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Un frate e il caso Moro
Sul banco dei testimoni, nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone a
Palermo, è saluto ieri un frate, monsignor Fabio Fabbri, per anni vice di don
Cesare Curioni, il capo dei cappellani italiani. Fabbri è stato testimone della
gestione ai più alti livelli negli anni decisivi delle grandi stragi dagli anni
settanta ai novanta che hanno condotto Cosa Nostra ad eliminare tra gli altri,
con i giudici Chinnici, Falcone, Borsellino, il generale Dalla Chiesa e il
presidente della regione siciliana Pier Santi Mattarella, puntellate-sostengono
i magistrati dell’accusa-da rapporti frequenti tra organi dello Stato e
l’associazione mafiosa siciliana.
Il sacerdote era stato già ascoltato nel processo di primo grado che vedeva
imputati gli alti ufficiali dei Carabinieri, Mario Mori e Mauro Obinu. Prima di
invitare il testimone a rispondere alle domande, il procuratore aggiunto
Vittorio Teresi che rappresenta l’accusa con i pm Nino Di Matteo, Roberto
Tartaglia e Francesco Del Bene,gli ha chiesto di narrare al presidente della
Corte di Assise Alfredo Montalto, che cosa doveva comunicare. “Quando sono stato
chiamato per deporre al processo-ha detto don Fabbri- ho pensato di contattare
un amico dei servizi segreti per chiedergli se era il caso di venire o no, visto
che avevo già deposto sullo stesso argomento in un altro processo (quello contro
Mori e Obinou), spendendo 600 euro che non mi furono mai rimborsati.” E Fabbri
racconta:” Lui mi disse che si sarebbe interessato e in effetti mi pare l’abbia
fatto, ma in maniera un pò ambigua. Prima mi ha detto: fai una memoria e mandala
a Palermo, vedrai che l’audizione sarà spostata. Disse che lui sapeva che il
processo sarebbe saltato, poi, invece, mi disse di venire.” Alla domanda sul
perché Fabbri di rivolgersi all’amico invece di interpellare la Corte’ E chi è
questo amico?, Fabbri ha risposto :”Siccome ieri cominciava la Quaresima e avevo
problemi di allontanarmi da Siena dove abito, mi sono rivolto a questo amico. E’
la persona che tanti anni fa mi controllava durante il caso Moro. Si chiama Gino
ma non so se sia il suo vero nome: lo conobbi dopo che il caso Moro fu chiuso.
Adesso i magistrati dell’accusa cercheranno di capire chi sia l’amico
consigliere di Fabbri e perché ha consigliato al sacerdote di non venire a
deporre. Non è la prima volta che Fabbri tira in ballo oscuri personaggi legati
in qualche modo al caso Moro. Deponendo al processo per il mancato arre sto di
Provenzano molti anni prima che l’arresto avesse luogo, l’ecclesiastico raccontò
che, durante il sequestro dello statista pugliese, Papa Paolo VI “mise in moto
le sue pedine, prima per capire chi fossero i sequestratori e poi per trovare il
contatto con le BR. A Castel Gandolfo ho visto una consolle coperta da un drappo
azzurro che il Papa sollevò e mi fece vedere: una montagna di dollari, dieci
miliardi preparati per il riscatto di Aldo Moro. ” L’interrogatorio di Fabbri è
ritornato poi al suo rapporto con don Curioni. Nel 1993, l’allora presidente
della repubblica Oscar Luigi Scalfaro chiamò Curioni e Fabbri per individuare il
nuovo capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) al posto di
Niccolò Amato, considerato troppo duro nella gestione dell’articolo 41 bis con i
mafiosi detenuti.
“Era chiaro che Scalfaro non stimava Amato che “considerava una prima donna”.
Quando andammo al Quirinale, ricevemmo dal Capo dello Stato l’indicazione di
dare una mano al Guardasigilli, il prof. Giovanni Conso, per individuare il
nuovo direttore generale del DAP. Il ministro era molto agitato e non sapeva
come procedere per la sostituzione di Amato. Si mise le mani nei capelli…Il nome
di Adalberto Capriotti(oggi indagato per false informazioni ai pm) venne fatto
dallo stesso Fabbri. Si sonò la sua disponibilità e lui accettò. Conso controllo
su un grande registro e poi disse che si poteva fare.” Per la procura di Palermo
la sostituzione di Amato ai vertici del DAP è una mossa dovuta alla trattativa
Stato-mafia in corso. Scalfaro, secondo la deposizione di Fabbri, avrebbe voluto
un personaggio più morbido e meno intransigente sul carcere duro. Uno dei punti
fondamentali della trattativa è proprio l’alleggerimento delle condizioni
carcerarie dei boss di Cosa Nostra. “E? chiaro che l’eventuale revoca anche
soltanto parziale dei decreti che stabiliscono l’applicazione dell’articolo 41
bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito
dalla stagione delle bombe”, scrivono il 10 agosto gli analisti della Direzione
investigativa Antimafia e due mesi dopo, nel novembre 1993 il guardasigilli
Conso lascia scadere oltre trecento provvedimenti di 41 bis per detenuti
mafiosi. ” E’ il segno inequivocabile che la trattativa si è fatta e ha
conseguito il suo obbiettivo centrale.
Nicola Tranfaglia (24 febbraio 2015, Articolo21.org)
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