Aldo Moro/ In Commissione d’inchiesta esplodono depistaggi,
il caso di brogliacci scomparsi e lo spettro di Gladio
I familiari delle vittime chiedono al procuratore generale della Corte di
Cassazione di indagare ancora sul ruolo di Senzani. Ma secondo il procuratore
generale della Toscana Tindari Baglione il professore brigatista all'epoca
operava solo su Roma
Il partigiano Sergio Flamigni, poi deputato e senatore del Pci dal 1968 al
1997, è forse uno dei maggiori analisti delle drammatiche vicende che hanno
attraversato la democrazia italiana nel dopoguerra.
Nel 1983 entra a far parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla
loggia massonica P2, i cui lavori si concluderanno il 12 luglio 1984; nella
stessa legislatura partecipa anche alla seconda commissione antimafia che
termina i suoi lavori nel 1987.
Con la conclusione della nona legislatura lascia l’attività parlamentare e
intraprende un’intensa attività di ricerca e di studio sui fenomeni del
terrorismo, della P2 e della mafia. Nel 2005 ha dato vita al Centro di
documentazione Archivio Flamigni.
Facciamo un piccolo passo indietro nel tempo: nel gennaio 1980 Flamigni viene
chiamato a far parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di
via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e il terrorismo in Italia,
che, istituita con legge 597/79, concluse i suoi lavori il 29 giugno 1983.
Quell’esperienza è stata messa a frutto anche con la pubblicazione di
numerosi e documentatissimi libri sull’affaire Moro, dei quali il più noto (e
richiamato spesso da analisti e dalla stessa commissione parlamentare), è “La
tela del ragno” (Kaos edizioni) uscito per la prima volta nel 1988, poi nel 1993
e nel 2003.
La profonda conoscenza del caso Moro torna alla ribalta oggi. Non solo perché
proprio il 16 marzo del 1978 venne rapito (e i suoi cinque uomini di scorta
trucidati) ma anche perché Flamigni, con una memoria scritta di 19 fittissime
pagine, ha risposto ai quesiti sollevati dalla Commissione parlamentare sul
rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nell’audizione del 2 dicembre 2014.
Le risposte sono state ora pubblicate sul sito della Commissione con
riferimento ad un’audizione svolta il 15 gennaio e lasciano senza fiato. Alcune
di queste sono precisazioni, altre approfondimenti, altre ancora sconcertano
perché, mentre i media la scorsa settimana rincorrevano la notizia data dal
deputato Pd Gero Grassi, componente della Commissione d’inchiesta, secondo il
quale sarebbero state ritrovate 17 cassette su 18 a suo tempo prese dagli
investigatori nel covo romano delle Br in via Gradoli e mai ascoltate (ipotesi,
come vedremo sotto, parzialmente smentita da un avvocato), molto di più racconta
Flamigni.
LE AUDIOCASSETTE
Walter Biscotti, legale della famiglia di Emanuele Petri, il poliziotto
ucciso dalla Br nel marzo del 2003, all’Ansa ha raccontato sulle cassette una
verità diversa, già descritta nel 2005 al settimanale Panorama. Le cassette,
raccontò, furono trovate nel covo di via Gradoli, furono analizzate dalla
scientifica e poi messe in un archivio dove sono rimaste per tutti questi anni.
Apparentemente contenevano solo musica ma Biscotti a suo tempo disse che in
quelle cassette «potrebbe celarsi la soluzione di uno dei misteri più
impenetrabili del sequestro Moro»: quello della registrazione degli
interrogatori dello statista democristiano nel covo dove era prigioniero. Fu il
brigatista Valerio Morucci anni fa a rivelare che le parole di Moro furono
registrate ma che in seguito si decise di rendere i nastri inutilizzabili
incidendovi sopra altre tracce audio. In una delle cassette, però, sarebbe
ancora ascoltabile una voce. Secondo l’avvocato è proprio la cassetta che non è
arrivata in commissione. «Facciamo una scommessa – ha detto Biscotti raggiunto
al telefono dall’Ansa –. So che la cassetta mancante è una a due cifre. Cioè da
10 a 18. Vedrete che alla fine mancherà la numero 13 perché è quella che ha
delle voci incise, molto interessanti e mai pienamente analizzate».
Infatti, ricorda l’avvocato, esiste un appunto di un brigadiere della polizia
scientifica che dà conto dell’analisi sommaria dei nastri. La numero 13, a
differenza delle altre che riportano musica (tra cui Guccini e Inti Illimani), è
registrata nella prima e nella seconda parte. Nella prima ci sono canti
rivoluzionari. Per alcuni giri però si sente una voce maschile che parla con “i
compagni” per discutere di alcuni articoli. E se fosse, si domanda il collega
dell’Ansa, un frammento dell’interrogatorio di Moro? Il compito di svelare
l’enigma toccherà ora al Ris dei Carabinieri, al quale i nastri saranno
consegnati. L’annuncio di Grassi non è però piaciuto al vicepresidente della
commissione Gaetano Piepoli (Per l’Italia-Centro democratico). «Il riserbo e la
prudenza – ha dichiarato – sono l’unica bussola che la ricerca della verità ha
per non smarrirsi nel labirinto delle infinite ipotesi».
