o ad enti parastatali.
La perizia balistica del ‘Moro quater' La perizia medico-balistica disposta
il 2 giugno 1993 dall'allora pubblico ministero Antonio Marini, nell'ambito del
quarto processo Moro (23 febbraio 1994, pagine 32, 33), ha ribadito quanto già
affermato nella perizia del 1981, ovvero che a sparare in via Fani furono sette
armi. I medici legali Silvio Merli e Enrico Ronchetti, con il perito balistico
Antonio Ugolini, hanno fornito una ricostruzione dell'agguato divergente
rispetto a quella descritta da Valerio Morucci nel suo “memoriale”.
Secondo Morucci infatti i brigatisti avrebbero colpito la scorta di Moro con
il fuoco di quattro mitra e due pistole semiautomatiche, sparando tutti i colpi
dallo stesso lato della strada. I periti hanno invece identificato i bossoli di
una quinta pistola, una calibro 9 ed hanno accertato che l'attacco fu portato da
entrambi i lati.
Inoltre la nuova ricostruzione peritale rilevò un altro elemento contrastante
con la versione fornita da Morucci nel memoriale scritto nel 1986: secondo
questa versione l'unico del gruppo di fuoco ad avere una pistola calibro 7,65
sarebbe stato Franco Bonisoli, il quale tuttavia non avrebbe sparato contro il
caposcorta maresciallo Oreste Leonardi. La perizia ha invece stabilito che a
colpire Leonardi, oltretutto dal lato opposto della strada rispetto a quanto
dichiarato da Morucci, sarebbe stata proprio un'arma calibro 7,65.
Il che porterebbe a ritenere che il commando fosse composto da un numero di
persone superiore alle nove indicate da Morucci (lo stesso Morucci, Mario
Moretti, Barbara Balzerani, Franco Bonisoli, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari,
Alvaro Loiacono, Alessio Casimirri, Bruno Seghetti). Tanto più che la perizia,
ricorda oggi l'onorevole Gero Grassi, al quale si deve la nascita della nuova
Commissione bicamerale d'inchiesta, ha anche stabilito un'ulteriore circostanza,
sempre negata da Morucci e dagli altri brigatisti pentiti: il parabrezza del
motorino di Alessandro Marini, l'occasionale testimone che riferisce di essere
stato fatto oggetto di colpi di arma da fuoco da parte di due terroristi a bordo
di una moto, è risultato effettivamente infranto da un proiettile. L'insieme di
tali circostanze porta dunque, ancora una volta, a ritenere che la ricostruzione
che i brigatisti pentiti e dissociati hanno fornito dell'azione di via Fani
presenta ancora oggi dei vuoti.
Colmare i vuoti: l'appunto Per colmarne alcuni (fondamentali) e per capirne
di più, il magistrato-consulente Donadio ha riportato ora alla luce uno scambio
epistolare del 1999 tra l'allora presidente della Commissione parlamentare sulle
stragi, il senatore Giovanni Pellegrino, l'allora capo della Procura della
Repubblica di Roma, Salvatore Vecchione e l'allora sostituto procuratore Franco
Ionta. Pellegrino, il 28 ottobre 1999 (nota n. 3744/cs) scrive alla Procura e
gli fa presente che un appunto della Questura di Roma del 29 settembre 1978
segnala che alcuni bossoli di via Fani provenivano da un deposito dell'Italia
settentrionale, le cui chiavi sarebbero state in possesso di sole sei persone.
Il deposito del Nord Pellegrino chiese dunque alla Procura le risultanze
delle perizie balistiche e se fossero state effettuate indagini sul deposito
(militare o di enti istituzionali) del nord e sull'identità delle sei persone in
possesso delle chiavi. Il 3 novembre 1999, alle 10.30, presso gli uffici della
Questura di Roma, su delega del pm Ionta, su quell'appunto la Digos sente
Domenico Spinella, ex prefetto in servizio al Viminale, ex capo della Digos, tra
i primi ad accorrere sul luogo dell'agguato insieme all'allora questore di Roma
Emanuele De Francesco, che dichiara testualmente: «Non ricordo chi sia stato
l'estensore dell'appunto che mi viene esibito in copia fotostatica. Riconosco la
mia firma e la firma dell'allora questore di Roma Emanuele De Francesco. Ritengo
che potrebbe risalirsi all'estensore, esaminando l'originale dell'appunto, nel
quale potrebbe evidenziarsi, se il tempo non l'ha cancellata, la sigla apposta
in prossimità della mia firma. Non ricordo assolutamente l'origine delle notizie
contenute nell'appunto».
Appunto sparito Il 4 novembre 1999 la Digos scrive una nota a Ionta (che la
recepisce il giorno dopo) nella quale, oltre a verbalizzare quanto dichiarato
dal prefetto Spinella, si legge, testualmente, che «l'originale dell'appunto non
è stato rinvenuto». Il 6 novembre 1999 Ionta e Vecchione, terminate le brevi
indagini effettuate a stretto giro dalla richiesta, rispondono alla Commissione
parlamentare trasmettendo copia della perizia balistica conferita il 16 marzo
1978 sui reperti di via Fani e depositata l'11 luglio 1978, oltre alla copia
della nota (informativa) della Digos del 4 novembre. Sul deposito del nord
neppure una riga e forse anche per questo, il 2 marzo, la Commissione ha deciso
di chiamare presto a testimoniare Domenico Spinella su quell'appunto
originariamente classificato «segretissimo» sulla provenienza di alcuni bossoli
(De Francesco è deceduto nel 2011). Il mistero dei bossoli, dunque, a distanza
di 37 anni resiste ma anche su questo punto la Commissione bicamerale
d'inchiesta spera di far luce.
di Roberto Galullo - (25 marzo 2015, Il Sole 24 Ore)
di Roberto Galullo - (25 marzo 2015, Il Sole 24 Ore)
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