Il nunzio Mennini torna a testimoniare sul caso Moro
All'epoca del sequestro era viceparroco e ricevette lettere dello
statista. Fu ascoltato dai magistrati, dalla Commissione parlamentare
d'inchiesta nel 1980 e a uno dei processi sul rapimento e l'uccisione del
politico Dc. Cossiga ipotizzò che avesse incontrato il prigioniero nel covo
delle Br
Il nunzio apostolico in Gran Bretagna, l'arcivescovo Antonello Mennini, sarà
ascoltato lunedì 9 marzo dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso
Moro presieduta da Giuseppe Fioroni, che ha avviato i suoi lavori nell'ottobre
scorso. Il prelato deporrà a Roma, con l'autorizzazione dei superiori della
Segreteria di Stato (il Papa, assicurano autorevoli fonti vaticane, non è stato
coinvolto in alcun modo nella decisione). Ha preso alcuni giorni di vacanza in
concomitanza con la convocazione. Ma non è la prima volta che «don Antonello»
viene ascoltato in merito al ruolo che ha svolto nei giorni del sequestro.
Mennini, uno degli undici figli di un importante dirigente dello Ior, era
stato allievo di Moro all'università e al tempo dei 55 giorni di prigionia del
presidente democristiano era viceparroco della chiesa di Santa Lucia al
quartiere Trionfale. Il suo ruolo emerge da alcune intercettazioni telefoniche.
Fece da tramite per trasmettere alcune lettere scritte dallo statista e
indirizzate a varie persone. Si è sempre ipotizzato che durante il sequestro
avesse potuto incontrare Moro nel covo delle Brigate Rosse e addirittura
confessarlo e impartirgli l'estrema unzione prima dell'uccisione. Di questo si è
sempre detto convinto Francesco Cossiga (all'epoca ministro dell'Interno): «Don
Antonello Mennini raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi non lo
scoprimmo. Ci scappò don Mennini».
L'audizione di lunedì non è affatto una prima assoluta. Don Mennini, che
all'epoca dei fatti era un semplice sacerdote della diocesi di Roma venne
ascoltato dagli inquirenti - il 2 giugno 1978 e il 12 gennaio 1979, poi una
terza volta nel febbraio '79 - e comparve davanti alla Commissione parlamentare
d'inchiesta sul caso Moro il 22 ottobre 1980. Nel 1981 entrò a far parte del
servizio diplomatico della Santa Sede, ma nel settembre 1986 venne di nuovo
ascoltato dalla magistratura che indagava sul caso. Mennini è diventato
arcivescovo nel 2002, come rappresentante del Papa nella Federazione Russa. Da
Benedetto XVI è stato poi trasferito alla nunziatura in Gran Bretagna. Fin dalle
prime testimonianze rese davanti ai magistrati inquirenti don Antonello aveva
ammesso di aver ricevuto durante rapimento comunicazioni telefoniche e scritti
su segnalazione del sedicente professor Nicolai, alias il brigatista Valerio
Morucci, che aveva prelevato nei luoghi indicati e consegnato alla famiglia
Moro.
Davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta, don Mennini «non fu per
nulla reticente», ma venne «chiamato a rispondere più per un coinvolgimento
derivante da intercettazioni telefoniche che non per il sospetto di esser stato
tramite, sequestro in corso, di un contatto tra il prigioniero e il mondo
esterno». Ha sempre negato di aver incontrato Moro nel covo di via Montalcini,
dove lo statista fu rinchiuso durante i 55 giorni del sequestro.
Una svolta nella vicenda fu determinata, nell'ottobre 1990, dal ritrovamento
di decine di lettere di Moro nel covo brigatista di via Monte Nevoso, nascoste
dietro una parete di cartongesso. Da questo memoriale erano emerse
corrispondenze tra Moro e il giovane sacerdote che «testimoniavano un
coinvolgimento enormemente superiore a quello ipotizzato». Nel 1993 venne
nuovamente ascoltato come testimone davanti alla Corte d'Assise durante il
processo Moro quater, affermando di non aver ricevuto altre lettere rispetto a
quelle conosciute.
Nel 1995 Mennini, con una lettera, formalizzò il suo rifiuto a comparire
davanti alla nuova Commissione parlamentare d'inchiesta, dichiarando di non
avere nulla da aggiungere rispetto a quanto da lui già riferito in sede
giudiziaria ed alla prima Commissione Moro. Nessuno dei brigatisti coinvolti nel
sequestro e nelle trattative che vi furono in quei giorni ha mai confermato la
presenza di Mennini accanto a Moro. In particolare Mario Moretti, l'ha
categoricamente negato affermando: «Figurarsi se facessimo venire una persona
qualsiasi nella base. Ma neanche un prete. Si è detto che aveva parlato con un
sacerdote, perché fa cinema. Non è mai successo».
Don Mennini durante i giorni del sequestro si assentò da Roma per una
settimana, partecipando a un pellegrinaggio a Lourdes. Dal memoriale Moro
risulta che lo statista pensò di rivolgersi a lui attorno al 20 aprile,
ritenendo che il precedente canale utilizzato fosse ormai bruciato dai controlli
della polizia. Dalle lettere del sequestrato si comprende che riteneva il
sacerdote non solo un utile canale per far pervenire le sue lettere, cosa che
effettivamente avvenne, ma anche interlocutore al quale poter rivolgere delle
domande e attraverso il quale ricevere degli scritti dall'esterno.
In una lettera indirizzata a don Antonello, non recapitata ma scritta intorno
al 24 aprile, Moro oltre a scusarsi del fatto di approfittare «così spesso di
te» - don Mennini aveva già consegnato le lettere del prigioniero il 20 e il 24
aprile - gli chiede di raccogliere «notizie sulla salute di casa» e di tenersi
«pronto a rispondere, quando mi sarà possibile di domandartelo. Mi potrebbero
scrivere qualche rigo? tramite te?». In una successiva missiva a don Antonello,
non recapitata ma scritta dopo il 25 aprile, Moro ritiene possibile addirittura
«chiamare»” il sacerdote e «consegnargli il pacchetto» in cui ha riunito le
lettere ai familiari affinché le tenga intanto per sé e le consegni alla moglie
a tempo debito, dopo avergliene parlato solo ed esclusivamente a voce.
In sede di Commissione Stragi il presidente Giovanni Pellegrino concluse che
«il complesso delle acquisizioni conferma» l'esistenza di un canale di ritorno,
e riguardo all'identità di colui che faceva da tramite ritenne «certi almeno
contatti di don Mennini, se non direttamente con Moro prigioniero, con i
brigatisti o con loro emissari».
Andrea Tornielli (7 marzo 2015, La Stampa)
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