PAROLA A FLAMIGNI
Piepoli avrà pure ragione ma ragioni da vendere ne ha anche Grassi la cui
sete di verità è quella che, sostanzialmente, ha fatto nascere questa
commissione d’inchiesta che, a giudizio di chi scrive, non giungerà a
rivoluzionare la storia (non si può e non si deve) ma serve già senza dubbio
alcuno a stravolgere quelle poche certezze nutrite sull’esistenza di uno Stato
pienamente di diritto.
A leggere le risposte scritte di Flamigni (verba volant scripta manent) c’è
da restare senza fiato. Eccone una selezione (per il resto rimando a questo link
http://www.camera.it/leg17/1058?idLegislatura=17&tipologia=audiz2&sottotipologia=audizione&anno=2015&mese=01&giorno=15&idCommissione=68&numero=0016&file=indice_stenografico.
VIA MONTE NEVOSO
E’ proprio Gero Grassi il primo a sottoporre un fuoco di domande a Flamigni.
Una è questa: «Chi ostacolò nel 178 la scoperta dell’intero memoriale di via
Monte Nevoso?».
Domanda apparentemente innocente ma in realtà drammatica, perché proprio
l’interrogatorio a Moro, potrebbe essere stato registrato si su audiocassette ma
anche trascritto. E infatti, dopo la morte di Moro, un brigatista in un covo di
Firenze, redasse un dattiloscritto che le Brigate Rosse dichiararono ricavato
dall’interrogatorio registrato sui nastri magnetici e su appunti scritti. Dopo
la redazione del dattiloscritto i documenti originali, i nastri magnetici e i
documenti scritti vennero ritenuti persi (volontariamente distrutti, secondo la
versione di diversi brigatisti). Una versione del dattiloscritto fu ritrovata il
1º ottobre 1978 in un appartamento-covo delle Br in via Monte Nevoso a Milano.
Gli inquirenti dichiararono che l’appartamento era stato “scarnificato”, quindi
era impossibile ritrovare altro materiale ma magicamente, nell’ottobre 1990,
durante alcuni lavori di restauro nell’appartamento, fu rinvenuta un’altra
versione più estesa del testo e denaro ormai fuori corso.
Il generale dei Carabinieri Nicolò Bozzo, nell’ audizione del 21 gennaio 1998
nella Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle
cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, disse:
«Dunque, io informai Dalla Chiesa di questa operazione il 10 agosto a Roma,
perché in quella data lui convocò tutti i capi dell’antiterrorismo – eravamo in
tre, uno a Milano, uno a Roma e uno a Napoli – nel suo ufficio di coordinatore
dei servizi di sicurezza di prevenzione e pena. Mi chiese cosa stavo facendo a
Milano e gli dissi che stavamo conducendo un’operazione che forse poteva portare
a qualcosa di “solido”. Lui mi ascoltò e mi disse di tener presente che non
bisognava andare a cercare il covo o il covetto, ma poiché eravamo pochi
dovevamo cercare i capi. Se volevamo risolvere il problema e tagliare il
fenomeno alle radici, dovevamo catturare i vertici quando si riunivano: era
quello il suo obiettivo, cioè sorprendere una direzione strategica in riunione,
fare un’irruzione e catturarli tutti. In modo sottinteso, mi fece capire che
queste piccole operazioni erano di mia competenza, che me le dovevo gestire io e
non lui. D’altra parte io non gli avevo detto di Azzolini e di altre cose. [...]
Io cominciai ad informarlo quando identificammo Azzolini: al generale però dissi
non che era certamente Azzolini, ma che poteva trattarsi di lui. Allora – ed
eravamo già ai primi di settembre – il generale cominciò a dimostrare un certo
interesse. [...] Dalla Chiesa cambiò completamente opinione quando gli dissi che
c’era la Mantovani in giro a Milano e che frequentava via Monte Nevoso, perché
la Mantovani era entrata in clandestinità dal soggiorno obbligato ed era stato
un caso clamoroso che aveva negativamente impressionato tutta l’opinione
pubblica. Dalla Chiesa allora disse che bisognava catturarla subito, anche il
giorno successivo, ma io replicai che non si poteva organizzare in così breve
tempo l’operazione, perché bisognava pensare anche alla sicurezza del personale.
