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Antonio Marini, procuratore generale di Roma, racconta gli
anni persi prima di avere una superprocura antiterrorismo
Se dovessimo contare tutte le volte in cui lo Stato ha perso l’occasione di
fare Politica e servire il proprio Paese, probabilmente non basterebbe una vita.
Ciò non toglie che, compito della stampa libera, sia quello di fare le pulci
al potere sempre e comunque, senza guardare in faccia a nessuno.
Ebbene, leggere l’audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta
sul caso Moro, il 16 febbraio, del Procuratore generale facente funzioni presso
la Corte di appello di Roma, Antonio Marini, fa male.
Fa male perché, con la sua testimonianza, riporta in vita i ritardi dello
Stato nel saper affrontare per tempo e in tempo le minacce alla collettività
amministrata.
In particolare, mi riferisco agli anni persi nell’istituzione e
dell’unificazione in capo alla Procura nazionale antimafia dei compiti di
coordinamento e regia delle indagini in materia di terrorismo. Non solo quello
nazionale, ovviamente, ma oggi più che mai di quello internazionale.
Marini, testualmente, dichiara: «…Ebbene, c’è stato quel momento in cui si
parlava di istituire finalmente la Procura nazionale antiterrorismo. Ricordo
che, parlandone con Falcone a Ustica, lui mi diceva di fare la domanda e io
rispondevo che non avevo mai fatto antimafia, ma criminalità organizzata e
soprattutto terrorismo. Mi diceva: “Fai la domanda, perché dopo (dopo aver
istituito la Procura nazionale antimafia) si pensa di estendere
all’antiterrorismo”. Parliamo del 1992…Poi sappiamo come sono andate le cose.
Falcone è stato ucciso e io non avevo più interesse a rimanere alla Procura
nazionale antimafia, anche perché mi ero reso conto che quel passo in avanti, in
quel momento, almeno, non si sarebbe fatto, come non era stato fatto già nel
1978, cioè dopo la strage di via Fani e dopo il sequestro e l’omicidio
dell’onorevole Moro, quando si cominciò a parlare di Procura nazionale
antiterrorismo. Ricordo che allora ero alla Procura della Repubblica ed ebbi
l’incarico dal Procuratore capo De Matteo, con una delega, di fare il giro delle
varie Procure della Repubblica per vedere i processi che erano pendenti e i
fatti che venivano indagati (imputati o indagati e così via), per fare una sorta
di monitoraggio “fatto in casa” per creare un minimo di coordinamento fra le
varie Procure della Repubblica che si interessavano di fatti di terrorismo.
Peraltro, già da allora noi sappiamo che la platea terroristica non era occupata
soltanto dalle Brigate Rosse, ma c’erano anche tante altre organizzazioni
criminali, come Prima Linea, per esempio, a sinistra, ma poi c’erano anche le
organizzazioni terroristiche di destra. Quindi, si tentava all’epoca di fare un
minimo di coordinamento fra le varie attività. Siamo nel 1978, ma non se ne fece
niente. Se ne riparlò, invece, nel 1992, come dicevo, per quanto riguarda la
Procura nazionale antimafia. Dopo la morte di Falcone non si fece più niente.
Allora, io che ho speso quasi tutta la mia vita, nella carriera in magistratura,
nella lotta contro il terrorismo, ho ritenuto di fare il passo del gambero, cioè
ritornare da dove ero venuto, a costo anche di fare un passo indietro nella mia
carriera, perché è chiaro che il sostituto procuratore nazionale antimafia è un
punto in avanti rispetto al sostituto procuratore della Repubblica di Roma».
Sono passati 23 anni (dall’input di Falcone che aveva dato nuovo e
intelligente smalto all’idea di una superprocura nazionale antimafia e
antiterrorismo) e 38 anni (dall’uccisione di Aldo Moro). Fate voi le riflessioni
che ritenete. Io le mie le ho già fatte. E ve le ho sottoposte.
A domani con qualcosa di molto interessante sui misteri di questo Stato.
Roberto Galullo (2 marzo 2015, Il Sole24ore)
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