Poi addirittura c’erano 6-7 obiettivi, una decina di persone indagate (e ne
catturammo 9). Mi diede tre giorni, poi riuscii a strappargli una settimana…» .
Ed ecco cosa risponde Flamigni alla domanda di Grassi.
Flamigni: «Il generale Dalla Chiesa o uomini dei servizi segreti al suo
seguito, per quella parte del dattiloscritto del memoriale o per il materiale
inerente il segreto di Stato. Poi il colonnello Mazzei, comandante la Legione
territoriale dei Carabinieri di Milano, affiliato alla P2, il quale, entrato in
conflitto con il colonnello Nicolò Bozzo, indusse Dalla Chiesa a ordinare agli
agenti dei nuclei speciali di ritirarsi dall’appartamento di via Monte Nevoso
prima che essi avessero completato la perquisizione».
Ricordiamo che il figlio di Dalla Chiesa, Nando, aveva già respinto con
sdegno questa versione dei fatti e con una lettera pubblicata sul Corriere della
Sera i pm Ferdinando Pomarici e Armando Spataro, all’epoca rispettivamente
Procuratore aggiunto di Milano e componente del Csm, già sostituto presso la
Procura di Milano ma soprattutto, il primo, il magistrato che condusse le
indagini che portarono poi al covo di via Monte Nevoso, hanno difeso la lealtà
di Dalla Chiesa.
(http://archiviostorico.corriere.it/2000/marzo/16/Caso_Moro_troppe_falsita_Dalla_co_0_0003169148.shtml).
Ma andiamo avanti perché Flamigni non desiste.
Grassi: «Lei avviso Pomarici, perché non fu creduto?».
Flamigni: «A questa domanda solo Pomarici potrebbe rispondere nel rispetto
della verità».
Grassi: «La casa di via Monte Nevoso Milano viene ritrovata a Milano nel 1990
senza sigilli, Qualcuno ha indagato?».
La risposta di Flamigni apre spiragli inquietanti, così come le successive
che si propongono, perché Grassi sottintende collegamenti possibili tra misteri
che abbracciano la morte di Moro e l’assassinio di Dalla Chiesa allorché fu
spedito (nudo nei poteri) a Palermo per combattere Cosa nostra: «Nel 1990
l’appartamento di via Monte Nevoso era privo di sigilli perché era stato
dissequestrato. Invece nel 1986, il giorno in cui andai a richiedere al pubblico
ministero Pomarici di disporre una nuova perquisizione (ricevendone un ostinato
quanto irragionevole rifiuto) mi recai anche in via Monte Nevoso, e constatai
che i sigilli dell’ex covo erano stati violati. L’amministratore del condominio,
che mi accompagnava, mi disse di avere già segnalato il fatto ai Carabinieri e
all’autorità giudiziaria e chi era venuto a ispezionare i sigilli le aveva
assicurato che sarebbero stati rimessi».
Grassi: «Il signore alto con la barba e i Ray Ban presente in via Fani, in
via Caetani (dove fu ritrovata la macchina con il cadavere di Moro dopo 55
giorni di prigionia, ndr) e a Palermo quando fu ucciso Dalla Chiesa, chi è?».
Flamigni: «Non saprei, non credo di averlo mai conosciuto».
IL BROGLIACCIO SPARITO
Ma nelle ore in cui ci si accapiglia per le cassette trovate e mai (forse)
ascoltate o ascoltate come avrebbero dovuto, emerge che ben altre risposte e ben
altre cose mancano all’appello (a meno di smentite).
Paolo Bolognesi, deputato Pd della Commissione chiede a Flamigni: «Alla
domanda della signora Eleonora Moro, che ha dichiarato: “Infinite volte mi sono
chiesta come potevano essere le Brigate Rosse così sicure che quel giorno, a
quell’ora, in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe passato da via Fani”, Lei ci
può dire cosa è stato risposto?».
Flamigni: «Questa cruciale domanda di Eleonora Moro non ha mai avuto
risposta, poiché chiama in causa i complici della strage di via Fani e le
coperture che hanno permesso la strage e il sequestro. Le stesse indagini su
questa specifica questione, davvero cruciale, sono state molto lacunose».
E dopo aver a lungo illustrato lacune, contraddizioni, misteri, scomparse,
proprietà strane e folle ambigue che popolavano come in un film giallo quei
pochi km quadrati intorno all’abitazione dello statista Dc (vi invito a leggere
pagina 11, 12 e 13 della risposta scritta di Flamigni perché sono da brivido),
lo stesso Flamigni, così conclude drammaticamente: «Per accertare l’esatta
dinamica dei fatti, la Commissione dovrebbe acquisire un documento fondamentale:
il brogliaccio della sala operativa del Viminale, relativo al giorno 16 marzo
1978 e precedenti, dove venivano annotati tutti i contatti radio con le auto di
scorta e quindi di tutti gli orari e tutti i percorsi…Su quel cruciale documento
di recente ho richiamato l’attenzione del ministro dell’Interno Anna Maria
Cancellieri e, come ho riferito in una risposta all’onorevole Gero Grassi, nel
gennaio 2013 mi è stato comunicato che “il Dipartimento della pubblica sicurezza
ha segnalato che la documentazione in esame non è stata rinvenuta”…».
DEPISTAGGI
Sempre Bolognesi più avanti (pagina 16) chiede di una stampatrice proveniente
dagli uffici dei servizi segreti, in particolare da quello che si occupava
dell’addestramento degli appartenenti alla struttura segreta Gladio e ritrovata
nella tipografia delle Br e Flamigni risponde così: «Su questa allarmante
collusione tra servizio segreto militare e Br non è stata fatta alcuna
chiarezza, sia a causa del depistaggio operato dai servizi segreti, sia per
deliberare omissioni….
…la ricostruzione del Sismi era un oggettivo e deliberato depistaggio…
…a dispetto (pagina 17) di tutti i depistaggi tentati e attuati dal Sismi e
dalla compiacente passività della magistratura, rimane un fatto certo e
assodato: una stampatrice appartenente a un ufficio del controspionaggio
militare (il Rus, Raggruppamento unità speciali) era approdata nella tipografia
romana delle Br e con quella macchina erano stati stampati i comunicati
brigatisti relativi al sequestro Moro. Per giunta il Rus non era un ufficio
militare qualsiasi: tra le unità speciali gestiva anche quelle di “Gladio”.
Infatti il Rus era l’ufficio segreto dove si osservavano le regole della
compartimentazione nel modo più rigoroso e che provvedeva alle chiamate per
l’addestramento dei gladiatori: lo ha rivelato il generale Serravalle, già capo
di Gladio, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi. E’ dunque
uscita da quell’ufficio adibito ai compiti più occulti di Gladio
(l’organizzazione paramilitare clandestina italiana sulle orme di quella
promossa dalla Nato nell’ambito dell’Operazione Gladio, organizzata dalla Cia
per contrastare una ipotetica invasione dell’Europa occidentale da parte
dell’Unione Sovietica e dei paesi aderenti al Patto di Varsavia, nda) la
stampatrice utilizzata dalle Brigate Rosse durante il sequestro Moro…».
In questo groviglio di fatti e storie ricordiamo che l’ex presidente della
Repubblica Francesco Cossiga, da molti osservatori ritenuto il capo di Gladio,
in un’intervista al collega Aldo Cazzullo, rilasciata per il Corriere della Sera
l’8 luglio 1980, dirà, riferendosi al periodo in cui ricopriva il ruolo di
sottosegretario alla difesa e vide sorgere la struttura: «i padri di Gladio sono
stati Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Gaetano Martino e i generali Musco e De
Lorenzo, capi del Sifar. Io ero un piccolo amministratore… ».
E proprio con riferimento ad un’altra domanda di Bolognesi, vale a dire se a
Flamigni risultasse la partecipazione di Gladio durante il caso Moro, lo stesso
Flamigni risponde così, dopo aver comunque ricordato lo spettro di Gladio nelle
risposte che aveva dato in precedenza (pagina 12, con riferimento a varie
incredibili coincidenze e ad un ufficiale della Decima Mas, più volte citato nei
documenti americani della Gladio, che abitava nello stabile di Via Fani
prospiciente quello della strage): «..l’esercitazione ricordata da Garau (Decimo
Garau, istruttore per l’addestramento di Gladio a Capo Marrargiu, in Sardegna,
nda) e simulata durante il sequestro Moro, corrisponde con precisione al
racconto – l’ostaggio dentro una cassa in un pulmino – che Morucci farà sei anni
dopo della sua menzognera versione dei fatti…».
Ed ecco infine la parola su un ultimo mistero: quello relativo al covo di via
Gradoli delle Br. Alla domanda di Bolognesi se poteva essere scoperto prima,
Flamigni risponde in questo modo: «sì, perché era sotto il controllo dei servizi
di sicurezza, che lo fecero scoprire solo in concomitanza con l’operazione del
falso del Lago della Duchessa (operazione finalizzata a preparare l’opinione
pubblica alla morte di Aldo Moro)…
…Il covo di via Gradoli era controllato anche dalla Polizia e dal Sisde…»
(pagina 19).
E’ questo il clima con il quale, oggi, si ricorda il sacrificio di uno
statista probabilmente morto perché, come diceva Giovanni Falcone, «si muore
generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande.
Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è
privi di sostegno».
Roberto Galullo (16 marzo 2015, Corriere della Sera)
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